La Chiesa di sempre
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DON DIVO BARSOTTI
La Chiesa è l’unità nel tempo. Guai se se rompiamo il legame che ci unisce alla Chiesa di sempre.
Non posso riconoscere la Chiesa di oggi se questa non è la Chiesa del Concilio di Trento, se non è la Chiesa di Francesco e di Tommaso, di Bernardo e di Agostino. Io non so che farmene di una Chiesa che nasca oggi.
Se si rompe l’unità, la Chiesa è già morta. La Chiesa vive soltanto se, senza soluzione di continuità, io sono nella Chiesa uno con gli Apostoli per essere uno con Cristo.
Dobbiamo vivere della tradizione, sentirci fratelli e discepoli non solo di un Dio, ma di un Dio che si comunica a noi attraverso i Padri, e i Padri sono, nell’ininterrotta successione dell’episcopato, del sacerdozio ministeriale, Basilio e Giovanni, Agostino e Gregorio, Bernardo e Tommaso , fino ad Alfonso, a Newman, a Rosmini, a Pio XII; sono oggi i vescovi del Concilio, e, primo fra tutti il Papa. Ma sono anche i santi di tutte le epoche , di tutti i paesi. Nei confronti di tutti, io sono un figlio che riceve la vita.
Non si vive nella Chiesa l’amore, se si esclude questo rapporto, non soltanto di fraternità ma di filiazione e questo rapporto è vissuto fondamentalmente nella dipendenza al magistero.
Dal Diario di Don Divo Barsotti
Chiesa problemi del Magistero - 26 Gennaio 1989
La Chiesa da decenni parla di pace e non la può assicurare, non parla più dell'inferno e l'umanità vi affonda senza gorgoglio. Non si parla del peccato, non si denuncia l'errore.
A che cosa si riduce il magistero? Mai la Chiesa ha parlato tanto come in questi ultimi anni, mai la sua parola è stata così priva di efficacia.
« Nel mio nome scacceranno i demoni ... ». Com'è possibile scacciarli se non si crede più alla loro presenza? E i demoni hanno invaso la terra.
La televisione, la droga, l'aborto, la menzogna e soprattutto la negazione di Dio: le tenebre sono discese sopra la terra.
Leggo la vita di Cechov. Era un agnostico, ma il suo amore per gli uomini, la sua semplicità ci conquistano. Mi domando come mai queste biografie che certo non sono di santi, mi prendono tanto.
Non vuole essere un eroe, non è un filosofo, sdegna di affrontare i grandi problemi, è conciliante, crede ingenuamente nel progresso.
Contestazione dei teologi al Papa.
Forse la crisi non sarà superata finché, in vera umiltà, i vescovi non vorranno riconoscere la presunzione che li ha ispirati e guidati in questi ultimi decenni e soprattutto nel Concilio e nel dopo-Concilio.
Essi, certo, rimangono i «doctores fidei» , ma proprio questo è il loro peccato: non hanno voluto definire la verità, non hanno voluto condannare l'errore e hanno preteso di «rinnovare» la
Chiesa quasi che il «loro» Concilio potesse essere il nuovo fondamento di tutto.
Dal volume "Fissi gli occhi nel sole" Ed. Messaggero Padova
tratto da L'Eco dell'Eremo Santuario B.V del Soccorso Minucciano (Lu) n.62 Dicembre 2012
preso da "una Fides"
Al Concilio Vaticano II ci fu tanto orgoglio e poca santità. Don Barsotti dixit.
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«Io sono perplesso nei confronti del Concilio: la pletora dei documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. Sono documenti che rendono testimonianza di una sicurezza tutta umana più che di una fermezza semplice di fede. Ma soprattutto mi indigna il comportamento dei teologi.
Il Concilio e l’esercizio supremo del magistero è giustificato solo da una suprema necessità. La gravità paurosa della situazione presente della Chiesa non potrebbe derivare proprio dalla leggerezza di aver voluto provocare e tentare il Signore? Si è voluto forse costringere Dio a parlare quando non c’era questa suprema necessità? È forse così? Per giustificare un Concilio che ha preteso di rinnovare ogni cosa, bisognava affermare che tutto andava male, cosa che si fa continuamente, se non dall’episcopato, dai teologi.
Nulla mi sembra più grave, contro la santità di Dio, della presunzione dei chierici che credono, con un orgoglio che è soltanto diabolico, di poter manipolare la verità, che pretendono di rinnovare la Chiesa e di salvare il mondo senza rinnovare se stessi. In tutta la storia della Chiesa nulla è paragonabile all’ultimo Concilio, nel quale l’episcopato cattolico ha creduto di poter rinnovare ogni cosa obbedendo soltanto al proprio orgoglio, senza impegno di santità, in una opposizione così aperta alla legge dell’evangelo che ci impone di credere come l’umanità di Cristo è stata strumento dell’onnipotenza dell’amore che salva, nella sua morte.»
DON DIVO BARSOTTI (25 aprile 1914 – 15 febbraio 2006)
La Veritas è congiunta alla Caritas, ma la precede di Don Divo Barsotti
La Veritas è congiunta alla Caritas, ma la precede
di Don Divo Barsotti* (06/02/2006)
Alla mia venerabile età forse non prenderò più in mano la penna, o forse la prenderò, non so. Però, anche se con grande fatica ormai, io vorrei approfittare della bella occasione che mi si offre, e far conoscere in qualche tratto minimo il mio pensiero su un cattolico vero a me caro come fu Romano Amerio.
Mi ha colpito infatti, di questo libro di Enrico Maria Radaelli, “Romano Amerio. Della verità e dell’amore”, come e quanto l’autore sia riuscito a stringere in pochi concetti – anzi forse in un concetto solo – la sostanza della filosofia e dell’atteggiamento di uno scrittore come Amerio che, specialmente con il suo famoso libro “Iota unum”, tanto turbò le coscienze cattoliche.
La lettura del libro di Radaelli, che è la prima monografia che si abbia su Amerio, mi ha attratto fin dal titolo: parlare di Romano Amerio – egli sembra dire – è parlare di un ordine della verità e della carità, dove la prima è congiunta alla seconda, ma la precede.
Amerio dice in sostanza che i più gravi mali presenti oggi nel pensiero occidentale, ivi compreso quello cattolico, sono dovuti principalmente ad un generale disordine mentale per cui viene messa la “caritas” avanti alla “veritas”, senza pensare che questo disordine mette sottosopra anche la giusta concezione che noi dovremmo avere della Santissima Trinità.
La cristianità, prima che nel suo seno si affermasse il pensiero di Cartesio, aveva sempre proceduto santamente facendo precedere la “veritas” alla “caritas”, così come sappiamo che dalla bocca divina del Cristo spira il soffio dello Spirito Santo, e non viceversa.
Nella lettera con cui Amerio presenta al filosofo Augusto Del Noce quello che sarà poi il celebre “Iota unum”, egli spiega chiaramente il fine per cui lo ha scritto, che è “di difendere le essenze contro il mobilismo e il sincretismo propri dello spirito del secolo”. Cioè difendere le tre Persone della Santissima Trinità e le loro processioni, che la teologia insegna avere un ordine inalterabile: “In principio era il Verbo”, e poi, riguardo all’Amore, “Filioque procedit”. Cioè l’Amore procede dal Verbo, e mai il contrario.
Di rimando Del Noce, evidentemente colpito dalla profondità delle tesi di Amerio, annota: “Ripeto, forse sbaglio. Ma a me pare che quella restaurazione cattolica di cui il mondo ha bisogno abbia come problema filosofico ultimo quello dell’ordine delle essenze”.
Io vedo il progresso della Chiesa a partire da qui, dal ritorno della santa Verità alla base di ogni atto.
La pace promessa da Cristo, la libertà, l’amore sono per ogni uomo il fine da raggiungere, ma bisogna giungervi solo dopo avere costruito il fondamento della verità e le colonne della fede.
Dunque – come dice Amerio – partire da Cristo, dalla sovrannaturale verità che Lui solo insegna, per avere da Lui il dono dello Spirito Santo con cui sempre Lui, il Signore, ci dà vita e forza, e salire a porre infine l’architrave della “caritas”.
Romano Amerio era un laico, un laico che ha conosciuto il Signore. Egli ha conosciuto il Credo evangelico e ne è divenuto limpido testimone. Ho sempre avuto l’impressione – pur non avendolo mai conosciuto di persona – di avere visto in lui un vero cristiano, che non ha mai avuto paura di affrontare i temi più impegnativi della Rivelazione.
Quello che meraviglia – ed è la sua vera grandezza – è che pur essendo un laico egli è un vero testimone. Non è un teologo, non è un uomo di religione, ma uno che ha avuto da Dio il carisma di vedere quello che è implicito nell’insegnamento cristiano. Egli lo sente, ed accetta questo suo ruolo. Fa quanto il Signore gli ispira.
Tutta la cristianità ha motivo di ringraziare Dio per Romano Amerio, che in questi tempi difficili ha parlato così chiaramente dei fondamenti della Rivelazione.
Mi ha sempre meravigliato la conoscenza che Amerio ha del carisma che Dio gli ha dato. Per questo carisma, e per il dono che egli umilmente ne fa, Amerio rimane nella Chiesa una figura di primo piano.
di Don Divo Barsotti* (06/02/2006)
Alla mia venerabile età forse non prenderò più in mano la penna, o forse la prenderò, non so. Però, anche se con grande fatica ormai, io vorrei approfittare della bella occasione che mi si offre, e far conoscere in qualche tratto minimo il mio pensiero su un cattolico vero a me caro come fu Romano Amerio.
Mi ha colpito infatti, di questo libro di Enrico Maria Radaelli, “Romano Amerio. Della verità e dell’amore”, come e quanto l’autore sia riuscito a stringere in pochi concetti – anzi forse in un concetto solo – la sostanza della filosofia e dell’atteggiamento di uno scrittore come Amerio che, specialmente con il suo famoso libro “Iota unum”, tanto turbò le coscienze cattoliche.
La lettura del libro di Radaelli, che è la prima monografia che si abbia su Amerio, mi ha attratto fin dal titolo: parlare di Romano Amerio – egli sembra dire – è parlare di un ordine della verità e della carità, dove la prima è congiunta alla seconda, ma la precede.
Amerio dice in sostanza che i più gravi mali presenti oggi nel pensiero occidentale, ivi compreso quello cattolico, sono dovuti principalmente ad un generale disordine mentale per cui viene messa la “caritas” avanti alla “veritas”, senza pensare che questo disordine mette sottosopra anche la giusta concezione che noi dovremmo avere della Santissima Trinità.
La cristianità, prima che nel suo seno si affermasse il pensiero di Cartesio, aveva sempre proceduto santamente facendo precedere la “veritas” alla “caritas”, così come sappiamo che dalla bocca divina del Cristo spira il soffio dello Spirito Santo, e non viceversa.
Nella lettera con cui Amerio presenta al filosofo Augusto Del Noce quello che sarà poi il celebre “Iota unum”, egli spiega chiaramente il fine per cui lo ha scritto, che è “di difendere le essenze contro il mobilismo e il sincretismo propri dello spirito del secolo”. Cioè difendere le tre Persone della Santissima Trinità e le loro processioni, che la teologia insegna avere un ordine inalterabile: “In principio era il Verbo”, e poi, riguardo all’Amore, “Filioque procedit”. Cioè l’Amore procede dal Verbo, e mai il contrario.
Di rimando Del Noce, evidentemente colpito dalla profondità delle tesi di Amerio, annota: “Ripeto, forse sbaglio. Ma a me pare che quella restaurazione cattolica di cui il mondo ha bisogno abbia come problema filosofico ultimo quello dell’ordine delle essenze”.
Io vedo il progresso della Chiesa a partire da qui, dal ritorno della santa Verità alla base di ogni atto.
La pace promessa da Cristo, la libertà, l’amore sono per ogni uomo il fine da raggiungere, ma bisogna giungervi solo dopo avere costruito il fondamento della verità e le colonne della fede.
Dunque – come dice Amerio – partire da Cristo, dalla sovrannaturale verità che Lui solo insegna, per avere da Lui il dono dello Spirito Santo con cui sempre Lui, il Signore, ci dà vita e forza, e salire a porre infine l’architrave della “caritas”.
Romano Amerio era un laico, un laico che ha conosciuto il Signore. Egli ha conosciuto il Credo evangelico e ne è divenuto limpido testimone. Ho sempre avuto l’impressione – pur non avendolo mai conosciuto di persona – di avere visto in lui un vero cristiano, che non ha mai avuto paura di affrontare i temi più impegnativi della Rivelazione.
Quello che meraviglia – ed è la sua vera grandezza – è che pur essendo un laico egli è un vero testimone. Non è un teologo, non è un uomo di religione, ma uno che ha avuto da Dio il carisma di vedere quello che è implicito nell’insegnamento cristiano. Egli lo sente, ed accetta questo suo ruolo. Fa quanto il Signore gli ispira.
Tutta la cristianità ha motivo di ringraziare Dio per Romano Amerio, che in questi tempi difficili ha parlato così chiaramente dei fondamenti della Rivelazione.
Mi ha sempre meravigliato la conoscenza che Amerio ha del carisma che Dio gli ha dato. Per questo carisma, e per il dono che egli umilmente ne fa, Amerio rimane nella Chiesa una figura di primo piano.
*(Palaia, 25 aprile 1914 – Settignano, 15 febbraio 2006): sacerdote e monaco italiano, fondatore della Comunità dei Figli di Dio. Feconda la sua attività di scrittore, predicatore di ritiri spirituali.
Fonte: www.chiesa
DON DIVO BARSOTTI ESEGETA DI LEOPARDI E DI DOSTOEVSKJ
Al centro del mondo dostoevskiano dunque c’è «l’uomo, e nell’uomo si fa presente il mistero stesso di Dio. La vita dell’uomo è lo scontro del male e del bene; il problema del male e la concezione del bene dominano tutti i romanzi, e il bene e il male suppongono la libertà, postulano Dio» (p. 143). In Dio c’è la vita e la pace, senza Dio c’è la disgregazione e la rovina
DON DIVO BARSOTTI
Esegeta di Leopardi e di Dostoevskij
FERDINANDO CASTELLI S.I.
Il 15 febbraio dello scorso anno è morto don Divo Barsotti nella «Casa S. Sergio» di Settignano (Firenze), dove ha sede la Comunità dei Figli di Dio da lui fondata (1). Nato a Palaia (Pisa) nel 1914, dopo l’ordinazione sacerdotale (1937) ha svolto la sua attività pastorale a Firenze, accanto a personalità quali il card. Elia Della Costa, Giorgio La Pira, p. Ernesto Balducci, mons. Enrico Bartoletti. Teologo, studioso di spiritualità e di mistica, attento ai problemi intellettuali e pastorali del momento, ha scritto volumi originali, densi di afflato spirituale e di cordiale approfondimento del mistero cristiano (2). Non si dimentichi la sua amicizia e frequentazione con H. U. von Balthasar, J. Daniélou, H. de Lubac, Th. Merton.
Don Barsotti è stato anche un assiduo e appassionato cultore di letteratura e di poesia. Vogliamo ora ricordarlo come esegeta di Leopardi e di Dostoevskij, ai quali ha dedicato uno studio originale e intenso: La religione di Giacomo Leopardi e Dostoevskij. La passione per Cristo (3). Due motivi ci hanno indotto a questa scelta. Il primo è una sua affermazione: «Penso che la teologia dovrebbe dare più spazio alle lettere, perché è nelle lettere, cioè nella narrativa e nella poesia, che meglio si esprime l’esperienza religiosa. È lì che si manifesta più vivamente la lotta dell’uomo con Dio, e non importa se a volte si esprime negativamente. Il teologo è spesso alle prese con i concetti, e c’è quindi il pericolo di un certo formalismo che non dice più niente a nessuno» (4). Il secondo motivo è la nostra persuasione che, presentando Leopardi e Dostoevskij, don Divo presenti se stesso in alcuni momenti della sua vita e in alcuni aspetti della sua personalità di uomo e di credente.
Desideri immensi in un vuoto di speranza
È lecito parlare di religione — cioè di rapporto con Dio — nell’opera di Giacomo Leopardi? Non è, egli, l’assertore del nulla? dell’«infinita vanità del tutto»? Non ha sottoscritto, nella lettera a Luigi De Sinner, del 27 maggio 1832, l’affermazione che «è assurdo attribuire ai suoi scritti una tendenza religiosa»? Sfidando le apparenze e certi luoghi comuni, Divo Barsotti ha scritto il citato volume La religione di Giacomo Leopardi: una paziente e diligente carrellata sull’opera di Leopardi, vergata all’insegna della simpatia e della comprensione.
In essa si leggono queste affermazioni: «Negare la religione del Leopardi è negare la sua poesia. La sua poesia è religione più della poesia di Manzoni, più della poesia stessa di Dante. In lui la dimensione religiosa è più pura; l’impegno religioso, assoluto» (p. 18); «Tutto il suo cammino è ricerca del vero Dio» (ivi); «Manzoni, certo, è più cristiano; ma Leopardi è più religioso. La sua poesia è essenzialmente religiosa» .LEGGERE...