L’argomento del pamphlet è di quelli densi: “La liturgia della chiesa nell’epoca della secolarizzazione”. Sotto c’è un problema che, raccontato in breve, è questo: la chiesa si è lasciata turbare da un’ansia illusoria di rinnovamento e ha modificato la propria liturgia. Ma il gioco non è valso la candela di cera. Ha abbandonato l’eterno per incontrare il proprio tempo, ha deviato dalla tradizione per abbracciare la società del progressismo: e dopo, con orrore, che cosa ha scoperto? Che il suo è stato l’abbraccio catastrofico con un’età postmoderna già imputridita all’interno e che all’esterno porta segni sempre più evidenti di fallimento. Ora rimediare non sarà facile. La chiesa si è allontanata dalle proprie premesse più salde, si è in parte tramutata in una versione light di se stessa per dimostrarsi non-passatista e ha indebolito il suo messaggio più autentico e attraente. Lo prova la crisi delle vocazioni religiose con tutta la forza dei fatti: la Riforma del Concilio non l’ha risolta, ma anzi l’ha decisamente aggravata. Per citare Joseph Ratzinger: “Quello che sapevamo solo teoreticamente è diventato per noi esperienza concreta: la chiesa sussiste e cade con la liturgia”. Nella storia recentissima della chiesa c’è stato quindi un Prima, quando ancora questa crisi poteva essere evitata. Ma a noi tocca vivere nel Dopo: nel tempo presente, quando ormai la crisi deve essere affrontata. Roberto de Mattei – “sono uno storico, un cattolico laico che vive però con partecipazione i problemi della chiesa” – propone allora il ritorno alla tradizione come antidoto all’idea, filtrata all’interno della chiesa, che la secolarizzazione è comunque un processo storico irreversibile, e quindi, poiché irreversibile, anche “vero”. E avanza un progetto di risacralizzazione della società: dove “l’esperienza di sacro” di cui la società ha disperatamente bisogno si raggiunge attraverso il sacrificio e lo spirito di penitenza. “Al principio dell’edonismo e dell’autocelebrazione dell’Io che costituisce il nucleo del processo rivoluzionario plurisecolare che aggredisce la nostra società – scrive De Mattei – bisogna contrapporre il principio vissuto del sacrificio”. Il capitolo iniziale sull’abbandono del latino durante la liturgia, argomento di una delle tre conferenze da cui è tratto questo pamphlet, è il manifesto convincente del Grande equivoco. Credevamo di essere moderni e anche di farvi un favore, abbiamo invece sperperato il nostro tesoro comune. Il latino non è stato abolito dal Concilio – come si crede grossolanamente – ma non è più usato, anche se una costituzione apostolica del 1962, la Veterum Sapientia, raccomanda il contrario con precise disposizioni. Eppure il latino era per sua natura la lingua della chiesa, perché possiede tutte le caratteristiche che servono. E’ lingua universale, che supera i confini delle nazioni. Si può ribattere che non è più in uso – ma per De Mattei si tratterebbe di un’obiezione povera. Una lingua non muore quando non è parlata, ma quando svanisce dalla cultura e dalla memoria di un popolo. Altrimenti, e per assurdo, dovremmo chiamare lingue morte anche l’ebraico, risorto nel Ventesimo secolo con il sionismo, e l’arabo classico, che oggi è parlato soltanto in alcuni contesti formali. Il latino è una lingua stabile dal punto di vista lessicale e grammaticale, quindi è anche un vettore solido, capace di sfidare il passare dei secoli e di conservare l’integrità e l’immutabilità della dottrina cattolica. Il latino è infine lingua sacra: la lingua della liturgia tra l’assemblea e Dio. E non importa afferrarne tutte le parole: la liturgia non è orizzontale, non lega i fedeli tra loro, ma è verticale, è diretta verso Dio. Come dice al linguista Beccaria la vecchietta alzando il dito verso il cielo, l’importante è che capisca lui. (di Daniele Raineri) FONTE:http://www.corrispondenzaromana.it |