Il Card. Bagnasco presenta
l'XI volume dell'Opera Omnia di Joseph Ratzinger
ROMA, martedì, 7 dicembre 2010 (ZENIT.org).-  
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Sono  lieto di partecipare alla presentazione del I Volume dell’Opera Omnia  del Santo Padre Benedetto XVI, e ringrazio i Promotori dell’iniziativa.  Saluto con stima e cordialità gli Ospiti che sono intervenuti da Roma,  il Prof. Gianmaria Vian, Direttore dell’Osservatore Romano e la Prof.  Lucetta Scaraffia nota in campo non solo cattolico per i suoi interventi  culturali e filosofici sempre puntuali e documentati.
Tutti oggi concordano nel riconoscere essere Papa Benedetto un grande teologo, con una invidiabile capacità di esporre con chiarezza il proprio pensiero. L’opera omnia,  destinata a raccogliere in modo organico e sistematico il frutto della  sua riflessione teologica, sta prendendo corpo e testimonia la fecondità  e la profondità dei suoi studi. Potrebbe però sorprendere non poco il  fatto che il primo volume pubblicato raccolga gli studi sulla liturgia:  perché un grande teologo si occupa di liturgia? Non vi sono forse temi  più rilevanti e meritevoli di interesse? Nel contesto culturale  contemporaneo non sarebbe più utile impegnarsi nel mostrare la rilevanza  della fede cristiana per la costruzione di una società più giusta e più  rispettosa della dignità dell’uomo? 
1. Liturgia e primato di Dio
A questi interrogativi risponde lo stesso Benedetto XVI nella prefazione al volume dedicato alla Teologia della liturgia. Partire dalla liturgia, in continuità con l’ordine cronologico delle Costituzioni del Concilio Vaticano II,  significa mettere «inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la  priorità assoluta del tema “Dio”» (p. 5). Non possiamo non notare la  sintonia di Papa Benedetto con le parole pronunciate da Paolo VI alla  chiusura del secondo periodo del Concilio, mentre annunciava la  promulgazione della Costituzione Sacrosanctum Concilium:  «Noi vi ravvisiamo l’ossequio alla scala dei valori e dei doveri: Dio  al primo posto; la preghiera prima nostra obbligazione; la liturgia  prima fonte della vita divina a noi comunicata, prima scuola della  nostra vita spirituale, primo dono che noi possiamo fare al popolo  cristiano, con noi credente e orante, e primo invito al mondo, perché  sciolga in preghiera beata e verace la muta sua lingua e senta  l’ineffabile potenza rigeneratrice del cantare con noi le lodi divine e  le speranze umane, per Cristo Signore e nello Spirito Santo»[1].  Comprendiamo bene allora che occuparsi di liturgia non significa  dimenticare le difficoltà che la fede cristiana incontra oggi nel  confronto con la cultura contemporanea, al contrario è alta  testimonianza di ciò che costituisce il cuore della fede cristiana.  Dichiara infatti il Concilio che la liturgia «è estremamente efficace  perché i fedeli esprimano nella vita e manifestino agli altri il mistero  di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa, che ha la  caratteristica di essere umana e insieme divina, visibile ma dotata di  realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione,  presente nel mondo e tuttavia pellegrina; e questo in modo che in essa  ciò che è umano sia ordinato al divino e ad esso subordinato, ciò che è  visibile all’invisibile, quello che è azione alla contemplazione e  quello che è presente alla futura città che cerchiamo» (SC 2). Penso che  queste espressioni di SC possano aiutare a comprendere in modo adeguato  il pensiero di J. Ratzinger sul valore della liturgia come  manifestazione al mondo del primato di Dio. La Chiesa infatti, quando  celebra, si riconosce e si manifesta come realtà che non può essere  ridotta al solo aspetto terreno e organizzativo. Nella celebrazione  appare manifesto che il cuore pulsante della comunità cristiana è da  ricercarsi “oltre” i confini di questo mondo. Non solo: nella  celebrazione appare come tutto sia subordinato a questo “oltre”. Il  linguaggio simbolico rituale è il più adatto ad esprimere e a custodire  la priorità dell’azione di Dio nell’agire dell’uomo. Il rito infatti è  azione umana: è l’uomo che compie azioni simboliche, pone gesti,  pronuncia parole, si serve di elementi naturali (acqua, pane, vino,  olio…). Al tempo stesso però l’uomo non “crea” il rito, lo riceve da una  tradizione che ospita la fede di secoli dove «passato, presente e  futuro si congiungono in un unico grande coro di preghiera» (Lettera ai Seminaristi,  n. 2). E anche quando la Chiesa interviene nel modificare il rito pone  in atto una particolarissima cautela in modo che «in qualche modo le  nuove forme procedano organicamente dalle forme già esistenti» (SC 23). A  questo proposito J. Ratzinger esplicita: «Se ora ci chiediamo ancora  una volta che cosa sia il rito nell’ambito della liturgia cristiana, la  risposta è questa: esso è espressione, divenuta forma, dell’ecclesialità  e della comunitarietà della preghiera e dell’azione liturgica – una  comunitarietà che supera la storia. In esso si concretizza il legame  della liturgia con il soggetto vivente “Chiesa”, che a sua volta è  caratterizzato dal legame con il profilo della fede cresciuto nella  Tradizione apostolica» (p. 159). 
Tutta  questa attenzione e cura è costante richiamo al fatto che nella  celebrazione accade molto di più di quanto noi stessi possiamo  inventarci di volta in volta: «la semplicità dei segni nasconde l’abisso  della santità di Dio»[2]. In questa luce va quindi compresa la  preoccupazione di Benedetto XVI, autorevolmente espressa  nell’esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis,  di custodire il rito da manipolazioni indebite, che potrebbero essere  indotte da una non corretta applicazione del dettato conciliare sulla  partecipazione attiva dei fedeli (cf. in particolare n. 38). La  celebrazione adeguata del rito, che scaturisce dall’obbedienza alle  norme liturgiche, non è infatti residuo nostalgico di un ritualismo già  dichiarato fuorviante da Pio XII nella Mediator Dei[3],  ma immersione nel “noi” ecclesiale, sapiente utilizzo dei linguaggi  propri del rito per esprimere l’incontro con il mistero di Dio: l’agire  rituale della Chiesa è infatti un agire che dà spazio all’azione di Dio.  Risuonano sempre attuali le parole di un grande maestro di J.  Ratzinger, Romano Guardini: «Deve risvegliarsi il desiderio del grande  stile della preghiera. La via però è quella della disciplina, della  rinuncia alle piacevoli compiacenze; un lavoro severo, compiuto,  nell’obbedienza alla Chiesa, su tutto il nostro essere e comportamento  religioso»[4].
La liturgia, oltre ad esprimere  la priorità assoluta di Dio, manifesta anche il suo essere il  «Dio-con-noi». Scrive Benedetto XVI nella Deus caritas est:  «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una  grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che  dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (n. 1).  Come negare che questo incontro è avvenuto per noi prima di tutto, in mysterio,  nel giorno del nostro Battesimo? Nella liturgia si realizza ogni volta  l’’incontro con Dio: è la storia della salvezza che continua nell’oggi  della Chiesa (cf. SC 6). Commentando Dt 4,7 (“Quale grande nazione ha  gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi  ogni volta che lo invochiamo?”), così si esprimeva a proposito della  partecipazione alla Messa domenicale: «Il Signore ha reso il primo  giorno della settimana il giorno suo, nel quale ci viene incontro, nel  quale prepara la mensa per noi e ci invita a sé. Dalla frase dell’Antico  Testamento, su cui stiamo riflettendo, deduciamo che gli Israeliti  trovavano nella vicinanza di Dio non un peso, ma il motivo della loro  fierezza e della loro gioia. In effetti, la comunione domenicale con il  Signore non è un peso, ma è grazia, un dono che illumina tutta la  settimana; defraudiamo noi stessi, se ad essa ci sottraiamo» (p. 550). 
Infine, la liturgia esprime la priorità di Dio anche mostrandosi come «liturgia di pellegrinaggio». Leggiamo in Lo spirito della liturgia.  Un’introduzione: «la liturgia cristiana è, come abbiamo visto, liturgia  della promessa adempiuta… ma essa rimane liturgia della speranza.  Anch’essa porta ancora in sé il segno della provvisorietà. Il nuovo  Tempio, non costruito da mani d’uomo, è presente, ma al contempo è  ancora in costruzione. Il grande gesto dell’abbraccio che viene dal  Crocifisso non è ancora giunto al suo traguardo, ma è solo cominciato.  La liturgia cristiana è una liturgia in cammino, una liturgia di  pellegrinaggio verso la trasformazione del mondo, che sarà compiuta  quando Dio sarà “tutto in tutti”» (p. 61). 
Il rito ha infatti la capacità  di esprime questa tensione escatologica: esso non ha la pretesa di  spiegare tutto, non sempre offre serenità e pace, anzi a volte produce  inquietudine, ci mette di fronte alle nostre fragilità, ci addita una  meta che non è mai pienamente raggiunta su questa terra, ha la pretesa  di unirci all’assemblea del cielo che canta le lodi di Dio, «nell’attesa  che si compia la beata speranza e venga il nostro salvatore Gesù  Cristo».
2. Liturgia e interesse teologico-fondamentale
L’interesse per la liturgia del  teologo Ratzinger è da leggersi poi alla luce della sua scelta di  occuparsi di questioni di teologia fondamentale. Scrive  nell’introduzione al volume che stiamo presentando: «La materia che  scelsi fu la teologia fondamentale, perché prima di tutto volevo andare  al fondo della domanda: perché noi crediamo? Ma in questa domanda fin  dall’inizio era compresa intrinsecamente l’altra domanda, quella della  giusta risposta da dare a Dio e quindi la domanda circa il culto divino.  A partire da qui vanno compresi i miei lavori sulla liturgia. Il mio  obiettivo non erano i problemi specifici della scienza liturgica, ma  sempre l’ancoraggio della liturgia all’atto fondamentale della nostra  fede e quindi anche il suo posto nell’insieme della nostra esistenza  umana» (p. 6). È un obiettivo che merita qualche approfondimento. Qui il  nostro Autore dichiara prima di tutto che occuparsi di liturgia non  distoglie dalla domanda fondamentale sulla fede: la liturgia, unfatti, è  ancorata all’atto fondamentale della nostra fede e della nostra  esistenza. 
Un saggio di non facile e immediata lettura contenuto nel nostro volume – La fondazione sacramentale dell’esistenza cristiana  – è un’illuminante attuazione di quanto sopra enunciato. Alla domanda  «che cosa fa realmente l’uomo che celebra il culto della Chiesa, i  Sacramenti di Gesù Cristo?» e perché lo fa?, Ratzinger risponde: «Lo fa  perché sa che, in quanto uomo, egli può incontrare Dio solo in modo  umano. In modo umano però vuol dire: nella forma della comunione, della  corporeità e della storicità. E lo fa perché sa che, in quanto uomo,  egli non può disporre da sé quando e come e dove Dio gli si debba  mostrare; sa di essere piuttosto colui che riceve, che dipende  dall’autorità che gli vien data, autorità che non è lui a concedersi, ma  che rappresenta il segno della libertà sovrana di Dio, il quale decide  autonomamente il modo della sua presenza» (pp. 239-240). Celebrando i  sacramenti l’uomo scopre come essi siano in sintonia con la propria  esperienza di uomo, soprattutto con quelle particolari esperienze come  la nascita, la morte, il pasto, la comunione sessuale tra uomo e donna,  nelle quali si rende trasparente la realtà spirituale. Sono esperienze  in cui l’uomo sperimenta che la materia e il corpo sono «fessure  attraverso le quali l’eternità getta uno sguardo nel procedere uniforme  della vita quotidiana» (p. 225). 
I Sacramenti, però, al tempo  stesso rivelano all’uomo anche la propria identità di essere che tende  alla comunione, che vive nella corporeità e nella storia e che proprio  «in modo umano» Dio gli si rende presente, e proprio nella storia  dell’umanità la salvezza ha fatto irruzione con «quell’Uomo che al tempo  stesso era Dio». Egli «si è inserito in questa dimensione orizzontale e  così ha spalancato la prigione: la catena della dimensione orizzontale,  che tiene legato l’uomo, è diventata in Cristo la fune di salvataggio  che ci tira alla riva dell’eternità di Dio» (pp. 235-236). L’attenzione  per la liturgia e per la dinamica del linguaggio simbolico-rituale  offre, per J. Ratzinger, un prezioso apporto al fine di contrastare una  lettura puramente funzionale della realtà, nella quale le cose sono  viste soltanto come cose, per riguadagnare uno spazio a quella  «trasparenza simbolica della realtà verso l’eterno» (p. 222). 
3. Liturgia forma dell’esistenza
L’ultima parte de Lo spirito della liturgia. Una introduzione  è titolata: «La forma liturgica». In essa l’Autore tratta del rito e  dei riti, dei gesti, delle posizioni e degli atteggiamenti che il corpo  assume nella celebrazione, della partecipazione attiva. In questo ultimo  contesto è interessante notare come, riferendosi all’esercizio del  corpo e alla disciplina degli sportivi richiamata dall’Apostolo Paolo,  Ratzinger accosti la liturgia all’allenamento. Scrive: «È – diciamolo  ancora una volta in modo diverso – un esercizio per imparare ad  accogliere l’altro nella sua alterità, un allenamento all’amore – un  allenamento ad accogliere il totalmente Altro, Dio, a lasciarsi plasmare  ed usare da lui» (p. 167). Celebrare la liturgia è lasciarsi plasmare  dal totalmente Altro, da Dio. La partecipazione alla liturgia è quindi  sì attiva, ma al tempo stesso in un certo qual modo anche “passiva” o  “iniziatica”. Porre l’attenzione anche alla dimensione iniziatica del  rito liturgico, che significa prima di tutto non la riforma che la  liturgia subisce nei propri riti, ma la riforma che la liturgia promuove con i propri riti, conduce nel cuore del mistero celebrato. È illuminate a questo proposito l’omelia pronunciata da Benedetto XVI a Colonia  nella concelebrazione conclusiva della Giornata Mondiale della Gioventù  (21 agosto 2005), dove legge il mistero dell’Eucaristia e della sua  celebrazione attraverso la categoria della “trasformazione”: «Facendo  del pane il suo Corpo e del vino il suo Sangue, Egli [Gesù] anticipa la  sua morte, l’accetta nel suo intimo e la trasforma in un’azione di amore  […]. È questa la trasformazione sostanziale che si realizzò nel  cenacolo e che era destinata a suscitare un processo di trasformazioni  il cui termine ultimo è la trasformazione del mondo fino a quella  condizione in cui Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28) […].  Questa prima fondamentale trasformazione della violenza in amore, della  morte in vita trascina poi con sé le altre trasformazioni. Pane e vino  diventano il suo Corpo e il suo Sangue. A questo punto però la  trasformazione non deve fermarsi, anzi è qui che deve cominciare  appieno. Il Corpo e il Sangue di Cristo sono dati a noi affinché noi  stessi veniamo trasformati a nostra volta. Noi stessi dobbiamo diventare  Corpo di Cristo, consanguinei a Lui. Tutti mangiamo l’unico pane, ma  questo significa che tra noi diventiamo una cosa sola»[5]. 
In uno degli ultimi testi del  Card. Ratzinger sulla liturgia, pubblicato alla vigilia della sua  elezione alla Cattedra di Pietro, egli riprende questo concetto,  ribadendo che nella liturgia Dio diventa dono per noi e così noi  possiamo essere transustanziati con lui e trasformati a nostra volta in  amore: «Il dono unico che Dio aspetta, l’unica cosa che non è ancora  sua, è la nostra libertà, è la risposta del nostro amore. Dio ha creato  un mondo libero, ha creato la libertà, ha creato così la possibilità di  dire “sì” o “no”, come possibilità di fare un dono libero a Dio. L’unico  e vero sacrificio può quindi essere soltanto il nostro “sì”, la gioia  di essere uniti con Dio nell’amore […]. Un mondo umanizzato, un mondo  nel quale l’amore è il segno di tutto, sarà il vero sacrificio. Solo  così entriamo nel cuore del NT, perché la morte di Cristo non è una  distruzione, non è la glorificazione della sofferenza, ma si qualifica  come l’estremo gesto d’amore nel quale il Signore, con le sue braccia  aperte, ci abbraccia e, come è detto nel Vangelo di Giovanni (cap. 12),  ci “tira” nelle sue mani. Con questo amore, nel quale Dio si dona e  diventa dono per noi, noi possiamo essere transustanziati con Lui e  trasformati in amore con un “sì” libero»[6].
Siamo grati al teologo Ratzinger  e al Papa Benedetto XVI per l’opera di profondo rinnovamento che porta  avanti nella Chiesa, perché sia sempre più fedele al suo Signore e alla  sua viva Tradizione. Con disarmante chiarezza e rigore, egli mette in  luce, spiega e approfondisce la centralità che il Concilio Vaticano II  ha affermato a proposito della sacra liturgia considerandola “fonte e  culmine” della vita del cristiano, della vita e della missione della  Chiesa. Con le parole di quella Assise mi è caro concludere questo mio  intervento: “Il lavoro apostolico è ordinato a che tutti, diventati  figli di Dio mediante la fede e il Battesimo, si riuniscano in  assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al Sacrificio e alla  mensa del Signore” (SC 10).
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1) Paolo VI, Discorso a chiusura del secondo periodo del Concilio, in EV 1, pp. [127]-[129].
2) Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucaristia (17 aprile 2003), n. 48.
3) «Non hanno, perciò, una  esatta nozione della sacra liturgia coloro i quali la ritengono come una  parte soltanto esterna e sensibile del culto divino o come un  cerimoniale decorativo; né sbagliano di meno coloro i quali la  considerano una mera somma di leggi e di precetti con i quali la  Gerarchia ecclesiastica ordina il compimento dei riti». AAS 39 (1947),  p. 532.
4) R. Guardini, Formazione liturgica, Ed. OR, Milano 1988, p. 98.
5) Cf il testo completo in: Benedetto XVI, La rivoluzione di Dio, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2005, pp. 69-76. Lo stesso concetto è ribadito in Deus caritas est,  n. 13: «L’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù. Noi non  riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo  coinvolti nella dinamica della sua donazione» (cf. anche Sacramentum caritatis, 70). 
6) J. Ratzinger, Il centro della liturgia cristiana, “Terra ambrosiana”, 46 (2005), pp. 17-21 (qui, p. 20).


