AVVENTO E NATALE
L’uomo non può mai dire di avere realizzato pienamente la sua trasformazione nel Cristo, di avere posto fine a un cammino di partecipazione che ci chiama a una santità ogni giorno più grande. D’altra parte, anche Dio quando si è comunicato al mondo ed è disceso fra noi, ha dovuto vivere l’atto supremo e semplicissimo di un amore onde tutto si donava agli uomini attraverso avvenimenti scaglionati nel tempo, che rivelano ora un aspetto, ora un altro, di questa semplicità assoluta e di questa infinita pienezza di amore.
Tanto più questo si impone a noi.
Non è vero che oggi è Natale a differenza di ieri, non è vero che oggi è Natale a differenza di domani: sempre è il Natale.
Ma per me uomo, vivendo quaggiù sulla terra, nel tempo, si impone che io viva di questo Mistero ora un aspetto, ora un altro; che acceda allo stesso Mistero attraverso una continua serie di giorni, un continuo ripetersi di anni che sempre più dovrebbe farmi entrare nel cuore della realtà semplice e immensa che è la pura Presenza del Cristo.
La presenza del Natale non distrugge per noi l’Avvento; la presenza dell’Avvento non elimina per noi quella del Natale. Il Natale vero non lo celebriamo stanotte; lo celebreremo soltanto quando l’Avvento sarà venuto meno per noi col nostro ingresso nel Cristo; il vero Natale è quello.
Non perché nascerà il Cristo, ma perché noi nasceremo definitivamente alla vita divina, la partecipazione al Mistero dell’Incarnazione divina sarà compiuta e non potrà avere un ulteriore progresso, non potrà conoscere un inserimento più profondo. Rimarremo definitivamente in quella luce in cui la morte ci farà entrare. Allora l’Avvento cesserà. Ma anche con la celebrazione del Natale di stanotte non termina il nostro Avvento. Tanto non termina che vogliamo vivere anche domani....
E lo desideriamo precisamente perché sentiamo quanto sia ancora povera questa nostra partecipazione al Mistero del Cristo che si dona a ciascuno di noi.
(Ritiri ed esercizi, Libroni verdi, 24 dicembre 1966)
RESPONSABILITA’
Io accetto male l’espressione «Ecclesia semper reformanda»; non posso accettare che la Chiesa debba essere una Chiesa di peccatori. In realtà è così, ma non doveva essere così, perché la grazia divina in realtà è grazia trasformante. Non si può dire a nostra giustificazione che l’uomo è iustus simul et peccator. Se noi siamo santificati, siamo santificati, il peccato è distrutto, anche se non sono distrutte le conseguenze del peccato. La grazia divina veramente ci trasforma nell’intimo, ci unisce alla vita di Cristo. E allora ne viene che la comunità dei credenti deve essere veramente la manifestazione della santità di Dio.
Non ci si rende conto che cosa voglia dire il peccato per gli uomini che sono figli di Dio, per noi che siamo chiamati alla perfezione. Quanto più alta è la responsabilità
che noi riceviamo dalla Chiesa, quanto più grande la missione che noi riceviamo dalla Chiesa, tanto più s’impone la nostra identità con Cristo, e al punto tale che un minimo nostro peccato è di una gravità eccezionale. Io credo che un peccato, sia pur minimo, per esempio di un Vescovo o di un Papa sia più grande di un’ecatombe di una città. Perché? Perché il Vescovo o il Papa è veramente il sacramento della presenza di Dio nel cuore dell’uomo, e se tu non lo fai veramente presente, rischi di nascondere, di negare Dio agli uomini, tu ritardi la funzione rivelatrice del Cristo che continua attraverso il Magistero della Chiesa.
E pensate che cosa voglia dire, oltre la funzione rivelatrice, la funzione pastorale, quella di guidare gli uomini! Se tu devi guidare un gregge per portarlo verso nord-est, se devii anche di un grado solo, facendo un chilometro, la deviazione può essere solo di qualche metro, ma facendo cinquecento chilometri, ti allontani di molto dalla meta, e facendone più ancora, dove andrai a finire? Ed è questo il terribile: una mia deviazione compromette la vita di santità di tutta la Chiesa.
Dio può, indipendentemente dal nostro peccato, salvare la Chiesa, e la salva, ma questo non vuole dire che la Chiesa sia veramente il sacramento di Dio, che manifesti veramente Dio nel mondo, se noi non siamo santi. Di qui vedete l’importanza della santità di noi sacerdoti che rappresentiamo Dio.
Nel dono dello Spirito, il Verbo divino in qualche modo assume la mia umanità in un certo prolungamento della sua Incarnazione divina. Egli assume tutte le mie potenze e le mie potenze diventano sue. Assume il mio cuore e il mio cuore diventa l’organo onde Egli medesimo ama e salva. In me Egli continua a vivere il mistero della sua morte e Risurrezione.
Dono grande dello Spirito che richiede il mio continuo sì con abbandono e fedeltà!
(Esercizi spirituali, Greccio 1971)
DIALOGO
Il dialogo è essenziale all’uomo perché l’uomo è creatura. Ecco perché la filosofia greca, per quanto grande, non può essere totalmente accettata dai cristiani. Vi è un limite nel pensiero greco che noi dobbiamo superare, ed è precisamente il fatto che tale filosofia non riconosce la creazione, e non riconoscendola, non riconosce nemmeno essenziale un rapporto con Dio. L’uomo è già costituito in sè stesso, trova già una consistenza, uno statuto suo proprio indipendentemente da Dio, mentre l’essere creato è in quanto dipendente.
Pertanto, essere, per noi, vuol dire dipendere da Dio. Noi siamo in quanto viviamo questo rapporto. Ecco perché il vivere, per noi uomini, vuol dire vivere una vita religiosa. La vita religiosa non è qualche cosa che si aggiunge al nostro essere umano, dal di fuori, che arricchisce la nostra vita o il nostro essere umano, perché al di fuori del rapporto con Dio non esiste nemmeno l’essere creato.
La filosofia greca suppone una materia prima, la quale suppone a sua volta la creazione. Dio è soltanto un ordinatore, un nome che dà una forma alle cose, ma non le crea nel loro intimo essere, non le stabilisce nel loro essere primo. Invece, siccome Dio è Creatore e tu sei creatura, l’essere per te vuol dire vivere il dialogo, cioè il rapporto con Dio.
Come Dio in se stesso, così la creatura in sè stessa è rapporto. Nelle divine Persone il Padre non è senza il Figlio, il Figlio non è senza Padre, ma anche la creatura non è senza Dio, perché la creatura non può essere pensata che in un rapporto di dipendenza da Lui, di finalità o di dipendenza. Ma mentre il rapporto è vissuto fisicamente, meccanicamente, da una creatura irrazionale, dall’uomo è vissuto coscientemente e liberamente.
Dio, che ci ha creato liberi e responsabili, vuole che il rapporto che abbiamo con Lui non sia soltanto meccanico; come una pietra o un albero con la divinità: deve essere un rapporto vissuto, cosciente, un rapporto libero, di amore.
E tu sei nella misura che ami, tu sei nella misura che accetti la tua dipendenza da Dio.
Noi non siamo, indipendentemente da Dio: ecco perché il dannato non vive che la sua morte eterna. Credeva egli, chiudendosi a Dio, di difendere maggiormente la propria autonomia, invece sottraendosi a Dio non vive che la sua sterilità eterna, il suo vuoto eterno, la sua morte definitiva.
Vivere, per l’uomo, vuol dire vivere un dialogo con Dio. Dialogo, perché implica la coscienza di questa dipendenza da Dio, ma anche la libertà di accettare questa sua dipendenza. Tu devi voler vivere questa tua dipendenza, tu devi amare questa tua dipendenza, devi stabilire questa tua dipendenza e vivere sempre più profondamente, sempre più liberamente e amorosamente questa tua dipendenza da Dio. Questo è il rapporto.
(tratto da: ritiri ed esercizi, Libroni verdi, anno 1966)
E’ il delitto del XIX secolo quello di non odiare il male, e di fargli delle proposte. Ogni accomodamento concluso con lui non somiglia neppure al suo trionfo parziale, ma al suo trionfo completo, perché il male non sempre domanda di scacciare il bene: domanda piuttosto il permesso di coabitare con lui. Un istinto segreto lo avverte che domandando qualche cosa, domanda tutto. Appena non è più odiato, si sente adorato. (tratto da: Ernest Hello, “L’uomo”)