Mi è capitato sotto mano, rileggendo la Rivista internazionale di ricerca e di critica teologica DIVINITAS, Anno LIV, 2, 2011, un articolo davvero interessante del prof. Paolo Pasqualucci, docente di filosofia riportato per intero nel sito Riscossa Cristiana. L'analisi dotta e completa affronta la questione della "novità" cristologica che è in contrasto con la Cristologia pre-Conciliare. La vulgata corrente asserisce spavaldamente che i testi del Vaticano II sono chiari ma che non sono stati recepiti a dovere, cioè mal interpretati. Abbiamo parlato della Dei Verbum, ora è bene parlare dell'altro buco nero: la Gaudium et spes nel numero 22, dove per la prima volta nella storia della Chiesa si utilizza un avverbio del tutto sorprendente, quodammodo: in certo modo. Il prof. Pasqualucci ci accompagna per mano facendoci capire non solo l'inconsistenza e la pericolosità di questo avverbio VOLUTO dai redattori ma analizza quelle che sono state le conclusioni drammatiche che han portato ad un cambiamento non poco radicale della nostra fede.
[Vedi su questo blog - e anche (GS12 e 24]
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La Cristologia antropocentrica del Concilio Vaticano II
di Paolo Pasqualucci
di Paolo Pasqualucci
1. È lecito ridiscutere le ambiguità del Vaticano II? Sembra che molti ancora oggi ritengano impossibile persino proporre una domanda del genere, per il semplice motivo che l’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II dovrebbe considerarsi dogmatico. Perché ha definito nuovi dogmi o semplicemente in quanto Concilio ecumenico? Se non per il primo, per il secondo motivo, si dice. Infatti, due costituzioni del Vaticano II si fregiano del titolo di “dogmatiche”, ma la cosa appare inspiegabile dal momento che esse non definiscono nuovi dogmi, non condannano solennemente errori né vogliono espressamente conferire la nota della dogmaticità al loro insegnamento complessivo.
Resta allora il secondo motivo. Ma può l’insegnamento di un Concilio ecumenico che ha voluto essere dichiaratamente solo pastorale (Nota praevia in calce alla Cost. “dogmatica” Lumen gentium) assumere per noi credenti la stessa autorità di un concilio espressamente dogmatico, quale ad esempio il Tridentino o il Vaticano primo? E per di più un Concilio che ha voluto proporre una pastorale insolita, dato che essa mirava espressamente ad “aggiornare” la dottrina, la pastorale, la prassi stessa della Chiesa al modo di sentire del mondo moderno, promuovendo a questo fine una riforma radicale di tutta la Chiesa militante, a cominciare dalla Liturgia?
Questo Concilio è sempre apparso a molti del tutto atipico, e non tanto perché solo pastorale quanto per via dell’intenzione cui la sua pastorale mirava. E la sua atipicità sembra confermata dal fatto che si fatica (mi sembra) ad inquadrarne l’insegnamento nella categoria tradizionale (quella del magistero straordinario) che il diritto canonico applica alla dottrina dei concili ecumenici, se è vero, com’è vero, che fonti autorevoli hanno dovuto descriverla, questa dottrina, in modo del tutto anodino, come “magistero autentico non infallibile”(1).
Il mio studio, di prossima pubblicazione, del quale sono onorato di poter offrire qui una breve sintesi, prende in esame la cristologia del Vaticano II. Ad essa il Concilio non ha dedicato alcun documento specifico. Tuttavia, l’art. 22 della costituzione conciliare Gaudium et spes sulla Chiesa ed il mondo contemporaneo, articolo il cui tema è: “Cristo, l’uomo nuovo”, ricapitola la cristologia sempre insegnata dalla Chiesa, mettendo a fuoco, in particolare, il significato che bisogna attribuire alla natura umana del Signore. Questo significato non può naturalmente esser concepito in contraddizione con il dogma della fede. Ma il concetto di Incarnazione che si ricava dall’art. 22 GS è sempre apparso a non pochi interpreti notevolmente ambiguo. Nel mio studio, pertanto, cerco, per quanto sta alle mie capacità, di dipanare questa ambiguità, approfondendo al massimo l’analisi filologico-grammaticale del testo, sino al riscontro di tutti i rinvii alle fonti citate in nota al testo stesso.
2. Una nuova ed ambigua concezione dell’Incarnazione. Nell’art. 22.2 della Gaudium et spes, si afferma che “con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Ipse enim, Filius Dei, incarnatione sua cum omni homine quodammodo Se univit). Come si giunge ad una simile proposizione, che colpisce per la sua novità nonché per una certa, immediata ambiguità, derivante a prima vista dall’uso dell’avverbio “in certo modo”? Se Nostro Signore si è unito solo “in certo modo”, dobbiamo intendere quest’unione unicamente in senso simbolico, ovvero morale? E se sì, che cosa vorrebbe dire ciò, che ognuno di noi è stato in certo modo divinizzato dall’Incarnazione di Nostro Signore? Ma anche senza l’inciso in questione, l’idea stessa dell’incarnazione di Nostro Signore come “unione con ogni uomo” appare tutt’altro che chiara, dal momento che, secondo il dogma, noi sappiamo essersi Egli unito (nell’unione ipotastica) esclusivamente alla natura umana di quell’uomo che è stato l’ebreo Gesù di Nazareth; unita, quindi, la Sua divinità (pur mantenendosi essa indivisa e distinta) alla natura umana di un solo uomo, in un unico individuo, un uomo in carne e ossa, la cui esistenza storica è stata ampiamente provata. Come mai il Concilio, in modo del tutto atipico, ci viene a parlare dell’Incarnazione come di un’unione di Nostro Signore “con ogni uomo”? Che significa?
Resta allora il secondo motivo. Ma può l’insegnamento di un Concilio ecumenico che ha voluto essere dichiaratamente solo pastorale (Nota praevia in calce alla Cost. “dogmatica” Lumen gentium) assumere per noi credenti la stessa autorità di un concilio espressamente dogmatico, quale ad esempio il Tridentino o il Vaticano primo? E per di più un Concilio che ha voluto proporre una pastorale insolita, dato che essa mirava espressamente ad “aggiornare” la dottrina, la pastorale, la prassi stessa della Chiesa al modo di sentire del mondo moderno, promuovendo a questo fine una riforma radicale di tutta la Chiesa militante, a cominciare dalla Liturgia?
Questo Concilio è sempre apparso a molti del tutto atipico, e non tanto perché solo pastorale quanto per via dell’intenzione cui la sua pastorale mirava. E la sua atipicità sembra confermata dal fatto che si fatica (mi sembra) ad inquadrarne l’insegnamento nella categoria tradizionale (quella del magistero straordinario) che il diritto canonico applica alla dottrina dei concili ecumenici, se è vero, com’è vero, che fonti autorevoli hanno dovuto descriverla, questa dottrina, in modo del tutto anodino, come “magistero autentico non infallibile”(1).
Il mio studio, di prossima pubblicazione, del quale sono onorato di poter offrire qui una breve sintesi, prende in esame la cristologia del Vaticano II. Ad essa il Concilio non ha dedicato alcun documento specifico. Tuttavia, l’art. 22 della costituzione conciliare Gaudium et spes sulla Chiesa ed il mondo contemporaneo, articolo il cui tema è: “Cristo, l’uomo nuovo”, ricapitola la cristologia sempre insegnata dalla Chiesa, mettendo a fuoco, in particolare, il significato che bisogna attribuire alla natura umana del Signore. Questo significato non può naturalmente esser concepito in contraddizione con il dogma della fede. Ma il concetto di Incarnazione che si ricava dall’art. 22 GS è sempre apparso a non pochi interpreti notevolmente ambiguo. Nel mio studio, pertanto, cerco, per quanto sta alle mie capacità, di dipanare questa ambiguità, approfondendo al massimo l’analisi filologico-grammaticale del testo, sino al riscontro di tutti i rinvii alle fonti citate in nota al testo stesso.
2. Una nuova ed ambigua concezione dell’Incarnazione. Nell’art. 22.2 della Gaudium et spes, si afferma che “con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Ipse enim, Filius Dei, incarnatione sua cum omni homine quodammodo Se univit). Come si giunge ad una simile proposizione, che colpisce per la sua novità nonché per una certa, immediata ambiguità, derivante a prima vista dall’uso dell’avverbio “in certo modo”? Se Nostro Signore si è unito solo “in certo modo”, dobbiamo intendere quest’unione unicamente in senso simbolico, ovvero morale? E se sì, che cosa vorrebbe dire ciò, che ognuno di noi è stato in certo modo divinizzato dall’Incarnazione di Nostro Signore? Ma anche senza l’inciso in questione, l’idea stessa dell’incarnazione di Nostro Signore come “unione con ogni uomo” appare tutt’altro che chiara, dal momento che, secondo il dogma, noi sappiamo essersi Egli unito (nell’unione ipotastica) esclusivamente alla natura umana di quell’uomo che è stato l’ebreo Gesù di Nazareth; unita, quindi, la Sua divinità (pur mantenendosi essa indivisa e distinta) alla natura umana di un solo uomo, in un unico individuo, un uomo in carne e ossa, la cui esistenza storica è stata ampiamente provata. Come mai il Concilio, in modo del tutto atipico, ci viene a parlare dell’Incarnazione come di un’unione di Nostro Signore “con ogni uomo”? Che significa?
(...)
Infatti, se il Signore si è unito occultamente ad ogni uomo, per il fatto stesso di essere il Signore che si è incarnato, allora ogni uomo partecipa ontologicamente della natura divina di Cristo e la distinzione tra la natura nostra, corrotta dal peccato originale, e il Sovrannaturale di fatto scompare. Che ruolo dobbiamo allora attribuire alla Grazia? Non presuppone essa la Caduta dell’uomo, l’imperfezione (non totale ma tuttavia ontologica) della sua natura, che la divina Misericordia si degna di emendare, dandoci la possibilità della salvezza tramite l’Incarnazione del Verbo e la Sua opera redentrice? Ma se Cristo si è già unito a noi, per il solo fatto di essere Cristo, allora noi siamo già stati tutti redenti per il solo fatto di essere uomini e Cristo stesso e la Chiesa non hanno nulla da fare più! Ed infatti il Vaticano II, suggerendo una novità come quella esposta nell’art. 22 GS, ha indotto a mutare il senso della missione della Chiesa, il cui nuovo messaggio è ora il seguente: gli uomini contemporanei dovrebbero rendersi conto che, già con l’Incarnazione, Cristo si è unito a ciascuno di loro, per ciò stesso elevandolo ad una dignità sublime e conferendogli un’altissima missione, indicata dal Concilio e fatta propria dalla Gerarchia come suo compito specifico; missione che consiste nel realizzare la pace nel mondo, la fratellanza universale nel dialogo che non mira a convertire ma ad acquisire le posizioni dell’avversario per superarle in una Comunione universale d’amore, una nuova Chiesa, “ecumenica”, incontro solidale di tutti i popoli e di tutte le religioni!(3)
La “nuova dottrina” dell’Incarnazione mina, a mio avviso, anche il dogma della predestinazione alla Gloria, che appartiene all’infallibilità del magistero ordinario. Lo mina, anche nella sua forma più moderata, quella della predestinazione condizionale (ad gloriam tantum, sed post et propter praevia merita)(4). Infatti, se con l’Incarnazione il Verbo si è unito di per sé ad ognuno di noi, come si può affermare che una parte dell’umanità non si salverà (sia pure per colpa propria e non perché predestinata alla dannazione) perché solo una parte di noi è stata imperscrutabilmente predestinata da Dio alla Gloria eterna (Rm 9, 11 ss.)? Se ognuno di noi partecipa oggettivamente, per il solo fatto di esser uomo, della natura divina (perché il Verbo, incarnandosi, si sarebbe unito eo ipso anche a lui), come è possibile che ci siano tra di noi alcuni (ed anzi molti – Fil 3, 18-19) che non solo non sono stati predestinati alla gloria eterna ma che andranno per colpa loro in perdizione, pur non essendovi stati predestinati?
Ma i rilievi negativi non possono arrestarsi qui. Se Cristo, nuovo Adamo, con l’Incarnazione “svela l’uomo a se stesso”, rivelandogli la sua altissima missione e sublime dignità, e in tal modo “rivela il mistero del Padre e del suo amore” (GS, 22.1), ciò significa che fine dell’Incarnazione viene ad essere l’attuazione del “mistero dell’amore del Padre” per il genere umano. Ma questo fine, che è quello della Misericordia divina, non può esprimere tutto il significato dell’Incarnazione. Ve n’è anche un altro, ad esso superiore. L’Incarnazione avviene anche perché si deve attuare l’esigenza della giustizia divina, che esige riparazione per il peccato di Adamo. Tale riparazione si perfeziona con la Croce, che ha appunto un significato propiziatorio ed espiatorio. Ciò significa che nell’Incarnazione c’è il fine di dare soddisfazione all’esigenza della Giustizia divina. Di questo fine, in GS 22, non sembra esservi traccia.
Il fatto è che, se si mina alla base il dogma cristologico, l’intero edificio dottrinale della religione cattolica viene a cadere, come sembra evidente. Per questo, sin dagli inizi del Cristianesimo, la Gerarchia ma anche i fedeli, per quanto stava al loro sensus fidei, reagirono sempre con decisione e tenacia alle gravi eresie cristologiche che si erano susseguite a partire dalla fine del I secolo, quando, grazie agli gnostici, si affacciò per la prima volta il docetismo, il quale negava la realtà del corpo di Cristo e considerava semplice apparenza la Sua vita terrena, e in particolare le Sue sofferenze (l’eresia docetista sarebbe poi riapparsa nel Corano, 4: 156).
La “nuova dottrina” dell’Incarnazione mina, a mio avviso, anche il dogma della predestinazione alla Gloria, che appartiene all’infallibilità del magistero ordinario. Lo mina, anche nella sua forma più moderata, quella della predestinazione condizionale (ad gloriam tantum, sed post et propter praevia merita)(4). Infatti, se con l’Incarnazione il Verbo si è unito di per sé ad ognuno di noi, come si può affermare che una parte dell’umanità non si salverà (sia pure per colpa propria e non perché predestinata alla dannazione) perché solo una parte di noi è stata imperscrutabilmente predestinata da Dio alla Gloria eterna (Rm 9, 11 ss.)? Se ognuno di noi partecipa oggettivamente, per il solo fatto di esser uomo, della natura divina (perché il Verbo, incarnandosi, si sarebbe unito eo ipso anche a lui), come è possibile che ci siano tra di noi alcuni (ed anzi molti – Fil 3, 18-19) che non solo non sono stati predestinati alla gloria eterna ma che andranno per colpa loro in perdizione, pur non essendovi stati predestinati?
Ma i rilievi negativi non possono arrestarsi qui. Se Cristo, nuovo Adamo, con l’Incarnazione “svela l’uomo a se stesso”, rivelandogli la sua altissima missione e sublime dignità, e in tal modo “rivela il mistero del Padre e del suo amore” (GS, 22.1), ciò significa che fine dell’Incarnazione viene ad essere l’attuazione del “mistero dell’amore del Padre” per il genere umano. Ma questo fine, che è quello della Misericordia divina, non può esprimere tutto il significato dell’Incarnazione. Ve n’è anche un altro, ad esso superiore. L’Incarnazione avviene anche perché si deve attuare l’esigenza della giustizia divina, che esige riparazione per il peccato di Adamo. Tale riparazione si perfeziona con la Croce, che ha appunto un significato propiziatorio ed espiatorio. Ciò significa che nell’Incarnazione c’è il fine di dare soddisfazione all’esigenza della Giustizia divina. Di questo fine, in GS 22, non sembra esservi traccia.
Il fatto è che, se si mina alla base il dogma cristologico, l’intero edificio dottrinale della religione cattolica viene a cadere, come sembra evidente. Per questo, sin dagli inizi del Cristianesimo, la Gerarchia ma anche i fedeli, per quanto stava al loro sensus fidei, reagirono sempre con decisione e tenacia alle gravi eresie cristologiche che si erano susseguite a partire dalla fine del I secolo, quando, grazie agli gnostici, si affacciò per la prima volta il docetismo, il quale negava la realtà del corpo di Cristo e considerava semplice apparenza la Sua vita terrena, e in particolare le Sue sofferenze (l’eresia docetista sarebbe poi riapparsa nel Corano, 4: 156).