Nel fervido e provvidenziale dibattito in corso sul Concilio Vaticano II giunge a proposito la bella e chiara biografia scritta da padre Serafino Tognetti, Divo Barsotti. Il sacerdote, il mistico, il padre (San Paolo, pp. 405, € 29.00), utile strumento per comprendere da vicino la figura di un monaco che ha vissuto intensamente le aspettative e le cocenti delusioni di un evento che ha rivoluzionato l’operatività della Chiesa in maniera così profonda da alterare la trasmissione della Fede.
Quando venne annunciata l’apertura del Concilio Vaticano II (25 gennaio 1959), furono in molti a riporre grandi speranze nell’evento e fra questi il monaco don Divo Barsotti (1914-2006). Prima del Concilio stesso don Divo ebbe più volte modo di manifestare una certa insofferenza nei confronti di alcuni metodi della Chiesa, che considerava chiusi e rigidi. Scrive padre Tognetti:
«Il momento dell’apertura del Concilio ci rivela un duplice atteggiamento da parte di don Barsotti. Da una parte egli presentava l’evento conciliare ormai imminente come “un’occasione, forse la più grande che Dio abbia concesso all’umanità di oggi, per essere salvata”; dall’altra parte il Concilio potrebbe però rivelarsi “un’occasione per cui questa umanità, invece di essere salvata, potrebbe precipitare nel buio, nella tenebra, non dico in un’apostasia dichiarata, ma in uno scetticismo, in una tensione, in una disperazione che non potrebbe essere più lenita da una speranza che le venga da Cristo, che le venga dalla Chiesa, che è del Cristo la continuatrice, anzi la stessa presenza”. Questo timore di don Divo era motivato dalla percezione di un pericolo che egli scorse nascosto sotto i facili entusiasmi di molti: “Il pericolo di un Concilio che lascia le cose come le trova, anzi le peggiora. Perché ogni grazia di Dio è per sé ambigua: se l’anima non la riceve e non la fa fruttificare, quella grazia si trasforma per te in un motivo maggiore di condanna, di rovina e di morte”» (1).
Barsotti seguì con attenzione, apprensione e soprattutto con la preghiera lo svolgimento dei lavori conciliari. Condusse la Comunità dei Figli di Dio, da lui fondata nel 1947, a meditare i diversi documenti prodotti durante l’Assise. Una delle tematiche che maggiormente lo interessò e lo preoccupò fu quella relativa alla riforma liturgica:
«Il primo errore che dobbiamo evitare è pensare che la riforma liturgica abbia un carattere essenzialmente e primariamente pastorale. Oltre tutto, questo non potrebbe mai essere nella Liturgia. Ha anche un carattere pastorale, indubbiamente, ma prima ancora è preghiera. La prima cosa che si impone per me, se io voglio essere ministro della preghiera liturgica, è che io preghi e faccia pregare gli altri. […]. La preghiera liturgica dunque ci forma alla preghiera e forma il popolo alla preghiera soltanto in quanto fa pregare; se non facesse pregare, non formerebbe né alla Liturgia né alla preghiera. Ed ecco una cosa importante allora che dobbiamo evitare, che cioè queste riforme siano fatte come una “prima di teatro”, come uno spettacolo» (2).
Non passò molto tempo che gli auspici di una benefica rivitalità della Chiesa, promessa dal Concilio, si trasformò, invece, in un’acuta e dolorosa amarezza. Il monaco nato a Palaia (Pisa), ordinato sacerdote nel duomo di San Miniato il 18 luglio 1937, sentì in tutte le sue fibre la drammaticità della crisi della Chiesa sorta negli anni postconciliari. Percepì da vicino e con sgomento il clima di banalizzazione in cui era stato inserito l’annuncio cristiano, un clima che perdeva sempre più la dimensione soprannaturale per acquisire una comune prassi ecclesiale dai lineamenti sempre più umani e sociali. Il mondo era entrato nella Chiesa con le sue idee fuorvianti ed era quello il tempo della rivoluzione culturale del Sessantotto con le sue stravaganze e bizzarrie “di moda”, che voleva «mandare al macero le tradizioni» (3).
La presa di coscienza di ciò che era accaduto e stava accadendo, l’osservare le ferite che venivano inferte con prepotenza alla Chiesa, il verificare la secolarizzazione che, a valanga, investiva gli ambienti cattolici, il prendere atto che lo storicismo e l’antropocentrismo s’impossessavano della figura divina di Cristo e delle Sacre Scritture, travagliarono inesorabilmente i giorni di don Divo Barsotti, che si interrogò sul ruolo che lui doveva assumere… Continuò a favorire, all’interno della sua Comunità, una formazione solida e robusta per non cadere nella trappola del vago senso religioso, infatti: «Bisogna che agisca in tutta la Chiesa senza muovermi dal mio centro. Non debbono essere parole. È necessario che concretamente io partecipi a tutta la vita del mondo senza rifiutarmi, senza escludermi da alcuna attività: che io viva tutta la vita, culturale e religiosa, riformatrice e missionaria – eppure rimanga fisso in Dio» (4).
L’atteggiamento di don Divo di fronte al Concilio Vaticano II si sviluppa in tre fasi: le aspettative (prima), l’ascolto di ciò che veniva prodotto (durante), la valutazione dei frutti (dopo). Risulta di grande importanza, dunque, conoscere il dipanarsi delle sue riflessioni maturate nel corso del tempo e che sono ben evidenziate ed esaminate nei suoi Diari e che padre Tognetti ha studiato in profondità.
Don Divo non è un “sospettabile” che odora di tradizionalismo, è un sacerdote che non può essere accusato di “pregiudizi” e preconcetti; egli è un monaco che elaborò e ruminò ipotesi, idee, applicazioni del Concilio Vaticano II, giungendo alle conclusioni che oggi in molti, ormai, vanno ragionando. Ed ecco che i teologi furono da lui considerati i grandi responsabili di ciò che era avvenuto nella Chiesa, nei Seminari, nelle facoltà universitarie: «[…] le parole non generano più che nuove parole […]. Il Concilio di Trento ha nutrito la teologia per quattro secoli; del Vaticano II i teologi sembrano già stanchi dopo pochi anni dalla fine» (5).
Padre Tognetti, che ha vissuto a fianco di don Divo fin dalla giovinezza, potendo oggi testimoniare con vivezza un’esistenza imbevuta alla fonte del silenzio immerso nel trascendente, analizza come l’atteggiamento del fondatore della Comunità dei Figli di Dio si sia andato depurando sempre più da ogni semplicistico ottimismo e, di contro, si sia fatto sempre più critico nei confronti dei cambiamenti introdotti nella Chiesa dal Concilio del XX secolo. Il suo fu un vero e proprio travaglio, sia intellettuale che spirituale. E proprio perché immenso fu il suo amore per la Chiesa più accesa e più detonante fu la sua angoscia.
Nelle pagine del Diario del 1967, quando erano trascorsi appena due anni dalla chiusura dell’Assise, egli esternò la sua critica sui documenti conciliari, che gli «sembrano attestare una sicurezza tutta umana più che una fermezza di fede» (6) e reagì con forza «contro la facile ubriacatura dei teologi acclamati al Concilio. Si trasferisce all’avvenimento la propria vittoria personale, un’orgogliosa soddisfazione che non ha nulla di evangelico» (7).
Molti teologi, infatti, si sentirono capicannonieri e l’eco della loro esultanza fu raccolta dall’editoria come dalla pubblicistica in genere, dalle facoltà teologiche come dai simposi.
Don Divo, invece, come altri messi a tacere o isolati in un angolo, perché non portassero “scandalo” e non disturbassero la rivoluzione in corso, andava allarmandosi sempre più, non riconoscendo nella nuova impronta ecclesiale gli insegnamenti della Chiesa di sempre. Si dimostrò infastidito dalla continua esaltazione del Concilio, una manifestazione che gli pareva essere frutto di «cattiva coscienza» (8) da parte di chi lo difendeva ad oltranza, ma: «Se è opera di Dio, non ha bisogno di essere difeso» (9). Era una volontà prepotente di chi rinfacciava alla Curia romana la propria vittoria e intanto per Barsotti - che guidò, su richiesta esplicita di Paolo VI, gli esercizi spirituali alla stessa Curia, nella settimana dopo il mercoledì delle Ceneri del 1970 - l’Assise «forse perché ha voluto dir troppo, non ha detto molto» (10).
Denunciò la precisa volontà dei Padri conciliari e dei Vescovi del postconcilio di non condannare l’errore, con la pretesa di rinnovare la Chiesa «quasi che il “loro” Concilio potesse essere il nuovo fondamento di tutto» (11). Parole che fanno rabbrividire, ma che testimoniano inequivocabilmente che davvero successe qualcosa di grave fra il 1962 e il 1965: far finta di niente equivarrebbe a non voler risolvere l’evidente crisi della Chiesa e della Fede ad essa correlata.
Barsotti, del quale l’autore della biografia ripercorre con acume tutti i passi della sua ricca esistenza, non rimase in silenzio, osservava e parlava, giungendo ad affermare cose che la Tradizione continua a ribadire, ovvero che nel Vaticano II «non sono stati impediti gli equivoci, l’ambiguità e soprattutto non è stata impedita la presunzione, non l’ambizione e il risentimento, non la superficialità e la volontà di un rinnovamento che voleva essere uno scardinamento, sradicamento della tradizione dogmatica, una diminuzione della tradizione spirituale» (12).
Non acquisì posizioni di rottura nei confronti del Magistero, ma esplicita e manifesta era la sua criticità e la sua grande sofferenza che riusciva a sublimare nella contemplazione e nel ritiro di una vita monastica assorta in Dio, nella insistente ricerca delle virtù della perfezione cristiana. Ed ecco l’inseguimento della santità, amata e desiderata: senza la santità, per questo monaco tuffato nello Spirito, che meditava scrivendo e scrivendo meditava, la religiosità “moderna” era fatta soltanto di parole vuote e vane, come chiaramente espresse nella sua opera Battesimo di fuoco: «Sono perplesso nei riguardi del Concilio medesimo: la pletora di documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. […] Ma soprattutto mi indigna il comportamento dei teologi. Crederò loro quando li vedrò veramente bruciati, consumati dallo zelo per la salvezza del mondo. […] Tutto il resto è retorica. Soltanto la santità salva la Chiesa. E i santi dove sono?» (13).
Cristina Siccardi
NOTE(1) S. Tognetti, Divo Barsotti. Il sacerdote, il mistico, il padre, San Paolo, Milano 2012, pp. 221-222. (2) Ivi, p. 223. (3) Ivi, p. 224. (4) Ibidem. (5) Ivi, p. 225 (6) Ivi, p. 226 (7) Ibidem. (8) Ivi, p. 228. (9) Ibidem. (10) Ivi, p. 226. (11) Ivi, p. 227. (12) Ibidem. (13) Ivi, p. 228.