sexta-feira, 31 de dezembro de 2010
Cardinale Raymond Leo Burke : a Sacra Liturgia è l’azione di Gesù Cristo, vivo nel Suo Corpo Mistico per l’effusione dello Spirito Santo; è il Suo dono a noi, che dobbiamo ricevere, apprezzare e salvaguardare secondo le indicazioni dei nostri Pastori e specialmente del Santo Padre, il Vicario di Cristo sulla terra, e perciò Pastore della Chiesa Universale. Siamo chiamati così nel tempo attuale ad accogliere l’insegnamento e la disciplina che il nostro Santo Padre Benedetto XVI ci ha dato nella sua Lettera Apostolica Summorum Pontificum, per la quale egli ha voluto restaurare la forma del Rito della Messa per esprimere più pienamente ed efficacemente la verità della Sacra Liturgia.
Riporto alcuni stralci dell'omelia pronunciata il 26 dicembre dal zelantissimo Cardinale Raymond Leo Burke, presso la parrocchia Santa Maria di Nazareth di Roma, su gentile invito di Mons. Gino Reali, Vescovo della Diocesi suburbicaria di Porto - Santa Rufina (entrambi nella foto a lato).
Dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, ma non in ragione del Concilio, la modalità di riforma del Rito della Messa per certi versi ha abbastanza oscurato l’azione divina nella Santa Messa, unendo cielo e terra, e ha indotto alcuni al pensiero erroneo che la Santa Liturgia è una nostra attività, che in qualche senso noi abbiamo inventato e con la quale allora noi possiamo fare esperimenti.
La verità della Sacra Liturgia è ben diversa. Infatti, la Sacra Liturgia è l’azione di Gesù Cristo, vivo nel Suo Corpo Mistico per l’effusione dello Spirito Santo; è il Suo dono a noi, che dobbiamo ricevere, apprezzare e salvaguardare secondo le indicazioni dei nostri Pastori e specialmente del Santo Padre, il Vicario di Cristo sulla terra, e perciò Pastore della Chiesa Universale. Siamo chiamati così nel tempo attuale ad accogliere l’insegnamento e la disciplina che il nostro Santo Padre Benedetto XVI ci ha dato nella sua Lettera Apostolica Summorum Pontificum, per la quale egli ha voluto restaurare la forma del Rito della Messa per esprimere più pienamente ed efficacemente la verità della Sacra Liturgia.
[...] Seguendo il magistero del Santo Padre, molto giustamente celebriamo il Rito Romano secondo la forma straordinaria oggi per aiutarci ad entrare più pienamente nella conoscenza del Mistero della Fede, il mistero dell’amore di Dio verso di noi, ed rispondere al mistero con amore puro e disinteressato verso Dio ed il prossimo.
DE:Cordialiter.it
O jovem Dom Alexander King Sample, bispo da diocese de Marquette (Michigan, EUA), há menos de um mês, celebrou, na Capela do Santíssimo da Catedral, pela primeira vez pública desde a introdução da "Forma Ordinária", uma Missa na Forma Extraordinária.
A Missa foi rezada, mas é esperado que em breve já possa haver o canto litúrgico e a Missa seja celebrada com toda a solenidade também.
Quem nos conta é o Pe. John Boyle no seu blog Caritas in Veritate, acrescentando que jovens coroinhas estavam bem interessados e agradecendo a generosidade dos fiéis leigos para a aquisição dos paramentos.
Isto se deu no dia 05 deste mês (II Domingo do Advento) e o bispo pretende celebrar assim mensalmente (num domingo). Nos outros domingos fazem-no outros padres, inclusive o sacerdote dono do blog e autor da postagem.
(Atitudes como esta eu desejaria ver serem tomadas em nosso Brasil, mas às vezes o cenário é tão desanimador... Deus abençoe Dom Sample e nos ajude!)
Algumas fotos:
Ritos iniciais ao pé do altar
"Orate fratres"/"Orai, irmãos..."
Elevação do Cálice com o Sangue de Cristo
Sagrada Comunhão
Depois de remover os paramentos e rezar, saída do bispo.
Quei segni perduti dell'identità cattolica di Vittorio Messori : Peccato che noi abbiamo finito per perderli praticamente tutti: avevamo una lingua liturgica comune, il latino, che non c’è più. Abbiamo perso i segni distintivi dell’abito sacerdotale e ora per strada in molti casi non siamo più in grado di distinguere un prete o un religioso.
Quei segni perduti dell'identità cattolica di Vittorio Messori
di Vittorio Messori
Riflettendo ieri sul tema del prosciutto spagnolo e dell’astinenza quaresimale dalle carni il venerdì, mi sono tornate in mente le parole pronunciate più volte da Benedetto XVI circa le minoranze creative. Sì, perché l’astenersi dalle carni il venerdì e specialmente i venerdì di Quaresima era un segno d’identità cattolica, uno dei tanti segni che abbiamo perso nel giro di pochi decenni.
Il Papa ci dice che il futuro per il cristianesimo sarà quello di essere una minoranza attiva e creativa, dato che nelle società secolarizzate non è più tempo del cristianesimo di massa. Alcuni segni di identità, il raccogliersi attorno a dei simboli, è fondamentale per una minoranza creativa.
Peccato che noi abbiamo finito per perderli praticamente tutti: avevamo una lingua liturgica comune, il latino, che non c’è più. Abbiamo perso i segni distintivi dell’abito sacerdotale e ora per strada in molti casi non siamo più in grado di distinguere un prete o un religioso.
Abbiamo perso il digiuno e l’astinenza, mentre un tempo era norma anche nelle mense scolastiche e aziendali l’attenzione a non servire carne di venerdì o comunqe ad avere menu alternativi. Abbiamo perso quel segno della fede nella resurrezione dei corpi che era la sepoltura sotto terra, ora sostituita in sempre maggiori casi dalla sciagurata cremazione.
Abbiamo perso l’usanza del velo per le donne in chiesa, precetto paolino presente nelle Sacre Scritture, abolito proprio da coloro che si rifanno alla Scrittura a ogni pie’ sospinto. Abbiamo perso le processioni come pure le feste patronali, che sopravvivono solo grazie all’illusorio boom folkloristico e sono ormai organizzate dalle pro loco.
Il cattolico non è più distinguibile, e questo sarebbe il meno. Il problema è che lui stesso, in qualche caso, non riesce più a capire chi è, a raccogliersi attorno a dei simboli e a delle usanze. Lungi da me ogni anacronismo e ogni falsa nostalgia. Credo però che così come c’è necessità di una «riforma della riforma» liturgica, allo stesso modo servirebbe un recupero di segni di identità per le minoranze creative che sono il futuro del cristianesimo.
quinta-feira, 30 de dezembro de 2010
Mons. Fellay: La vida de la Iglesia ha cambiado con el concilio. Y el balance es devastador. Ha disminuido la cantidad de sacerdotes y religiosas. Hay una pérdida de vitalidad religiosa difundida. Se debe hacer algo para restaurar la situación. La total libertad destruye la sociedad. Los hombres tienen necesidad de una ayuda especial para conocer el camino de Dios y la salvación de las almas. Por otro lado, el Papa ha vuelto a ideas tradicionales. Él ve muy bien que hay una desviación que se debe corregir. Tal vez estamos mucho más cerca del Papa de lo que parece.
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Presentamos nuestra traducción de una entrevista concedida por mons. Bernard Fellay, Superior de la Fraternidad Sacerdotal San Pío X, al periódico Nouvelles Calédoniennes.
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La Fraternidad de San Pío X se califica como tradicionalista pero se la acusa de fundamentalismo. Vosotros os oponéis, sin embargo, a todos los avances progresistas dados por la Iglesia desde 1962…
Nuestra situación es controvertida pero está también vinculada a esto que ocurre en la Iglesia Católica. La vida de la Iglesia ha cambiado con el concilio. Y el balance es devastador. Ha disminuido la cantidad de sacerdotes y religiosas. Hay una pérdida de vitalidad religiosa difundida. Se debe hacer algo para restaurar la situación. La total libertad destruye la sociedad. Los hombres tienen necesidad de una ayuda especial para conocer el camino de Dios y la salvación de las almas. Por otro lado, el Papa ha vuelto a ideas tradicionales. Él ve muy bien que hay una desviación que se debe corregir. Tal vez estamos mucho más cerca del Papa de lo que parece.
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¿Os habéis sorprendido por lo que Benedicto XVI dijo sobre tolerar el uso del preservativo en casos excepcionales, para combatir el AIDS?
He quedado un poco desilusionado por el libro. Pero he estado muy satisfecho por el cambio que se introdujo después: es claro que Roma quiere aclarar la cuestión del preservativo que ha creado confusión. El preservativo no es el modo para resolver este problema de salud. Va contra la naturaleza del acto de matrimonio porque impide el resultado normal de tal acto. La familia es muy importante. El acto deber ser hecho en el matrimonio. Hay una disciplina que debe ser respetada, que tenía mucho valor en el pasado y que hoy es despreciada.
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¿Sois conscientes de ir contracorriente respecto a la evolución de la sociedad?
Sí, soy bien consciente de ello. Pero no me molesta. A veces digo, incluso, que nos toman por marcianos. Pero no somos marcianos.
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¿El objetivo de vuestra comunidad es siempre el de formar parte de la Iglesia Católica?
Sí, siempre hemos sostenido que no queremos seguir un camino aparte. Nos mantenemos como católicos y lo seguimos siendo. Nosotros esperamos que Roma nos reconozca como verdaderos obispos. Por otro lado, ya no se usa la palabra “cismáticos” con nosotros. Por lo tanto, si no somos cismáticos ni heréticos, significa que somos claramente católicos. El Papa dijo que hay sólo un problema de orden canónico. Basta un acto de Roma para decir que ha terminado y que nosotros reingresamos en la Iglesia. Esto llegará. Soy muy optimista.
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¿Aceptareis, entonces, las decisiones del Vaticano II?
No, no de este modo. Pedimos que sean disipadas las grandes ambigüedades del Vaticano II.
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¿A qué llamáis las grandes ambigüedades?
En primer lugar, la libertad religiosa: ¿qué significa que cada hombre tiene el derecho de elegir su religión? No, el buen Dios ha fundado una sola. Luego, el ecumenismo: ¿es posible que un hombre se puede salvar en otras religiones diversas de la católica? No, existe sólo la Iglesia que salva.
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Sin embargo, existen diversas religiones en el mundo. ¿Qué legitimidad tenéis para negarlas?
Veo que existen pero no llegan a producir los efectos de la religión católica. Para afirmarlo, nos apoyamos en lo que dice la Iglesia antigua. El acercamiento de la Iglesia está bien explicado en el Vaticano I. Hay un montón de signos exteriores que permiten reconocer que la religión católica es la verdadera. Es una ciencia que se aprende. El ideal sería, naturalmente, demostrar la existencia de Dios. Nos acercamos a ello.
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Fuente: Messa in latino
Traducción: La Buhardilla de Jerónimo
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Why Celebrate Mass in Latin? Why pray in Latin or any language unfamiliar to the language of the people who attend? Why does the celebrant face away, or “have his back to us?” Why is so much of the Mass whispered quietly?
Today beginning at 12:30 pm here in Washington at the Basilica of the National Shrine of the Immaculate Conception, a Solemn High Pontifical Mass in the Extraordinary Form will be celebrated in the Great Upper Church. For those unfamiliar with all the Church jargon of the previous sentence let me decode. The “extraordinary Form” of the Mass is the form of the Mass as it was celebrated prior to 1965 when Liturgical changes brought about the Mass as we have it today. Prior to these changes the Mass was celebrated exclusively in Latin with only the homily (and sometimes the readings) in English or whatever the local language was. The celebrant also faced in the same direction as the people which some have wrongfully described as the priest “having his back to the people.” To say this is a “Solemn High” Mass means that all the ceremonial options are observed. There is incense, extra candle bearers, and many of the prayers and readings of the liturgy are sung. The celebrant is also assisted by a deacon and subdeacon. To say this is a pontifical Mass means that it will be celebrated by a bishop and will include two extra deacons and an assisting priest. Bishop Edward Slattery of Tulsa is today’s celebrant.
For those who are unfamiliar or unappreciative with the splendor of the Latin Liturgy in this form soem questions often arise.
1. Why pray in Latin or any language unfamiliar to the language of the people who attend?
Simply put, praying in Latin is to pray in what has been a sacred language for the Church. It is a common feature of cultures down through human history that they often prayed in a language other than the language of the home and streets. To pray liturgically is to enter heaven, a world apart from the every day world. To use another and more ancient language is a common way many cultures have underscored this.
At the time of Jesus, the synagogue services and the Temple liturgy used ancient Hebrew. Jesus and his contemporaries did not speak Hebrew at home or in the streets any longer. They spoke Aramaic. But when they prayed they instinctively used the ancient prayers which were Hebrew.
In the early Church it appears that the earliest years saw the use of the Greek language for the Liturgy. It seems to have been used even though many people spoke Latin throughout the empire. But many did not think Latin was suited for the Liturgy which required a more elevated language than what most people spoke. By the 5th Century however Latin came to be introduced in the Western Empire as it became an older and more venerable language to them. Eventually Latin wholly replaced Greek in the liturgy of the Church in the Western empire (except a few remnants such as the Kyrie). It remained the language of worship until about 1965 when the local languages were allowed. However, it was not the intent of the Church that Latin should wholly disappear as it has largely done. Latin remains for the Church the official language of her worship.
So, why pray in Latin? Why not? It is for us a sacred language of worship and there is an instinct in human culture that liturgy is world apart where we enter heaven. It is not wrong to pray in the local language but, truth be told, it is not the usual practice in human history.
2. Why does the celebrant face away, or “have his back to us?”
It is really a wrongful description to say the celebrant has his back to us. What is really happening is that the celebrant and the people are all facing the same direction. They are looking toward God. On the center of every older altar was a crucifix. The priest faced it to say Mass and all the people faced it with him. He and they are turned toward the Lord.
In the ancient Church, they not only faced the cross, they also faced to the east to pray. An ancient text called the Didiscalia written about 250 AD says, Now, you ought to face to east to pray for, as you know, scripture has it, Give praise to God who ascends above the highest heavens to the east . In later centuries it was not always possible to orient the Church so that everyone could face east. But the Crucifix above the altar represented the east and the Lord. Hence everyone faced the Lord to pray.
The idea of facing each other to pray is wholly modern and was never known in the Church prior to 1965. Hence the answer is that the celebrant is facing the Lord to pray and so are we.
3. Why is so much of the Mass whispered quietly?
Not everything is whispered but the much of the Eucharistic prayer is. Historically the whispered Eucharistic prayer (or Canon) developed in monastic settings where it was not uncommon for more than one liturgy to be celebrated at the same time at various side altars. In those days priests did not concelebrate masses as they do frequently today. Each priest had to celebrate his own mass. In monasteries where numerous priest might be in residence, numerous liturgies might be celebrated at similar times. In order not to interrupt each other, the priests conducted these liturgies with a server quietly. This practice continued into modern times.
Over time this monastic silence came to be regarded as a sacred silence. The whispering of the prayers was considered a sign of the sacredness of the words which “should not” be loudly proclaimed. (There are other more complicated theological trends that swept the liturgy too complicated to go into here that also influenced the move to a more silent liturgy) At any rate, the practice of a sacred silence came to be the norm eventually even in parish churches. Hence the hushed tones were not an attempt to ignore the faithful who attended or make their participation difficult but it was associated with a holy silence. People knelt, praying as the priest prayed on their behalf.
In the past century as literacy increased among the lay faithful it became more common to provide them with books that contained the texts of the liturgy and those who could read were encouraged to follow along closely. Through the 1940s and 50s these books (called “missals”) became quite common among the laity. By the 1950s there were also some experiments with allowing the priest to have a microphone or to raise the level of his voice so the faithful could follow more easily. These “dialogue Masses” were more popular in some place than others. Sacred silence was still valued by many and adjusting to a different experience was not always embraced with the same fervor, it varied from place to place.
Today, with the return in some places to the celebration of the Old Latin Mass (called officially the “Extraordinary Form”) this sacred silence is once again in evidence. For those who are not used to it, it seems puzzling. But hopefully some of this history helps us understand it. Once again we are faced with the dilemma of how loudly the priest should pray the Canon (Eucharistic Prayer) at such Masses. There are different opinions but a fairly wide consensus that the prayer should be generally said in a very subdued voice.
DE:http://blog.adw.org/2010/04/why-pray-in-latin/
CÓMO EL ERROR DEL LIBERALISMO SOCAVA LA FE CATÓLICA
Es cosa sabida que la Iglesia ha condenado "ex cathedra" el liberalismo desde siempre, por lo que no es de extrañar que la Doctrina Social de la Iglesia haya sido históricamente tan dura con el capitalismo (que no deja de ser la plasmación económica del pensamiento liberal).
Algún amigo, sin duda con toda la buena intención del mundo, me ha querido convencer últimamente de las bondades de ciertos medios de comunicación liberales ("Intereconomía", "Alba", etc.) que se muestran abiertamente católicos (o eso aparentan al menos). Mi respuesta siempre ha sido a misma: en esos medios hay gente muy valiosa y se defienden muchas veces causas nobles (la vida, por ejemplo), pero al mismo tiempo se difunden errores gravísimos que se hacen pasar por católicos: se defiende el capitalismo, el naturalismo religioso, la democracia liberal, etc. Ello hace que mi disgusto con esos medios de comunicación sea mayúsculo, pues su buena labor en ciertos campos se ensombrece de una manera total con la filosofía errónea con la que impregnan casi todo. De los medios de comunicación en general ningún católico espera coherencia doctrinal con su fe, pero de los que presumen de católicos sí se espera eso, por lo que se da por hecho que la correspondencia existe y con ello el daño que producen es finalmente mucho mayor. Nadie espera coherencia con los principios católicos en "El País" o "Cuatro TV", pero sí en "Alba" o "Intereconomía TV", y por eso es tan dañina su línea editorial sin parecerlo a simple vista.
Los oyentes y lectores habituales de esos medios de comunicación se empapan de "liberalismo católico" (contradicción donde las haya) casi sin darse cuenta, y con ello ven alterados sus principios religiosos sin percatarse de ello. ¡Hasta cuando defienden abiertamente a la Iglesia se apoyan en argumentos económicos, humanitarios o artísticos que son absolutamente secundarios y accesorios!
A ellos, a los católicos de buena voluntad que no se dan cuenta de los peligros de ese "liberalismo católico", dedico hoy unos párrafos del magnífico libro -todo un clásico del pensamiento católico del siglo XIX- titulado "El liberalismo es pecado":
"Por lo demás se llaman católicos, porque creen firmemente que el Catolicismo es la única verdadera revelación del Hijo de Dios; pero se llaman católicos liberales o católicos libres, porque juzgan que esta creencia suya no les debe ser impuesta a ellos ni a nadie por otro motivo superior que el de su libre apreciación. De suerte que, sin sentirlo ellos mismos, encuéntranse los tales con que el diablo les ha sustituido arteramente el principio sobrenatural de la fe por el principio naturalista del libre examen. Con lo cual, aunque juzgan tener fe de las verdades cristianas, no tiene tal fe de ellas, sino simple humana convicción, lo cual es esencialmente distinto.
Síguese de ahí que juzgan su inteligencia libre de creer o de no creer, y juzgan asimismo libre la de todos los demás. En la incredulidad, pues, no ven un vicio, o enfermedad, o ceguera voluntaria del entendimiento, y más aún del corazón, sino un acto lícito de la jurisdicción interna de cada uno, tan dueño en eso de creer, como en lo de no admitir creencia alguna. (...) De ahí el respeto sumo con que entienden deben ser tratadas siempre las convicciones ajenas, aun las más opuestas a la verdad revelada; pues para ellos son tan sagradas cuando son erróneas como cuando son verdaderas, ya que todas nacen de un mismo sagrado principio de libertad intelectual. Con lo cual se erige en dogma lo que se llama tolerancia, y se dicta para la polémica católica contra los herejes un nuevo código de leyes, que nunca conocieron en la antigüedad los grandes polemistas del Catolicismo.
Siendo esencialmente naturalista el concepto primario de la fe, síguese de eso que ha de ser naturalista todo el desarrollo de ella en el individuo y en la sociedad. De ahí el apreciar primaria, y a veces casi exclusivamente, a la Iglesia por las ventajas de cultura y de civilización que proporciona a los pueblos; olvidando y casi nunca citando para nada su fin primario sobrenatural, que es la glorificación de Dios y la salvación de las almas. Del cual falso concepto aparecen enfermas varias de las apologías católicas que se escriben en la época presente. De suerte que, para los tales, si el Catolicismo por desdicha hubiese sido causa en algún punto de retraso material para los pueblos, ya no sería verdadera ni laudable en buena lógica tal Religión. Y cuenta que así podría ser, como indudablemente para algunos individuos y familias ha sido ocasión de verdadera ruina material el ser fieles a su Religión, sin que por eso dejase de ser ella cosa muy excelente y divina.
Este criterio es el que dirige la pluma de la mayor parte de los periódicos liberales, que si lamentan la demolición de un templo, sólo saben hacer notar en eso la profanación del arte, si abogan por las ordenes religiosas, no hacen más que ponderar los beneficios que prestaron a las letras; si ensalzan a la Hermana de la Caridad, no es sino en consideración a los humanitarios servicios con que suaviza los horrores de la guerra; si admiran el culto, no es sino en atención a su brillo exterior y poesía; si en la literatura católica respetan las Sagradas Escrituras, es fijándose tan sólo en su majestuosa sublimidad. De este modo de encarecer las cosas católicas únicamente por su grandeza, belleza, utilidad o material excelencia, síguese en recta lógica que merece iguales encarecimientos el error cuando tales condiciones reuniere, como sin duda las reúne aparentemente en más de una ocasión alguno de los falsos cultos.
Hasta a la piedad llega la maléfica acción de este principio naturalista, y la convierte en verdadero pietismo, es decir, en falsificación de la piedad verdadera. Así lo vemos en tantas personas que no buscan en las prácticas devotas más que la emoción, lo cual es puro sensualismo del alma y nada más. Así aparece hoy día en muchas almas enteramente desvirtuado el ascetismo cristiano, que es la purificación del corazón por medio del enfrentamiento de los apetitos. y desconocido el misticismo cristiano, que no es la emoción, ni el interior consuelo, ni otra alguna de esas humanas golosinas, sino la unión con Dios por medio de la sujeción a su voluntad santísima y por medio del amor sobrenatural.
Por eso es Catolicismo liberal, o mejor, Catolicismo falso, gran parte del Catolicismo que se usa hoy entre ciertas personas. No es Catolicismo, es mero Naturalismo, es Racionalismo puro, es Paganismo con lenguaje y formas católicas, si se nos permite la expresión."
Félix Sardá y Salvany, Pbro. – "El liberalismo es pecado" – 1884
¿Qué diría hoy ese magnífico sacerdote, tan catalán como español hasta la médula, de los medios de comunicación "católicos" del siglo XXI? Creo que no es difícil de adivinar, ¿verdad? Pues eso mismo.
Fuente: Clamar en el desierto
Algún amigo, sin duda con toda la buena intención del mundo, me ha querido convencer últimamente de las bondades de ciertos medios de comunicación liberales ("Intereconomía", "Alba", etc.) que se muestran abiertamente católicos (o eso aparentan al menos). Mi respuesta siempre ha sido a misma: en esos medios hay gente muy valiosa y se defienden muchas veces causas nobles (la vida, por ejemplo), pero al mismo tiempo se difunden errores gravísimos que se hacen pasar por católicos: se defiende el capitalismo, el naturalismo religioso, la democracia liberal, etc. Ello hace que mi disgusto con esos medios de comunicación sea mayúsculo, pues su buena labor en ciertos campos se ensombrece de una manera total con la filosofía errónea con la que impregnan casi todo. De los medios de comunicación en general ningún católico espera coherencia doctrinal con su fe, pero de los que presumen de católicos sí se espera eso, por lo que se da por hecho que la correspondencia existe y con ello el daño que producen es finalmente mucho mayor. Nadie espera coherencia con los principios católicos en "El País" o "Cuatro TV", pero sí en "Alba" o "Intereconomía TV", y por eso es tan dañina su línea editorial sin parecerlo a simple vista.
Los oyentes y lectores habituales de esos medios de comunicación se empapan de "liberalismo católico" (contradicción donde las haya) casi sin darse cuenta, y con ello ven alterados sus principios religiosos sin percatarse de ello. ¡Hasta cuando defienden abiertamente a la Iglesia se apoyan en argumentos económicos, humanitarios o artísticos que son absolutamente secundarios y accesorios!
A ellos, a los católicos de buena voluntad que no se dan cuenta de los peligros de ese "liberalismo católico", dedico hoy unos párrafos del magnífico libro -todo un clásico del pensamiento católico del siglo XIX- titulado "El liberalismo es pecado":
"Por lo demás se llaman católicos, porque creen firmemente que el Catolicismo es la única verdadera revelación del Hijo de Dios; pero se llaman católicos liberales o católicos libres, porque juzgan que esta creencia suya no les debe ser impuesta a ellos ni a nadie por otro motivo superior que el de su libre apreciación. De suerte que, sin sentirlo ellos mismos, encuéntranse los tales con que el diablo les ha sustituido arteramente el principio sobrenatural de la fe por el principio naturalista del libre examen. Con lo cual, aunque juzgan tener fe de las verdades cristianas, no tiene tal fe de ellas, sino simple humana convicción, lo cual es esencialmente distinto.
Síguese de ahí que juzgan su inteligencia libre de creer o de no creer, y juzgan asimismo libre la de todos los demás. En la incredulidad, pues, no ven un vicio, o enfermedad, o ceguera voluntaria del entendimiento, y más aún del corazón, sino un acto lícito de la jurisdicción interna de cada uno, tan dueño en eso de creer, como en lo de no admitir creencia alguna. (...) De ahí el respeto sumo con que entienden deben ser tratadas siempre las convicciones ajenas, aun las más opuestas a la verdad revelada; pues para ellos son tan sagradas cuando son erróneas como cuando son verdaderas, ya que todas nacen de un mismo sagrado principio de libertad intelectual. Con lo cual se erige en dogma lo que se llama tolerancia, y se dicta para la polémica católica contra los herejes un nuevo código de leyes, que nunca conocieron en la antigüedad los grandes polemistas del Catolicismo.
Siendo esencialmente naturalista el concepto primario de la fe, síguese de eso que ha de ser naturalista todo el desarrollo de ella en el individuo y en la sociedad. De ahí el apreciar primaria, y a veces casi exclusivamente, a la Iglesia por las ventajas de cultura y de civilización que proporciona a los pueblos; olvidando y casi nunca citando para nada su fin primario sobrenatural, que es la glorificación de Dios y la salvación de las almas. Del cual falso concepto aparecen enfermas varias de las apologías católicas que se escriben en la época presente. De suerte que, para los tales, si el Catolicismo por desdicha hubiese sido causa en algún punto de retraso material para los pueblos, ya no sería verdadera ni laudable en buena lógica tal Religión. Y cuenta que así podría ser, como indudablemente para algunos individuos y familias ha sido ocasión de verdadera ruina material el ser fieles a su Religión, sin que por eso dejase de ser ella cosa muy excelente y divina.
Este criterio es el que dirige la pluma de la mayor parte de los periódicos liberales, que si lamentan la demolición de un templo, sólo saben hacer notar en eso la profanación del arte, si abogan por las ordenes religiosas, no hacen más que ponderar los beneficios que prestaron a las letras; si ensalzan a la Hermana de la Caridad, no es sino en consideración a los humanitarios servicios con que suaviza los horrores de la guerra; si admiran el culto, no es sino en atención a su brillo exterior y poesía; si en la literatura católica respetan las Sagradas Escrituras, es fijándose tan sólo en su majestuosa sublimidad. De este modo de encarecer las cosas católicas únicamente por su grandeza, belleza, utilidad o material excelencia, síguese en recta lógica que merece iguales encarecimientos el error cuando tales condiciones reuniere, como sin duda las reúne aparentemente en más de una ocasión alguno de los falsos cultos.
Hasta a la piedad llega la maléfica acción de este principio naturalista, y la convierte en verdadero pietismo, es decir, en falsificación de la piedad verdadera. Así lo vemos en tantas personas que no buscan en las prácticas devotas más que la emoción, lo cual es puro sensualismo del alma y nada más. Así aparece hoy día en muchas almas enteramente desvirtuado el ascetismo cristiano, que es la purificación del corazón por medio del enfrentamiento de los apetitos. y desconocido el misticismo cristiano, que no es la emoción, ni el interior consuelo, ni otra alguna de esas humanas golosinas, sino la unión con Dios por medio de la sujeción a su voluntad santísima y por medio del amor sobrenatural.
Por eso es Catolicismo liberal, o mejor, Catolicismo falso, gran parte del Catolicismo que se usa hoy entre ciertas personas. No es Catolicismo, es mero Naturalismo, es Racionalismo puro, es Paganismo con lenguaje y formas católicas, si se nos permite la expresión."
Félix Sardá y Salvany, Pbro. – "El liberalismo es pecado" – 1884
¿Qué diría hoy ese magnífico sacerdote, tan catalán como español hasta la médula, de los medios de comunicación "católicos" del siglo XXI? Creo que no es difícil de adivinar, ¿verdad? Pues eso mismo.
Fuente: Clamar en el desierto
La laïcité est d’essence satanique !
« La Révolution est inspirée par Satan lui-même,
son but est de détruire de fond en comble
l’édifice du christianisme «
S’il faut en croire les définitions, l’adjectif « laïque», s’opposerait à « clérical », désignant l’indépendance du pouvoir politique par rapport à toute autorité religieuse. Pour les Républicains français, venant de tout l’horizon de l’arc politique - de l’extrême gauche à l’extrême droite - le cléricalisme renverrait d’ailleurs, non directement à la religion, mais à la prétention des clercs de l’Eglise à régir la vie publique d’un État au nom de Dieu.
Or la laïcité, loin de cette image caricaturale et fallacieuse, a été appliquée lors de la Révolution en pratique par un combat anticlérical farouche, violent et criminel, consistant non pas à séparer le pouvoir politique du fait religieux en tant que tel comme on le prétend mensongèrement, mais à détruire systématiquement l’influence de l’Église catholique au sein de la Nation.
I. La laïcité vise à la destruction de l’ordre surnaturel
En effet, l’idéologie de la laïcité est orientée vers un seul et unique but : la destruction de l’ordre surnaturel, dérivant d’un centre obscur et ténébreux, alors même qu’elle ne l’avoue évidemment pas, comme l’enseigne Léon XIII dans l’encyclique Humanum Genus. [1] L’objectif de la laïcité est simple, c’est la destruction de l’Eglise. Comme le déclarait M. Aulard, chargé d’enseigner en Sorbonne l’histoire de la Révolution : «Ne disons plus : nous ne voulons pas détruire la religion disons, au contraire nous voulons détruire la religion, afin de pouvoir établir la cité nouvelle».
Tous les articles de la Déclaration des Droits de l’Homme
sont de poignards dirigés contre la société chrétienne.
Les principes de la laïcité sont renfermés dans la déclaration des Droits de l’Homme, alors qu’au jugement de Taine :
«Tous les articles de la Déclaration des Droits de l’Homme sont autant de poignards dirigés contre la société chrétienne. Il n’y a qu’à pousser le manche pour faire entrer la lame».
Pousser le manche, c’est travailler à leur complète réalisation, la ruine de l’Eglise, la mise à mort des fondements de la société chrétienne, anéantir les institutions religieuses pour ne laisser subsister que la haine du sacré, où à la place de l’ordre divin est substitué le suffrage universel, si justement appelé le « mensonge universel » par le pape Pie lX.
Le suffrage universel, fut appelé le « mensonge universel »
par le pape Pie lX
« Mensonge universel », l’un des piliers des valeurs républicaines, par lequel sont entraînées, avec un sens consommé de la démagogie et du spectacle, les multitudes ignorantes des hautes questions politiques, faciles à séduire par quiconque les flatte, ou qui, absorbées par les nécessités quotidiennes de la vie, sont incapables de préférer l’intérêt général à leurs intérêts particuliers du moment.
II. La République détruit les nations chrétiennes
La République, en poussant au pouvoir des hommes convaincus des thèses de 1789, est parvenue à tuer les nations chrétiennes, et en particulier la France. De ce fait, politiquement la France est morte et spirituellement à l’agonie, et il en faut dire autant de ses sœurs, les nations anciennement chrétiennes. Toutes ces nations renferment dans leur sein des partis puissants infectés par les idées de la Révolution, ennemis absolus de la religion. Il n’y aura plus de Français en France quand il n’y aura plus de catholiques, et il faut en dire autant des autres nations catholiques, il n’y aura plus d’Italiens en Italie, d’Espagnols en Espagne, quand il n’y aura plus de catholiques. Comme le souligne Mgr Delassus :
« Les musulmans qui occupèrent l’Espagne ne furent pas Espagnols, à la différence des doctrinaires du dogme républicains, libres penseurs, hommes de la démocratie internationale qui, se revendiquant Français, sont bien pires, et assurément beaucoup plus dangereux que les disciples du prophète de la Mecque ».
Les Républicains sont beaucoup plus dangereux
que les disciples du prophète de la Mecque !
Les républicains sont fidèles aux principes vitaux de la laïcité : la haine de Jésus-Christ et l’aspiration à la domination universelle des Droits de l’Homme.
Le surnaturel avait pénétré toutes les institutions de la France et des pays catholiques depuis Constantin et l’établissement de l’Ordre chrétien ; il était admis comme la norme de la vie, même par ceux qui en violaient les lois. Pour l’extirper, la révolution inonda la France de sang, et en fit un amoncellement de ruines. Elle prétendit établir le culte de la Nature, de la Raison. Ce culte eut sa liturgie, ses fêtes, ses catéchismes.
La République n’a cessé de travailler à donner le naturalisme et le libéralisme comme bases de la législation des institutions, de la politique. Le surnaturel est l’ennemi qu’il fallait faire disparaître.
La guerre fut si bien conduite que du domaine politique où les thèses perverses de la laïcité anti-religieuse s’étendirent à tous les régimes totalitaires (Russie communiste, Espagne républicaine, Chine de Mao, Pol Pot, etc.) plongeant l’humanité dans un bain de sang sans précédent dans l’Histoire qui se chiffre sans doute par plusieurs centaines de millions de morts en s’attaquant de façon terrifiante au christianisme, massacrant les ministres de la religion, brûlant et détruisant les églises, l’idéologie née de la Révolution française généra dans l’Eglise le Modernisme, ce « rendez-vous de toutes les erreurs » qui a séduit des hommes se disant et se croyant catholiques, indifféremment prêtres, évêques, cardinaux et papes.
Le Syllabus de Pie IX [2] se termine donc par cette proposition condamnable et condamnée : « Le Pontife romain peut et doit se réconcilier et transiger avec le progrès, le libéralisme et la civilisation moderne. »
Comme l’écrivit Mgr Delassus :Conclusion« Tout le mouvement imprimé à la chrétienté par la Renaissance, la Réforme et la Révolution est un effort satanique pour arracher l’homme à l’ordre surnaturel établi par Dieu à l’origine et restauré par Notre-Seigneur Jésus-Christ au milieu des temps, et le confiner dans le naturalisme. Comme tout était chrétien dans la constitution française, tout était à détruire. La Révolution s’y employa consciencieusement. En quelques mois, elle fit table rase du gouvernement de la France, de ses lois et de ses institutions. Elle voulait « façonner un peuple nouveau – c’est l’expression qu’on retrouve, à chaque page, sous la plume des rapporteurs de la Convention; bien mieux « refaire l’homme» lui-même. » (La Conjuration antichrétienne, 1910, Desclée de Brouwer, pp. 51-52).
et les principes républicains de la laïcité,
sont des éléments inspirés par le démon,
pensés et voulus par la franc-maçonnerie !
Inutile de nous étendre plus longuement sur l’œuvre entreprise par la Révolution. Le Pape Pie IX l’a caractérisée d’un mot, dans son Encyclique du 8 décembre 1849 :« La Révolution est inspirée par Satan lui-même; son but est de détruire de fond en comble l’édifice du christianisme et de reconstruire sur ses ruines l’ordre social du paganisme. » (Encyclique Noscitis et Nobiscum).
Ainsi donc, s’appuyer sur la laïcité et les principes républicains, ou encore la loi de séparation de l’Eglise et de l’Etat de 1905, éléments inspirés par le démon, pensés et voulus par la franc-maçonnerie pour défendre la civilisation, comme certains politiciens ou hommes publics contemporains tentent de nous en convaincre, est l’un des plus grands pièges tendus aux âmes catholiques d’aujourd’hui au moment où la société est prête de s’effondrer, car nul compromis – à aucun prix car le prétendu remède serait pire encore que le mal – n’est envisageable ni possible avec les forces de l’Enfer !
Notes.1. Humanum Genus, encyclique de Léon XIII publiée le 20 avril 1884, est directement dirigée contre l’idéologie républicaine et maçonnique en des termes extrêmement fermes, montrant que le monde est séparé entre deux forces antagonistes absolument irréconciliables : « Depuis que, par la jalousie du démon, le genre humain s’est misérablement séparé de Dieu auquel il était redevable de son appel à l’existence et des dons surnaturels, il s’est partagé en deux camps ennemis, lesquels ne cessent pas de combattre, l’un pour la vérité et la vertu, l’autre pour tout ce qui est contraire à la vertu et à la vérité. Le premier est le royaume de Dieu sur la terre, à savoir la véritable Eglise de Jésus Christ, dont les membres, s’ils veulent lui appartenir du fond du cœur et de manière à opérer le salut, doivent nécessairement servir Dieu et son Fils unique, de toute leur âme, de toute leur volonté. Le second est le royaume de Satan. Sous son empire et en sa puissance se trouvent tous ceux qui, suivant les funestes exemples de leur chef et de nos premiers parents, refusent d’obéir à la loi divine et multiplient leurs efforts, ici, pour se passer de Dieu, là pour agir directement contre Dieu. »
2. En 1864, Pie IX énumère dans le Syllabus « quatre-vingts erreurs de notre temps ». Il s’agit d’une liste de contre-vérités concernant notamment la démocratie, la liberté de religion, la séparation de l’Église et de l’État, le rationalisme, le socialisme et toute forme de modernisme. Le Syllabus fut publié avec l’encyclique Quanta cura du 8 décembre 1864, mais formellement sans signature ni date et envoyé par le cardinal Antonelli, Secrétaire d’État, aux évêques du monde entier. L’encyclique dénonce plus précisément le naturalisme politique. Le Syllabus déborde largement ce thème: il traite d’erreurs aussi diverses que le modernisme, panthéisme, le rationalisme, le socialisme, le laïcisme (sans le mot), la séparation de l’Eglise et de l’Etat (sans le mot), le naturalisme moral, la négation du principat civil du Pontife romain et enfin le libéralisme en général.
Convegno di Roma sul Vaticano II, 16 dicembre. Testo integrale della Relazione del Prof. De Mattei : In realtà, nessun Concilio conobbe, più del Vaticano II, tensioni e conflitti tra gruppi contrapposti. Gli storici pur non negando quest’evidenza, la riconducono al contrasto tra una “maggioranza” progressista e una “minoranza” conservatrice, destinata ad essere sconfitta. l Concilio non esaudì le richieste che emergevano dai “vota” dei Padri conciliari, ma assecondò le rivendicazioni della minoranza progressista che, fin dall’inizio, riuscì a porsi alla testa dell’assemblea e ad orientarne le decisioni. Dietro questi gruppi organizzati si muovevano altri gruppi organizzati, di vescovi e di teologi, che formarono un partito apertamente antiromano, perché vedeva nella Curia di Roma il nemico da battere.
Sono in grado di pubblicare, per gentile concessione del Prof. de Mattei, il testo integrale del suo intervento al Convegno sul Concilio Vaticano II, organizzato dai Francescani dell'Immacolata, un evento che fornisce materiale e spunti rilevanti per le nostre riflessioni e approfondimenti e sarà fondante per l'evoluzione ulteriore di un discorso serio, ormai ineludibile per il futuro della nostra Chiesa. (il testo che sarà pubblicato tra gli Atti del Convegno sarà arricchito anche delle note)
L'intervento di De Mattei, ricco del pathos dato dal coinvoglimento spirituale dell'autore ma anche del rigore e dell'appassionata ricerca dello storico, delinea il filo conduttore attraverso il quale acquistano collocazione e senso documenti ed immagini di un repentino cambiamento: fatti, concatenamenti, causalità, con un metodo e dei criteri che per la prima volta, dopo anni di egemonia incontrastata, ci consentono di misurarci ad un livello serio e autorevole con la poderosa opera storiografica che, iniziata da Giuseppe Alberigo e poi da Alberto Melloni (la nota "Scuola di Bologna"), aveva prodotto fino a oggi l'unica organica ricostruzione del fenomeno conciliare, che Gnocchi e Palmaro definiscono efficacemente: "Ricostruzione tendenziosa, ideologica e persino eversiva, certo, ma fatta da gente che il mestiere di storico, innegabilmente, lo conosce bene."
E così abbiamo il controcanto di tutto rispetto offerto dal prof. de Mattei, preceduto dalla sua opera storica: Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010, che possiamo considerare una delle strutture portanti - insieme all'opera filosofica di Romano Amerio, a quella teologica di Brunero Gherardini ed agli altri autorevoli e magistrali interventi dei quali proseguiremo l'esame - della ricostruzione sulle macerie della cosidetta "nuova Pentecoste" conciliare.
Esso fornisce a studiosi e fedeli la visione cattolica non 'spuria' né ammaliata dai canti delle sirene delle avventurose arbitrarie innovazioni, foriere per molti di "magnifiche sorti e progressive". Esse stanno aprendo orizzonti nuovi e sconosciuti, avulsi dalla linfa vitale delle Radici della Tradizione perenne, che può essere oggetto di "trasformazione evolutiva", ma nella 'continuità' e non nella 'rottura', come ricordato da Benedetto XVI nel discorso alla curia del 2005. E' questo lo spartiacque che, evidenziando la contrapposizione tra due ermeneutiche del concilio, lungi dall'aver chiuso il discorso, ha di fatto aperto il confronto tra due visioni inconciliabili della chiesa.
Se nel convegno si è evidenziato come la lettura progressista enfatizzi il concilio come "evento" fondante della "nuova Pentecoste" e, dando priorità all'evento-impulso di novità che si voleva imprimere, ha fatto e fa sì che l'evento assorba il testo e lo sposti nella sua ricezione, si è tuttavia constatato proprio con De Mattei come le pericolose spinte eversive, dentro e fuori l'aula conciliare, non abbiano dato vita ad un soggetto in qualche modo nuovo; il che ha espulso dall'orizzonte storiografico il concetto mitico di "evento conciliare", eliminando automaticamente con esso quello di "nuova chiesa".
Inserisco quindi il testo della relazione. Offrirò in apertura della discussione alcune chiavi di lettura, tra le più significative.
Istituto Maria Santissima Bambina
Roma, 16 dicembre 2010
Concilio Vaticano II
1. L’immagine della Chiesa nel 1962
Eccellenze reverendissime, Monsignori, Reverendi Padri, Signore e Signori,
chi vi parla è uno storico ed è dalla storia che vorrei partire, tornando assieme a voi a quel giorno dell’11 ottobre 1962, in cui si aprì a Roma il Concilio Vaticano II, ventunesimo Concilio ecumenico della storia della Chiesa.
Il lungo corteo dei Padri conciliari, che quella mattina uscì dalla Porta di Bronzo e avanzò lentamente all’interno della Basilica di San Pietro stracolma, offriva una straordinaria immagine della Chiesa militante sulla terra.
In testa i superiori di ordini religiosi, gli abati generali e i prelati nullius; quindi i vescovi, gli arcivescovi, i patriarchi, i cardinali, e per ultimo, in sedia gestatoria, scortato dalla Guardia nobile, tra gli applausi della folla, il Papa Giovanni XXIII. Mentre il corteo dei padri incedeva con solennità, i cantori intonarono il Credo e poi il Magnificat. Il corteo era lungo complessivamente circa 4 chilometri; vi partecipavano quasi tremila dignitari della Chiesa. Di essi 2.381 vescovi, direttamente collegati mediante la successione apostolica ai primi Apostoli. Essi erano riuniti attorno al sovrano supremo, il Papa, Vicario di Cristo, con giurisdizione piena e diretta su tutti i vescovi e su tutti i fedeli del mondo.
La presenza del Vicario di Cristo e dei successori degli Apostoli, nel quadro incomparabile della Basilica di San Pietro, fecero di quella cerimonia uno spettacolo unico al mondo. Mai come in questo momento la Chiesa cattolica manifestò il suo carattere, gerarchico e visibile: visibile perché la Chiesa militante, in quanto fondata sull’Incarnazione del Verbo, deve rendere manifesto nella sua struttura il suo aspetto invisibile, come l’organismo umano rende tutto l’uomo visibile, benché la sua anima in sé resti invisibile. Per amare questa gerarchia era, ed è, necessaria una profonda umiltà. Bisogna ammettere che non esiste uguaglianza nel mondo creato, che tutto dipende da Dio, che partecipa l’essere a ogni creatura in maniera diversa: e con l’essere ogni creatura riceve qualità, doni, grazie in base alle quali occupa nella società terrena e in quella soprannaturale un posto diverso. Il primo peccato, quello degli angeli ribelli, fu il rifiuto di riconoscere la sapienza di Dio, nel calare la propria divinità nel seno di un'umile creatura, come avvenne per il Verbo Incarnato, e per elevare questa creatura, Maria, al vertice dell’universo creato. I cori degli Angeli Fedeli esprimono nel cielo questa sublime dipendenza gerarchica e la Chiesa e la società cristiana sono chiamate a riflettere sulla terra la gerarchia dei cori celesti.
Universalità, sacralità, gerarchia: questa era l’immagine che l’11 ottobre del 1962 di sé dava al mondo la Chiesa militante sulla terra, soprannaturalmente unita alla Chiesa sofferente e alla Chiesa trionfante nell’unica Comunione dei Santi. La Chiesa appariva davvero la città posta sul monte di cui parla il Vangelo (Mt, 5,14).
2. Il rapporto tra la Chiesa e il mondo
Ma qual era l’immagine che di sé offriva il mondo all’inizio degli anni Sessanta?
Il mondo di quegli anni era immerso in un clima psicologico di ottimismo, se non di euforia. Tre icone brillavano nel firmamento internazionale, incarnando questo clima di ottimismo: Nikita Sergeevic Krusciov, dal 27 marzo 1958 premier dell’Unione Sovietica; Angelo Giuseppe Roncalli, asceso al soglio pontificio il 28 ottobre di quello stesso 1958 con il nome di Giovanni XXIII e John Fitzgerald Kennedy, che il 21 gennaio 1961 aveva assunto la carica di Presidente degli Stati Uniti.
Il 12 aprile 1961 il maggiore sovietico Yuri Gagarin aveva compiuto il primo volo di un uomo nello spazio. La sua impresa sembrava suggellare un’epoca di trionfo della scienza, campo in cui l’Unione Sovietica contendeva agli Stati Uniti il primato nel mondo. Ma il 13 agosto di quello stesso 1961 era iniziata la costruzione del Muro di Berlino e l’imperialismo sovietico estendeva la sua ombra minacciosa su larga parte del mondo.
L’influenza che il comunismo esercitava sul mondo, più che politica e militare, era culturale e psicologica. La filosofia marx-hegeliana dominava negli ambienti accademici e mediatici e anche nel linguaggio comune correvano termini mutuati da quella filosofia immanentista, come “senso della storia”, “corso dei tempi”, “apertura e chiusura”, “liberazione e repressione”. Si trattava di una visione dialettica che si esprimeva nelle nuove parole d’ordine lanciata dalla propaganda comunista: il “dialogo”, inteso come dissolvimento di ogni certezza e verità; la “coesistenza pacifica”, intesa come processo per disarmare psicologicamente l’avversario; lo “sviluppo” e l’“emancipazione” dei popoli, intesi come rifiuto di ogni autorità e tradizione del passato. L’ideologia soggiacente era quello del progresso inteso come marcia irreversibile e ascensionale dell’umanità per raggiungere una “felicità” sociale presentata come la trasposizione sulla terra del Paradiso celeste.
Nel corso della sua storia, la Chiesa aveva parlato al mondo con il linguaggio dei confessori senza macchia e senza paura, dei dottori inflessibili nelle loro controversie, dei martiri intransigenti nella testimonianza della verità, delle vergini immacolate nella loro fedeltà sponsale. Questi uomini e queste donne avevano preferito essere esclusi, disprezzati, perseguitati, messi a morte dal mondo piuttosto che rinunciare a proclamare la verità e a lottare contro gli errori e le false dottrine. Era questa la strada indicata da confessori della fede come il cardinale Aloisio Stepinac, morto alla vigilia del Concilio, e il cardinale Josef Mindszenty, recluso dal 1956 nell’ambasciata americana a Budapest.
La cultura progressista degli anni Sessanta esercitava il suo fascino anche su alcuni uomini di Chiesa, convinti che fosse necessario mutare l’atteggiamento nei confronti del mondo: rinunciare agli anatemi e alle condanne degli errori per scorgere ciò che di positivo il mondo presentava. Era questa la tesi espressa dal padre domenicano Yves Congar, a cui si deve una delle prime enunciazioni della distinzione tra i dogmi e la loro formulazione. In un’opera di successo, Vera e falsa riforma della Chiesa, Congar affermava che non esistono “germi attivi nei quali non siano pure presenti dei microbi”: ossia errori, in cui non esistono verità. Poiché uccidere i microbi significherebbe uccidere anche i germi vivi, occorreva, a suo avviso, lasciare prosperare gli uni e gli altri. La condanna degli errori da parte della Chiesa, dalle eresie medievali fino al modernismo, aveva spento secondo lui le istanze positive in essi presenti, qualcuno le chiama oggi le istanze “esigenziali”: meglio avrebbe fatto la Chiesa a lasciar vivere e diffondere questi errori. Con questo atteggiamento Congar proponeva di cambiare la Chiesa dall’interno, attraverso “una riforma senza scisma”. “Non bisogna fare un’altra Chiesa – spiegava – bisogna fare una Chiesa diversa”. Quello di modificare la Chiesa dall’interno era l’antico sogno, irrealizzato, dei modernisti. “Fino ad oggi – aveva spiegato il sacerdote apostata Ernesto Buonaiuti – si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro Roma. Bisogna riformare Roma con Roma; fare che la riforma passi attraverso le mani di coloro i quali devono essere riformati. Ecco il vero e difficile metodo; ma è difficile. Hic opus, hic labor”.
Tra coloro che accoglievano le tesi di Congar era un gruppo di Padri conciliari del Centro-Europa, tra cui spiccava il neo-eletto primate del Belgio, il cardinale Léo-Joseph Suenens. Suenens non aveva ancora 60 anni. Dopo essere stato consacrato arcivescovo di Malines-Bruxelles nel marzo 1962, aveva incontrato a Roma Giovanni XXIII che fu affascinato dalla sua figura e gli chiese di preparargli una nota per il Concilio. Nel mese di giugno 1962 Suenens riunì un gruppo di cardinali al Collegio belga di Roma, tra i quali gli arcivescovi di Monaco Döpfner, di Lille Liénart, di Milano Montini, per discutere un “piano” e una strategia per il prossimo Concilio.
Nel documento che fu redatto, il cardinale Primate del Belgio lanciava la parola d’ordine del “Concilio pastorale”, definendo ciò “un beneficio immenso”, una “grazia di Pentecoste per la Chiesa”. Giovanni XXIII avrebbe seguito questa linea strategica.
3. Giovanni XXIII apre il Concilio
L’allocuzione inaugurale del Papa, Gaudet mater ecclesia dell’11 ottobre fu – come osserva il padre Wenger – la chiave per comprendere il Concilio. “Più che un ordine del giorno, esso definiva uno spirito; più che un programma, dava un orientamento”. La novità non era nella dottrina, ma nella nuova disposizione psicologica ottimistica con cui si impostavano i rapporti tra la Chiesa e il mondo: un rapporto dialogico di simpatia e “apertura”. Coloro che mettevano in dubbio questo spirito irenico e ottimistico venivano definiti dal Papa “profeti di sventura”.
Per Giovanni XXIII, compito principale del Concilio era quello di custodire il Magistero della Chiesa e insegnarlo “in forma più efficace”. Nel suo discorso di apertura egli affermava: “Altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo in cui vengono enunziate, rimanendo pur sempre lo stesso significato e il senso profondo”. “Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che si deve – con pazienza se occorre – tener gran conto”.
Il Concilio era stato indetto, non per condannare errori o formulare nuovi dogmi, ma per proporre, con linguaggio adatto ai tempi nuovi, il perenne insegnamento della Chiesa. La forma pastorale, cioè il rinnovamento del linguaggio dei metodi di azioni e di apostolato, con Giovanni XXIII, diventava la forma del Magistero per eccellenza. Si tratta di un punto centrale. Giovanni XXIII non intendeva avviare una Rivoluzione all’interno della Chiesa. Il suo temperamento era inclinato a un ottimismo che aveva come conseguenza psicologica, più che ideologica, l’idea di “adattamento” o, come poi si dirà, di “aggiornamento”. Egli pensava che il Concilio potesse tenersi in tempi brevi, giungendo ad approvare pochi documenti, magari per acclamazione. Nel luglio del 1962, ricevette in udienza mons. Pericle Felici, che gli presentò gli schemi conciliari rivisti e approvati. “Il Concilio è fatto – esclamò con entusiasmo Papa Roncalli – a Natale possiamo concludere”.
4. Le due minoranze
Il Concilio non durò tre mesi, come aveva immaginato Giovanni XXIII. E Papa Roncalli, che morì il 3 giugno 1963, poté seguirne solo la prima sessione. Paolo VI, eletto il 21 giugno guidò le successive tre sessioni e ne fu il protagonista. Il Concilio non si svolse neppure nell’atmosfera di gioioso consenso immaginata da Giovanni XXIII, ma fu il luogo di drammatici contrasti.
Se ci si limitasse a una storia “ufficiale”, basata sui risultati dalle votazioni, si dovrebbe negare l’esistenza di una lotta interna al Concilio tra opposti schieramenti, visto che i documenti conciliari furono tutti approvati da una schiacciante maggioranza. In realtà, nessun Concilio conobbe, più del Vaticano II, tensioni e conflitti tra gruppi contrapposti.
Gli storici pur non negando quest’evidenza, la riconducono al contrasto tra una “maggioranza” progressista e una “minoranza” conservatrice, destinata ad essere sconfitta. In realtà lo scontro avvenne tra due minoranze che, nel 1963, il teologo di Lovanio Gerard Philips descriveva come due “tendenze” contrapposte della filosofia e della teologia del ventesimo secolo: l’una nelle parole di Philips più preoccupata di essere fedele agli enunciati tradizionali, l’altra più attenta alla diffusione del messaggio presso l’uomo contemporaneo. Nell’articolo del teologo belga le due posizioni venivano poste sullo stesso piano con una netta preferenza dell’autore verso la seconda. La prima “tendenza” era però la posizione ufficiale del Magistero della Chiesa, sempre ribadita fino al pontificato di Pio XII; la seconda “tendenza” era quella eterodossa, ripetutamente censurata e condannata dallo stesso Magistero ecclesiastico.
Per questa seconda tendenza il Concilio rappresentava una straordinaria opportunità. La natura dell’evento avrebbe permesso alle diverse posizioni, la conservatrice e la progressista, di confrontarsi su di un piano di parità ideologica e di affidare alle regole del gioco parlamentare la prevalenza nei dibattiti. Nel Concilio si crearono gruppi e correnti definiti dai mass media come una destra, una sinistra, un centro. L’uso di questi termini, per quanto improprio, non deve sorprendere e può essere, per comodità, accettato. Lo storico dei Concili Hefele scrive che, nel 325, a Nicea, i vescovi ortodossi formavano con sant’Atanasio e i suoi seguaci la destra, Ario e i suoi partigiani rappresentavano la sinistra, mentre il centro-sinistra era occupato da Eusebio di Nicomedia e il centro-destra da Eusebio di Cesarea. La posizione giusta, quella autenticamente cattolica, non era quella del centro dei due Eusebi, che formava un “terzo partito” tra l’ortodossia e l’eresia, ma era quella incarnata dalla destra di sant’Atanasio, accusato dai suoi avversari di estremismo e di fanatismo. Fu sant’Atanasio però, autore del Simbolo della fede che ancora oggi professiamo, a tracciare la storia della Chiesa nei secoli futuri.
All’interno delle aule conciliari, tra le due minoranze conservatrici e progressiste ondeggiava, come sempre, la massa di coloro che esitavano a schierarsi.
Qual era il pensiero e la posizione di questo centro maggioritario? Abbiamo uno strumento per conoscerne i pensieri. In aula e nelle commissioni solo una minoranza dei Padri conciliari prese la parola, ma pressoché tutti risposero alla richiesta che nel 1959 venne fatta loro dal cardinale Segretario di Stato Domenico Tardini di proporre temi e suggerimenti per l’imminente Concilio.
Le risposte dei vescovi, dei superiori degli ordini religiosi e delle università cattoliche alla richiesta di pareri del card. Tardini giunsero, in forma di “vota” nell’estate del 1959. Lo spoglio dell’enorme materiale, iniziò nel mese di settembre e si concluse alla fine del gennaio 1960. Un attento esame dei vota permette oggi allo storico, come permetteva allora al Papa, alla Curia e alla Commissione preparatoria, di avere un quadro dei “desiderata” dell’episcopato mondiale alla vigilia del Concilio.
Le richieste dei futuri Padri conciliari, considerate nel loro insieme, non esprimevano il desiderio di una svolta radicale, e tantomeno di una “Rivoluzione” all’interno della Chiesa. Se le tendenze antiromane di alcuni episcopati affioravano nettamente in alcune risposte come quelle del card. Alfrink, arcivescovo di Utrecht, in generale gli auspici dei padri erano quelli di una moderata “riforma” sulla linea della tradizione. La maggioranza dei vota chiedeva una condanna dei mali moderni, interni ed esterni alla Chiesa, soprattutto del comunismo, e nuove definizioni dottrinarie, in particolare riguardanti la Beata Vergine Maria. Tra gli stessi vescovi francesi, considerati tra i più progressisti, molti domandavano la condanna del marxismo e del comunismo e una consistente minoranza chiedeva la definizione del dogma della mediazione di Maria.
I vescovi italiani, i più numerosi, avrebbero voluto che il Concilio proclamasse il dogma della “mediazione universale della Beata Vergine Maria”. Il secondo dogma di cui essi richiedevano la definizione era quello della Regalità di Cristo, da opporre al laicismo imperante. Molti inoltre chiedevano al Concilio la condanna degli errori dottrinali: il comunismo, l’esistenzialismo ateo, il relativismo morale, il materialismo, il modernismo.
È interessante l’analogia tra i “vota” dei Padri conciliari e i Cahiers de doléance redatti in Francia, in vista degli Stati Generali del 1789. Prima della Rivoluzione francese, nessun “cahier de doléance” si proponeva di sovvertire le basi dell’Ancien Régime, e in particolare la Monarchia e la Chiesa. Ciò che veniva richiesta era una moderata riforma delle istituzioni, non il loro sovvertimento, come accadde inaspettatamente, quando si riunirono gli Stati generali.
Qualcosa di simile alla Rivoluzione francese accadde tra il 1962 e il 1965. Il Concilio non esaudì le richieste che emergevano dai “vota” dei Padri conciliari, ma assecondò le rivendicazioni della minoranza progressista che, fin dall’inizio, riuscì a porsi alla testa dell’assemblea e ad orientarne le decisioni. È quanto emerge inconfutabilmente dai dati storici. E come accadde nella Rivoluzione francese, i giorni decisivi furono i primi, quelli in cui avvenne la rottura della legalità. A Versailles successe il 17 giugno 1789, quando gli Stati Generali si trasformarono in assemblea costituente; a Roma il 13 ottobre 1962, quando, su richiesta del card. Liénart, ma la mossa era stata accuratamente preparata, le Conferenze episcopali entrarono come gruppi organizzati nella dinamica conciliare.
Dietro questi gruppi organizzati si muovevano altri gruppi organizzati, di vescovi e di teologi, che formarono un partito apertamente antiromano, perché vedeva nella Curia di Roma il nemico da battere. La rete di relazioni, che preesisteva al Concilio, era forte e ramificata e comprendeva oltre alle conferenze nazionali, famiglie religiose, gruppi linguistici, ma soprattutto laboratori ideologici, come quello di Cuernavaca in Messico, di Bologna in Italia, di Lovanio in Belgio. Il padre Congar, il propugnatore della vera Riforma della Chiesa, nel suo Diario del Concilio ha chiarito come il nemico da abbattere fosse la teologia romana, soprattutto nella forma in cui era allora insegnata alla Lateranense.
Di fronte a questa minoranza organizzata, i vescovi e teologi fedeli a Roma reagirono solo tardivamente e senza l’intelligenza strategica dei loro avversari. Secondo una studiosa, Melissa Wilde, il successo dei progressisti può essere spiegato la minoranza progressista prevalse anche grazie alla migliore strategia e organizzazione, occorre dire che la storia è sempre fatta da minoranze e ciò che prevale, nello scontro, non è il numero e neanche l’organizzazione, ma la determinazione e l’intensità con cui queste minoranze combattono le loro battaglie. Fu questa una delle cause del successo dell’ala progressista. Successo o sconfitta? Le rivendicazioni dell’ala giacobina furono certo respinte. I documenti non corrisposero alle attese dei progressisti più audaci ed è grazie ai compromessi raggiunti in extremis che oggi quei documenti possono essere letti anche alla luce della Tradizione. Ma l’immagine che il mondo aveva della Chiesa cambiò. Quando il 12 ottobre 1963 mons. Franić, vescovo di Spalato, propose che nello schema De Ecclesia al nuovo titolo di Chiesa “pellegrinante” fosse aggiunto quello, tradizionale, di “militante”, la sua proposta fu respinta. L’immagine che la Chiesa doveva offrire di sé al mondo non era quella della lotta, della condanna, della controversia, ma del dialogo, della pace, della collaborazione ecumenica e fraterna.
La minoranza progressista si propose non tanto di mutare la dottrina della Chiesa, ma di sostituire all’immagine sacrale e gerarchica della Chiesa quella di un’assemblea democratica, aperta alle novità, immersa nella storia. Ciò avvenne soprattutto attraverso la Rivoluzione del linguaggio, metodo pastorale per eccellenza. Alle professioni di fede e dei canoni si sostituì un “genere letterario” che uno studioso del Concilio, il padre O’Malley chiama “epidittico”. Questo modo di esprimersi, secondo lo storico gesuita, “segnò una rottura definitiva con i Concili precedenti”. Esprimersi in termini diversi dal passato, significa accettare una trasformazione culturale più profonda di quanto possa sembrare. Lo stile del discorso rivela infatti, prima ancora che le idee, le tendenze profonde dell’animo di chi si esprime. “Lo stile – sottolineò O’Malley – è l’espressione ultima del significato, è significato e non ornamento, ed è anche lo strumento ermeneutico per eccellenza”. L’aspetto pastorale è, di norma, accidentale e secondario rispetto a quello dottrinale, ma nel momento in cui diviene una dimensione sostanziale e prioritaria, il modo in cui la dottrina viene formulata si trasforma esso stesso in dottrina, più importante di quella che, oggettivamente, viene veicolata.
I leader del Concilio, continua O’Malley, “capivano benissimo che il Vaticano II, essendosi autoproclamato concilio pastorale, era proprio per questo anche un Concilio docente (…). Lo stile discorsivo del Concilio era il mezzo, ma il mezzo comunicava il messaggio”. “Questo significa che il Vaticano II, il ‘Concilio pastorale’, ha un insegnamento, una ‘dottrina’, che in gran parte è stato difficile per noi formulare, poiché in questo caso dottrina e spirito sono due facce della stessa medaglia”. La scelta di uno “stile” di linguaggio con cui parlare al proprio tempo rivela un modo di essere e di pensare e in questo senso si deve ammettere che il genere letterario e lo stile pastorale del Vaticano II non solo esprimono l’unità organica dell’evento, ma veicolano implicitamente una coerente dottrina.
Sotto questo aspetto il Concilio segnò indubbiamente un profondo cambiamento nella vita della Chiesa. I contemporanei ne avvertirono il carattere epocale. “Si parlò – ricorda lo storico americano Josef Komonchak – di una svolta storica; la fine della controriforma o dell’epoca tridentina, la fine del Medioevo, la fine dell’era costantiniana”. “Semplicemente – rileva Melissa Wilde – il Vaticano II rappresenta l’esempio più significativo di cambiamento religioso istituzionalizzato dal tempo della Riforma”.
Sotto questo aspetto, non si può negarlo, il Concilio costituì una Rivoluzione. A questo punto potrei essere accusato, come è già avvenuto, di essere un fautore della ermeneutica della discontinuità, in contrasto con la ermeneutica della continuità di Benedetto XVI. Queste accuse che hanno accompagnato la pubblicazione del mio recente libro sono arrivate al punto di cercare di mettermi contro Benedetto XVI (così Massimo Introvigne su “Avvenire”) e perfino contro Pio XII (così lo storico Alberto Melloni sul “Corriere della Sera”). Si tratta di palesi distorsioni del mio pensiero che esigono una rettifica per il profondo amore e rispetto che provo verso Pio XII e verso il regnante Pontefice Benedetto XVI.
Per quanto riguarda Pio XII il discorso è molto semplice: ho una somma venerazione verso il suo Magistero che rappresenta, come ho scritto nel mio libro, una vera summa dottrinale, una preziosa miniera a cui è ancora oggi utilissimo attingere. Ma Pio XII, che fu uno straordinario diplomatico, non ebbe l’esperienza di Pastore che aveva avuto il Papa che pure tanto amava, Pio X. E nella repressione del male che serpeggiava nella Chiesa – uso il termine serpeggiare che a Melloni non piace, perché indica bene l’atteggiamento infido del serpe che striscia nella penombra per colpire all’improvviso con il suo veleno – il venerabile Pio XII non fu, a mio parere, altrettanto pronto e vigoroso di san Pio X.
Va precisato che lo storico differisce dall’agiografo. Chi legge l’intramontabile Storia dei Papi di Ludwig von Pastor sa che lo storico tedesco non lesinò rispettose critiche ai numerosi pontefici da lui presi in esame. È sul piano storico che io esprimo giudizi nei confronti di Pio XII, Giovanni XXIII; Paolo VI, senza che ciò debba scandalizzare nessuno. Tra questi è proprio verso Pio XII che esprimo la maggiore ammirazione. Chi critica Pio XII non sono io, ma lo storico Alberto Melloni, che sul “Corriere della Sera” del 9 gennaio 2005 si è pronunciato contro la sua beatificazione definendolo “un Papa solitario e calcolatore, nella cui figura gli elementi politici dominano per logica interna”.
Ma l’accusa di fondo che è stata rivolta al mio testo è un’altra: nel mio libro non distinguerei i testi del Concilio dal suo contesto storico, fondendo e unificando testi e contesto in unico evento. Con ciò assorbirei e fagociterei il testo nel contesto cadendo in una sorta di strutturalismo come, in ultima analisi, fa la scuola di Bologna.
Chi lancia questa accusa è però un lettore frettoloso o tendenzioso. Infatti io affermo esattamente il contrario di quanto mi si attribuisce. Non ho mai negato la distinzione logica tra testo e contesto. L’impossibilità di separarli non significa impossibilità di distinguerli. Nego la tesi della scuola di Bologna, secondo cui i testi vadano assorbiti nel contesto, ovvero nell’evento e spirito del Concilio. Sostengo invece che vanno ben distinti i testi dottrinali dal contesto storico del Concilio. I testi hanno una loro autonomia, una loro importanza, una loro dignità, ma vanno esaminati in quanto testi sul piano teologico. Non ho l’autorità né la competenza teologica per formulare questa valutazione teologica e mi rimetto al giudizio di un eminente ecclesiologo come mons. Brunero Gherardini, che fin dagli anni Settanta, il mio maestro universitario Augusto Del Noce ricordo definiva il migliore teologo romano.
Dove rivendico competenza è sul piano storico ed è sotto questo aspetto che studio un contesto comprensivo anche, necessariamente, dell’elaborazione dei testi. È sul piano storico, non sul piano teologico, che giudico il Concilio una Rivoluzione nella Chiesa e, per molti aspetti, un evento disastroso. Ed è invece sul piano teologico, e non su quello storico, che Benedetto XVI ci invita a seguire, in modo però non conclusivo né definitorio, l’ermeneutica della continuità.
Ermeneutica della continuità che, d’altra parte, può essere intesa in un solo modo: quello di leggere i documenti del Concilio alla luce del precedente Magistero della Chiesa, attraverso un metodo preciso: laddove si ravvisano ambiguità, incertezze, appunti di contraddizione, assumere come punto di riferimento la Tradizione.
I documenti promulgati dalle supreme autorità ecclesiastiche non hanno infatti, dal punto di vista teologico, il medesimo valore. Se Benedetto XVI esprime alcune opinioni in un’intervista, come è accaduto nel suo ultimo libro Luce del mondo, è evidente che esse vadano accolte con il massimo rispetto, perché chi parla è, comunque, il Vicario di Cristo. Ma è altrettanto evidente che tra un’intervista e la definizione di un dogma c’è una gradazione di autorità che non impegna, al medesimo livello, l’ossequio dei fedeli. Lo stesso può dirsi di un Concilio come il Vaticano II, che in quanto riunione solenne dei vescovi uniti al Papa, ha proposto insegnamenti autentici non certo privi di autorità. Il suo Magistero – come ha ben spiegato mons. Gherardini – è certamente solenne e supremo. Ma solo chi ignora la teologia potrebbe attribuire un grado di “infallibilità” a tutti i suoi insegnamenti.
Perché, se si volesse intendere capovolgere il metodo ed affermare che la continuità va letta assumendo come punto di riferimento non la Tradizione, ma il Concilio: se si volesse cioè leggere la Tradizione alla luce del Concilio e non viceversa, bisognerebbe attribuire al Concilio quel valore di infallibilità, che mai nessun testo del Concilio ha in sé, e allora bisognerebbe cercare l’infallibilità del Concilio nell’evento stesso, nel suo spirito, nell’impalpabile carisma che anima i testi senza tradursi in formule definitorie. Ma questa è esattamente la posizione della scuola di Bologna, non è certo quella di Benedetto XVI.
L’affermazione secondo cui il Concilio II va inteso in continuità con il Magistero della Chiesa presuppone infatti l’esistenza nei documenti conciliari di passaggi dubbi o ambigui, che necessitano una interpretazione. Per Benedetto XVI il criterio di interpretazione del passaggio dubbio non può che essere la Tradizione della Chiesa, come egli stesso ha più volte ribadito. Se si ammettesse invece che il Vaticano II fosse il criterio ermeneutico per rileggere la Tradizione, bisognerebbe attribuire, paradossalmente, forza interpretativa a ciò che ha bisogno di essere interpretato. Interpretare la Tradizione alla luce del Vaticano II, e non il contrario, sarebbe possibile solo se si accettasse la posizione di Alberigo, che attribuisce valore interpretativo non ai testi, ma allo “spirito” del Concilio. Tale non è però la posizione di Benedetto XVI, che critica l’ermeneutica della discontinuità, proprio per il primato che essa attribuisce allo spirito sui testi. O si ritiene, come mons. Gherardini, che le dottrine del Concilio non riconducibili a precedenti definizioni, non sono né infallibili né irreformabili e dunque nemmeno vincolanti, oppure si assegna al Concilio un’autorità tale da oscurare le altre venti precedenti assisi della Chiesa, abrogandole o sostituendole tutte. Su quest’ultimo punto sembra non esserci differenza tra gli storici della scuola di Bologna e sociologi come Massimo Introvigne che sembrano attribuire valore di infallibilità al Vaticano II.
D’altra parte, il lavoro storico è complementare a quello teologico e non dovrebbe preoccupare nessuno. Bisognerebbe rinunziare a scrivere la storia del Concilio Vaticano II in nome della “ermeneutica della continuità”? O lasciare che a scriverla sia solo la scuola di Bologna, che ha offerto contributi scientificamente pregevoli, ma ideologicamente tendenziosi? E se elementi di discontinuità dovessero emergere, sul piano storico, perché temere di portarli alla luce? Come negare una discontinuità, se non nei contenuti, nel nuovo linguaggio del Concilio Vaticano II? Un linguaggio fatto non solo di parole, ma anche di silenzi, di gesti e di omissioni, che possono rivelare le tendenze profonde di un evento più ancora del contenuto di un discorso. La storia dell’inspiegabile silenzio sul comunismo da parte di un Concilio che avrebbe dovuto occuparsi delle principali questioni del mondo è ad esempio un fatto clamoroso e catastrofico che allo storico non è lecito ignorare.
Sono anche stato criticato per aver stabilito una continuità tra Concilio e post-Concilio. Ma il Concilio Vaticano II non può essere presentato come un evento che nasce e muore nello spazio di tre anni senza considerarne le profonde radici e le altrettanto profonde conseguenze che esso ebbe nella Chiesa e nella società.
Già all’indomani del Concilio l’orizzonte della Chiesa vedeva il crollo delle certezze dogmatiche; il relativismo della nuova morale permissiva; l’anarchia in campo disciplinare; le defezioni dal sacerdozio e l’allontanamento dalla pratica religiosa di milioni di fedeli; l’espulsione dalle chiese di altari, balaustre, crocifissi, statue di santi, arredi sacri, ma soprattutto il crollo delle vocazioni e l’abbandono della vita religiosa. È lo storico gesuita Giacomo Martina a scriverlo, nel 1977. “Per la prima volta nella storia – scriveva – si è assistito all’abbandono del sacerdozio, pur con tutte le dispense necessarie, da parte di migliaia di preti, nel giro di pochi anni”.
Il bilancio complessivo del quarantennio postconciliare 1965-2005, riguardo alle perdite totali e percentuali dei principali istituti religiosi, sarà ancora più drammatico. Se i religiosi dei principali istituti maschili erano 329.799 nel 1965, nel 2005 ne restavano 214.913, circa un terzo erano venuti meno nei 40 anni di post-concilio.
Come negare l’esistenza di una profonda crisi della Chiesa post-conciliare più volte ammessa dallo stesso Paolo VI, da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI? Ogni evento però ha una causa proporzionata. Possibile che il Concilio Vaticano II fosse estraneo alla crisi del post-Concilio e che la cattiva interpretazione dei testi possa essere considerata una causa proporzionata per spiegare ciò che seguì? Si può davvero separare la Rivoluzione postconciliare dal Concilio?
Voglio ricordare solo un episodio, quando nel 1968 Paolo VI fu apertamente contestato dal cardinale Suenens per la promulgazione della enciclica Humanae Vitae. Ma chi era il cardinale Suenens?
Era il prelato a cui Paolo VI aveva concesso un privilegio senza precedenti, quando il 23 giugno 1963, pochi giorni dopo la sua elezione, lo aveva voluto accanto a sé, alla finestra del Palazzo apostolico, presentandolo alla folla riunita in San Pietro per l’Angelus. Era il giovane cardinale di Bruxelles che all’indomani della sua elevazione alla porpora era accorso a Roma per suggerire a Giovanni XXIII di dare un’impronta pastorale al Concilio. Era l’uomo che fin dall’inizio aveva stabilito un patto di ferro con mons. Helder Câmara, vescovo ausiliario di Rio, poi vescovo rosso di Recife, che si rivolgeva a lui, con un codice cifrato, chiamandolo “padre Miguel”. Era l’uomo prescelto per guidare i quattro “moderatori” del Concilio: una posizione chiave che avrebbe assunto per tre anni. Era l’uomo che già in Concilio, il 19 ottobre 1964, aveva sollevato il problema del controllo delle nascite, pronunciando in piena basilica di San Pietro, con tono veemente, le parole: “Non ripetiamo il processo di Galileo!”. Nessuno più di lui aveva vissuto il Concilio da protagonista. Il cardinale Suenens, ribelle a Paolo VI e alla Chiesa nel 1968, era un uomo diverso da quello che tre anni prima, aveva intonato il canto della vittoria alla chiusura del Concilio? Aveva cambiato la sua mentalità, aveva distorto i documenti del Concilio, ne aveva male interpretato lo spirito? Suenens non aveva bisogno di forzare o distorcere i documenti del Concilio perché Suenens, come Frings, Alfrink, Bea e tanti altri, era il Concilio.
Il nesso tra Concilio e post-Concilio non è il nesso dottrinale tra i documenti del Concilio e altri documenti del post-Concilio. È il rapporto storico, stretto e inscindibile, tra il Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1962 e il 1965 e il post-Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1965 e il 1978, e si protrae fino ai nostri giorni. Questo periodo, globalmente considerato, dal 1962 al 1978, anno della morte di Paolo VI, forma un unicum, un’epoca, che può essere definita come l’epoca della Rivoluzione conciliare, così come gli anni tra il 1789 e il 1796, e forse fino al 1815, costituirono l’epoca della Rivoluzione francese.
La pretesa di separare il Concilio dal post-Concilio è altrettanto insostenibile di quella di separare i testi conciliari dal contesto pastorale in cui furono prodotti. Nessuno storico serio, ma neanche nessuna persona di buon senso potrebbe accettare questa artificiale separazione, che nasce da partito preso, più che da serena e oggettiva valutazione dei fatti. Ancora oggi viviamo le conseguenze della “Rivoluzione conciliare” che anticipò e accompagnò quella del Sessantotto. Perché nasconderlo? La Chiesa, come affermò Leone XIII, aprendo agli studiosi l’Archivio Segreto Vaticano, “non deve temere la verità”.
La sua missione, come affermava Pio XII, non può svolgersi ed adempiersi con la benedizione del cielo se non sotto la divisa terrena non metuit! È sotto questa divisa che, seguendo le indicazioni del Santo Padre Benedetto XVI, tutti noi, sacerdoti e laici, dobbiamo assumerci l’impegno, di aprire coraggiosamente nuove strade, di tornare ad essere il sale del mondo.
Io credo che uno dei primi nostri compiti sia oggi quello di rinnovare l’immagine della Chiesa, abbandonando ogni forma di cattiva pastorale. Se infatti una dottrina ha il suo criterio di giudizio ultimo nella verità che essa esprime – una dottrina è buona e giusta se è vera – il metodo pastorale ha il suo criterio di verifica nei risultati che raggiunge: un metodo pastorale è buono e giusto se funziona, se ottiene i risultati previsti. Ciò non fu il caso del Concilio Vaticano II, che si auto qualificò pastorale, ma proprio sul piano pastorale fu contraddetto dai fatti. Molti teologi vollero trasporre il primato marxista della prassi nel primato religioso del pastorale sul dottrinale, ma entrambi i metodi furono condannati dal tribunale immanentistico a cui si appellavano: quello della storia.
Rinnovare la pastorale significa abbandonare il linguaggio sociologico, piegato alle esigenze del mondo e ritrovare il linguaggio perenne e universale della Chiesa, quello che parla alla mente e al cuore degli uomini attraverso la chiarezza della dottrina e la bellezza della verità; significa ritrovare il senso di una Chiesa militante, di una Chiesa che combatte perché vive nella storia, vive nella storia perché è un Corpo gerarchico e visibile, ma nella storia combatte per un fine che è soprannaturale e non terreno, perché il suo Corpo è Mistico, e ha in Gesù Cristo, unica via, verità e vita, il suo Capo e fondatore.
Nel 1953 Papa Pacelli invitava i giovani di Azione Cattolica a combattere contro i nemici della Chiesa, che muovono ad essa “una guerra terribile, con perfida strategia e subdola tattica”. “Muoiono gli uomini, anche quelli che sembrano immortali; crollano le umane istituzioni; si succedono gli uni agli altri, i più impensati tramonti. E a ogni alba nuova la Chiesa assiste serena ed è baciata dal sorgere di ogni nuovo sole”.
Riserva
Dove va la Chiesa?
In queste ore drammatiche ci chiediamo: dove va la Chiesa e, ancora più profondamente, dove è la Chiesa? Non la Chiesa invisibile dei docetisti, degli hussiti, o dei modernisti, ma il Corpo Mistico di Cristo, la Chiesa cattolica, apostolica, romana, riconoscibile dalle sue note visibili.
Ebbene mai come oggi è attuale la intramontabile definizione di san Roberto Bellarmino, che dice: la Chiesa è la comunità dei fedeli uniti dagli stessi sacramenti e dalla stessa fede, sotto la guida degli stessi pastori.
Questa e non altra è Chiesa e questa stessa definizione la ritroviamo nelle parole che il Divino Fondatore della Chiesa, Nostro Signore Gesù Cristo, rivolge ai nostri cuori, invitandoci a seguirlo.
“Io – ci dice il Signore con parole forti, dolci, esclusive – sono la via, la verità, la vita”. Potrebbe apparire che di questi attributi il più importante sia la verità: Ego sum veritas. La Chiesa, certo è dove è la verità, secondo la formula di san Vincenzo di Lerins, quella di cui non si può cedere neppure uno iota, quella che è racchiusa nella Tradizione Cristo è verità. Ma questa verità non è astratta come il logos greco, è vivificata dalla Grazia, e la fonte di ogni Grazia che fluisce attraverso i sacramenti è Cristo stesso. La Chiesa è dove sono i suoi sacramenti.
I sacramenti della Chiesa sono la fonte della nostra vita spirituale e questa vita spirituale ha la sua fonte in Cristo stesso. Ma la dottrina e la vita, la fede e i sacramenti non bastano, se non c’è una via da seguire. E nella Chiesa questa via la tracciano i legittimi pastori, che seguono a loro volta il Papa, successore di Pietro, Vicario di Cristo in terra.
La nota della apostolicità ci garantisce questa legittimità dei pastori, che ha la sua fonte ultima nel Buon Pastore per eccellenza, unica via.
Dove è la legittima gerarchia, dove è la vera fede, dove è la santità dei sacramenti, lì è la Chiesa. Cercando questi punti di riferimento, nulla abbiamo da temere perché dove troviamo la Chiesa una nella fede, santa nelle sue opere, e apostolica nella sua gerarchia lì troviamo Gesù stesso, via, verità e vita.