È per l’obbedienza che ritorniamo alla patria, ci dice san Benedetto. Tutto dunque sta, come
si è detto, nell’ascoltare ed essere docili a Dio. Nessuna parola può sostituire questa Parola
divina che ciascuno di noi deve sentire nel cuore. Se non la si ascolta non è perché Dio non ci
parli, ma perché qualcosa impedisce di ascoltare. Nessuno è sordo alla divina Parola tranne
colui che vuole esserlo.
Il nulla stesso ascolta la Parola di Dio. “Dio disse: Sia la luce!. E la
luce fu” (Gen 1,3). Il nulla stesso risponde al Signore. Quanto più ascolterà e risponderà
l’uomo che Dio ha creato perché collaborasse con Lui!
Si ha paura di Dio. Non è il fuoco? Obbedire a Dio vuol dire gettarsi nel fuoco e il fuoco
brucia; obbedire a Dio è gettarsi nell’abisso, perdersi. Nell’obbedienza, di fatto l’uomo muore
a se stesso e fa posto a Dio: così nell’obbedienza è veramente la perfezione dell’umiltà.
Anche quelli che con tanto orgoglio fanno domanda d’essere ammessi tra i paracadutisti, la
prima volta che devono gettarsi dall’aereo, hanno bisogno di una spinta. Qualcuno li deve
spingere fuori, nel vuoto. Così avviene per l’anima. Dio può sollecitare l’anima a donarsi, ma
rispondergli esige dall’anima una dedizione sempre più pura; e l’uomo ha paura della morte.
Si ha viva e chiara la percezione che le esigenze di Dio non sono come quelle di una creatura,
che sono sempre limitate. Io posso forse contentare le creature, ma come potrei contentare
Dio? Quanto più mi dono, tanta più Egli mi domanda. L’abisso divino rimane incolmabile. È
anzi nella misura in cui mi dono che cresce la sua fame.
E l’anima si difende. Si fa qualcosa per non far tutto.
Quello che si fa, si fa precisamente per
difenderci contro le esigenze di Dio.
La grazia invece segretamente ci purifica per farci capaci di amare. La purezza del cuore in
qualche modo misura l’amore. Di fatto l’uomo “immagine di Dio” (cfr. Gen 1,26.27) - ed è
solo il peccato che ha oscurato l’immagine - è creazione di amore. Via via che purificandosi
ritorna alla sua integrità naturale, ama. L’amore è l’espressione stessa naturale della sua
natura, è la sua vita.
San Tommaso riconosce il carattere “fisico” dell’amore, come l’avevano insegnato Cassiano
ed Evagrio, che concretamente identificavano la purezza del cuore alla carità.
Nella purezza
l’uomo si libera di fatto dall’egoismo che lo divide e lo contrappone agli altri ed egli diviene
uno con tutti, vivendo nell’amore l’unità di natura.
Ma non basta la purezza nel cammino che ci conduce a Dio. L’integrità di natura sembra
essere solo la condizione dell’umiltà. L’amore per Dio è, di fatto, sacrificio di sé. Come
potrebbe l’uomo realizzare “la sua unità” con Dio senza prima morire nell’obbedienza? Senza
venir meno a se stesso nell’umiltà?
Per questo il processo della nostra purificazione e
l’esercizio perfetto dell’umiltà sono possibili mediante una grazia che ci è stata meritata da
Cristo e ci va assimilando sempre più profondamente a Lui.
Il Cristo di fatto è l’ “Uomo nuovo” (cfr. Ef 2,15; 4,24; Col 3,10) nel quale la nostra natura
ritorna ad essere una ed è nella sua obbedienza al Padre che la natura umana si offre
pienamente a Dio per compiere la Sua volontà.
L’atto supremo del Cristo è la rinunzia a ogni
Sua volontà umana per la volontà del Padre nell’accettazione della morte. “Non ciò che io
voglio, ma ciò che vuoi Tu” (Mc 14,36). L’uomo non potrebbe voler la sua morte che
offrendosi puramente a Dio nel dono totale di sé, non potrebbe vivere questo dono che in
quanto egli vive nel Cristo o piuttosto il Cristo stesso vive in lui la Sua morte.
Nell’atto della morte di croce, come ha il suo compimento perfetto e immutabile tutta
l’ascesi, così la natura umana trova per l’eternità la perfezione suprema dell’amore.
Il riconoscimento di Dio è il riconoscimento dell’Unico. Tu sei per attestarlo. La
proclamazione dell’unità può essere fatta dall’uomo solo nell’atto in cui egli consente di
morire a se stesso per far posto in se stesso a Dio. E il posto di Dio nell’uomo non può essere
che tutto l’uomo, in una sua morte.