Presentiamo  il resoconto di un interessante colloquio con uno dei primi  collaboratori di mons. Marcel Lefebvre. Don Emanuel Du Chalard, noto per  essere stato il pioniere della presenza FSSPX in Italia e per aver  sempre mantenuto contatti diplomatici informali fra la Fraternità e  Roma, ci descrive alcuni aspetti della personalità del fondatore,  uscendo, forse per la prima volta, dal suo proverbiale ed umile riserbo.  
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Don  Emanuele, Lei è stato uno dei primi sacerdoti ordinati da mons.  Lefebvre dopo la fondazione della FSSPX. Gli è poi stato vicino per  molti anni. Ci può brevemente descrivere la sua personalità nella vita  quotidiana, al di là dei momenti pubblici?
Prima  di tutto mons. Lefebvre fu per noi un padre e un esempio. Sempre  attento a tutto anche ai più piccoli dettagli. Voleva che il seminario  fosse semplice ma pulito e ordinato. Viveva in seminario come noi,  seguiva lo stesso orario, era sempre presente a tutte le preghiere  comunitarie, prendeva i pasti in refettorio con i seminaristi, non  chiedeva mai niente di speciale per lui. D’altra parte non gli piacevano  i favoritismi. Era molto attento alle persone, sempre pronto ad  ascoltare i seminaristi, si poteva andare a trovarlo nel suo ufficio  quando si voleva, sembrava che non avesse mai altre cose da fare. Fu un  esempio di disponibilità. Aveva sempre una grande attenzione per gli  ospiti, una conversazione gradevole e gli piaceva l’umorismo o la  battuta. Trasmetteva un senso di gioia oltre che di pace e serenità. Era  un uomo buono, ma era soprattutto un sacerdote e un Vescovo vicino a  tutti. Per vederlo o avere un appuntamento non era difficile: non aveva  un segretario privato, si gestiva tutto da solo, appuntamenti,  corrispondenza, organizzazione dei viaggi.
Il  suo stile di vita fu un esempio per noi tutti. E possiamo serenamente  affermare che la Fraternità San Pio X ha improntato il suo modo di  vivere più sull'esempio del suo fondatore che traendolo dal suo  insegnamento.
Non  saprei, ma posso affermare che più ho conosciuto e frequentato mons.  Lefebvre, soprattutto nel contesto romano, più mi sono reso conto che  era davvero un grande uomo di Chiesa. Ben pochi hanno avuto la sua  esperienza maturata dalle responsabilità ricevute. Conosceva la Curia  Romana e i suoi meccanismi alla perfezione. Praticamente, per una  ragione o per un'altra, aveva frequentato tutti i dicasteri vaticani.  Non solo conosceva bene la Chiesa e i suoi problemi ma aveva di essa una  visione di fede e soprannaturale. Tutto ciò faceva di lui un  ecclesiastico di gran statura.
Lei  accompagnò spesso mons. Lefebvre nelle sue visite in Vaticano. Con  quale animo venivano vissuti tali momenti, come si conciliava in lui  l'amore per la Roma cattolica ed il desiderio di difendere la dottrina  di sempre, spesso contraddetta dalle medesime autorità?
Mons.  Lefebvre aveva consacrato la sua vita per la Chiesa, per Roma, per il  Papato, viveva per essa e per Lui servire la Chiesa voleva dire salvare  le anime. Per questo la crisi post-conciliare fu da lui vissuta come un  dramma. Il senso missionario era iscritto profondamente nella sua anima.  Possiamo dire che la sua reazione davanti alla crisi della Chiesa fu  determinata dalla consapevolezza di quali fossero i veri bisogni anime.  Se la fede non è più trasmessa, le anime non possono salvarsi.
Mi  ricorderò sempre della sua reazione all’annuncio della prima giornata  di Assisi dell’ottobre 1986. Di passaggio ad Ecône, ero nel suo ufficio,  e gli dissi quello che si sussurrava su questo progetto. Egli si mise  la testa fra le mani e disse con tono molto addolorato: “E’ la  distruzione della missione”. Era la sua anima profondamente missionaria  chi reagiva.
Ho sempre constatato  in lui un grande rispetto per la gerarchia ecclesiastica. Forse la sua  timidezza e anche questo rispetto, facevano sì che se un Cardinale nella  conversazione affermava un errore o diceva cose sbagliate, generalmente  Monsignore taceva e non parlava più. Per lui era inconcepibile che un  uomo di Chiesa potesse parlare così. E uscito dall’incontro mi diceva  “Ma come è possibile che il Cardinale possa affermare queste cose!” Era  sbalordito.
Fu per lui una  tragedia certamente il trovarsi in opposizione con Roma e con il Papa.  Lui che per decenni fu incoraggiato dal Papa per il suo apostolato in  Africa, non concepiva come non potesse più lavorare nello stesso spirito  e con lo stesso zelo. Qualche cosa era cambiato con il Concilio. In  tali situazioni fu solo la sua gran fede a guidarlo, e fu una fede fino  all’eroismo. Pagò con la sua persona.
Nella  fede infatti c’è un ordine. La Chiesa è al servizio della Verità  (Verità soprannaturale), la Chiesa è la guardiana della Verità, non fa  la Verità e non può cambiarla. Poi essa deve trasmetterla nella sua  integralità. La Chiesa è anche al servizio delle anime, e ha la  responsabilità della loro salvezza. Tutto il resto deve essere ordinato  in funzione della Fede e della salvezza delle anime.
Furono  questi concetti che guidarono monsignor Lefebvre in questi anni di  difficoltà con Roma. Egli era persuaso che un giorno Roma ringrazierà la  Fraternità per la sua difesa della fede e per tutti i sacrifici fatti.  Io personalmente sono convinto che un giorno la Chiesa riconoscerà la  fede eroica di questo Vescovo.
Non  fui il solo sacerdote a seguire da vicino questo momento delicato  dell'esistenza di Monsignore e della vita interna alla Fraternità. Penso  che padre Franz Schmidberger, che era allora il Superiore Generale e i  quattro che furono consacrati Vescovi, potrebbero testimoniare meglio di  me. Ci furono essenzialmente tre tappe per questo cammino: la decisione  di consacrare, quando farlo e infine la consacrazione stessa.
La  prima tappa fu lungamente preparata con una riflessione personale sulla  crisi della Chiesa. molto probabilmente chiese pareri a persone  competenti e soprattutto pregò molto. Si sa, ad esempio, che per almeno  un anno Monsignore si alzò tutte le notti per pregare un’ora davanti al  Santissimo Sacramento allo scopo di avere le grazie necessarie per  capire quello che doveva fare. L’ho sentito dire: “Potrei lasciare le  cose come sono, e poi il Signore provvederà per il futuro della  Fraternità, ma il Signore mi potrebbe dire anche il giorno del giudizio:  ha fatto tutto quello che poteva come Vescovo?” Al mio umile avviso  sarebbe sbagliato pensare che Monsignore abbia preso questa decisione  solo per la Fraternità e il suo avvenire.
Certamente,  egli vedeva piuttosto il bisogno della Chiesa in generale e ritenne, in  coscienza, che questo passo era necessario per un ritorno della  Tradizione, specialmente attraverso il rinnovamento di un sacerdozio  autentico.
Questa fu la prima  tappa e, una volta presa la decisione, ci fu per lui come un senso di  sollievo perché aveva capito con chiarezza che quella era la volontà del  Signore.
La seconda tappa  riguardò il quando procedere a tali consacrazioni episcopali. La  soluzione del problema venne a seguito di una successione di  avvenimenti. Prima volle ancora tentare con Roma la possibilità di  vedere che cosa si potesse fare: incontri con il Cardinale Ratzinger,  poi visita canonica con il Cardinale Gagnon, quindi la commissione fra  la Santa Sede e la Fraternità, infine il famoso protocollo del 5 maggio  88.
Tutto ciò non avrebbe  tuttavia permesso di continuare con serenità la sua opera, anche se  Monsignore riconosceva che nel protocollo la Santa Sede faceva delle  concessioni importanti come l’uso dei libri liturgici tradizionali.
Certamente  inoltre un fatto non secondario era la sua età avanzata. Capiva che non  poteva più continuare a viaggiare per impartire le Cresime e fare le  ordinazioni. E così prese la decisione di consacrare quattro vescovi il  30 giugno 1988.
La terza tappa la  conosciamo tutti. Fu vissuta con un po’ di tensione, a causa di alcune  minacce e della gran folla di giornalisti venuti da tutto il mondo.
E'  vero che l'incontro di Assisi del 1986 rappresentò un elemento  importante che spinse mons. Lefebvre alla scelta delle consacrazioni  episcopali?
Non  direi che l’incontro d’Assisi fu l’elemento decisivo. Esso rappresentò  piuttosto un segno evidente, e sotto gli occhi di tutti, della gravità  della crisi. Indicava infatti con chiarezza dove potevano portare le  novità del Concilio Vaticano II. L’Osservatore Romano all’epoca aveva  giustificato Assisi con il Concilio. Ecco dove portava la famosa libertà  religiosa e l’ecumenismo del Concilio, al di là di tutte le  interpretazioni artificiose che si intesero dare a tale evento.
In fin dei conti la crisi attuale porta all’apostasia e ciò che viviamo oggi, la rende ancora più evidente che nel 1988.
Mons.  Lefebvre le parlò mai del suo incontro con padre Pio? Alcuni autori in  proposito raccontano che in tale occasione il santo di Pietralcina  rimproverò mons. Lefebvre, altri lo negano. Lei ne sa qualcosa di più?
Monsignore  era molto discreto su tutto quello che aveva fatto e faceva. Ma su  questo punto, ci ha precisato che l’incontro fu molto breve. Chiese a  Padre Pio di pregare per il capitolo generale della congregazione dei  missionari dello Spirito Santo della quale era allora il Superiore  Generale. Era infatti molto preoccupato e chiese una benedizione. La  risposta di Padre Pio fu: E’ lei che deve benedirmi. Non ci furono altre  parole. Contro le dicerie sul fatto che padre Pio avrebbe detto che  Monsignore sarebbe stato all'origine di uno scisma, abbiamo potuto avere  la testimonianza dei due sacerdoti che l’avevano accompagnato a San  Giovanni Rotondo. Tali testimonianze confermano quello che Monsignore ha  sempre detto su questo incontro.
Monsignore  fu sempre rispettato da molti prelati a Roma. Da una parte per gli  incarichi che aveva svolto: Arcivescovo di Dakar, Delegato Apostolico  per tutta l’Africa francese, poi Superiore Generale dei Padri dello  Spirito Santo, congregazione questa che contava allora cinquemila  membri. Egli compì un lavoro enorme, è un fatto che nessuno può negare.  Fu rispettato anche perché era un uomo integro, non ricattabile,  coerente e poi parecchi sapevano che in fondo aveva ragione, mentre loro  non avevano avuto il suo coraggio per delle questioni di opportunità.  Essere criticato, ingiuriato, disprezzato, umiliato, condannato,  considerato come fuori della Chiesa, scomunicato, e accettarlo per amore  di Gesù Cristo e della sua Chiesa non è dato a tutti.
Il  Cardinale di Dakar, mons. Thiandium fu certamente uno dei più  coraggiosi. Aveva una grande ammirazione per Monsignore, gli doveva  tutto, sacerdozio, episcopato e possiamo dire anche cardinalato in  quanto, in un certo senso, gli aveva preparato la strada. Non fu  soltanto per questo che il Cardinale stimava mons. Lefebvre; conosceva  le sue qualità e l’aveva visto all’opera a Dakar. So che il Cardinale è  intervenuto presso Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II in  favore di mons. Lefebvre. In occasione del Sinodo sulla famiglia aveva  organizzato un incontro fra il Cardinale Ratzinger, mons. Lefebvre e lui  stesso. Ci furono anche alcuni incontri con il Cardinale Siri, ma non  saprei dire in quale clima si svolsero.
Poi, fu sempre ricevuto dai Cardinali Oddi e Palazzini.
Se  certamente Monsignore fu un uomo molto aperto, amabile e di facile  approccio, era però molto discreto su quello che aveva fatto per esempio  in Africa. Raccontava volentieri delle storie di avventure nella savana  ma non il suo operato. Un giorno ho chiesto a sua sorella carmelitana,  Madre Marie Christiane se sapesse qualche cosa dell’apostolato in  Africa, mi ha risposto: ogni volta che ho chiesto a mio fratello notizie  su quello che faceva come missionario o Vescovo, lui cambiava discorso.
Essendo  stato lui sempre molto riservato circa la sua persona, sarei incapace  di dire se ha avuto esperienze mistiche. So con certezza che pregava  molto soprattutto quando aveva delle difficoltà da risolvere, e d’altra  parte di quel sogno nella cattedrale di Dakar sulla restaurazione del  sacerdozio al quale fa allusione all’inizio dell’Itinerario Spirituale,  libro che consideriamo un po’ come il suo testamento. Che tipo di sogno  era però non lo sappiamo.
Alcuni  giornalisti hanno sostenuto che mons. Lefebvre, negli ultimi giorni di  vita, fosse angosciato e, in un certo senso, "pentito" di alcuni suoi  gesti. Le risulta? Quando fu l'ultima volta che lo vide?
Da  quello che io posso sapere, Monsignore non si è mai pentito di quello  che ha fatto. Personalmente ho avuto la grazia di passare una settimana  con lui un mese prima della sua morte, tre giorni in Sardegna e tre  giorni in Toscana. Lo ho ancora visto in ospedale a Martigny, per  un'ora, una settimana prima della sua scomparsa e prima dell’intervento  chirurgico a cui fu sottoposto. Posso testimoniare che era molto sereno,  mi ha parlato della Fraternità, dei fedeli e più volte ha anche  scherzato.
Una storia per immagini dei 40 anni della Fraternità (1970-2010): la sua creazione, i suoi combattimenti e il suo sviluppo...
Il video è stato realizzato all'occasione del Convegno di Rimini e della venuta di Mons. Fellay.