quinta-feira, 9 de julho de 2009
Il motu proprio Ecclesiae unitatem. Una prima analisi.
Il dato essenziale è questo: il nuovo motu proprio, lungi dal sottoporre i lefebvriani allo scrutinio e ai rigori del Sant’Uffizio, risponde precisamente alle loro richieste, ossia alla feuille de route che essi stessi hanno imposto: due condizioni preliminari (libertà per l’antica Messa e revoca delle scomuniche) – discussioni dottrinali sui punti controversi del Concilio – soluzione canonica che salvaguardi la loro autonomia dagli ordinari diocesani.
Ed è evidente a chiunque che l’oggetto di queste incipienti discussioni non può essere altro che quello che i progressisti definirebbero, con orrore, un "revisionismo del Concilio". Ossia, messa in discussione di quei dati (fallaci) che il totalitarismo dello spiritodelconcilio ha imposto in questi decenni: Concilio come superdogma, legittimazione di ogni audacia modernistica, ecumenismo sincretista, ecc. Il libro di mons. Gherardini è un chiaro indizio di quel che si vuole e che si chiede anche dall’interno della "Chiesa ufficiale": discutere e definire finalmente, senza preclusioni e con chiarezza, quale sia il valore cogente effettivo dei vari documenti conciliari, come vadano interpretati, ecc.
In un certo senso, la motivazione "ecumenica" dell’Unitas Ecclesiae (il titolo del motu proprio...) è un pretesto per poter affrontare il discorso, necessario agli occhi del Papa e di tutte le persone di buon senso, volto a rimettere il Vaticano II al suo posto: non più "IL" Concilio, specie di costituente fondativa di cui si strologa da 40 anni, ma "un" Concilio, uno tra tutti i 21 della storia ecclesiastica, e certamente non il più importante. Una messa a punto che sarebbe urgentissimo fare, anche qualora i lefebvriani non esistessero...
E l’inserzione dell’Ecclesia Dei nella Congregazione per la Dottrina della Fede non è soltanto una scelta logica quando si parla, appunto, di dottrina. Il nuovo motu proprio vuol far pensare sia solo quello il motivo, e per questo, crediamo, omette ogni accenno agli altri compiti dell’Ecclesia Dei (liturgici, disciplinari, di attuazione del motu proprio). Ma il vero motivo, è facile immaginare, è ben altro: l’ex Sant’Uffizio è l’unico dicastero romano formato integralmente da fedelissimi di Papa Ratzinger. Avendolo egli diretto per 25 anni, perfino gli uscieri e le segretarie sono stati da lui scelti e formati. Il che non accade affatto negli altri organismi di Curia, in cui il Papa può magari cambiare la testa, ma non le articolazioni inferiori che, come sempre, sono più importanti e strategiche dei dirigenti; specie quando si mettono di traverso. La Segreteria di Stato e la Congregazione per il Culto Divino ne offrono esempi significativi...
Quanto alla testa del S. Uffizio, e ora anche dell’Ecclesia Dei, ossia il card. Levada, si sostiene che il suo ruolo sia più nominale che altro, anche per problemi di salute e per l’età non lontana dalla pensione (73 anni). A parte questo egli, per quanto non sia di animo tradizionale, è prima di tutto un fedele del Papa, agli occhi del quale (e quindi anche ai nostri) questo è più che sufficiente.
E allora, per concludere, perché il documento ha tanti elementi che sembrano andare incontro ai progressisti antiratzingeriani? Nella domanda c’è già la risposta: appunto per tranquillizzare e calmare i fortissimi e spesso vocianti oppositori (quasi tutto l’episcopato mondiale, non dimentichiamolo). Così come Fellay è costretto ad alternare sapientemente le parole di pacatezza e ragionevolezza con gli slogan bellicosi rivolti agli elementi interni più refrattari al ritorno nella "Roma conciliare" (tra i quali l’altro vescovo Tissier de Mallerais), in modo analogo il Papa, certo con stile e sistemi ben differenti, deve tener conto dell’enorme opposizione interna. E deve fare proprio il motto che fu di Cartesio: festina lente!
fonte:messainlatino.it