NELL’ATTO DELLA MORTE DI CROCE
La conoscenza dell’assoluta trascendenza di Dio impone l’accettazione amorosa di una nostra
assoluta dipendenza da Lui e la volontà di ordinarsi totalmente alla sua gloria. Non possiamo
vivere per noi, ma per Lui. In che modo l’anima vive in ogni suo atto il riconoscimento
pratico del suo nulla, nella sua dipendenza assoluta, nel suo ordinarsi totale a Dio?
L’obbedienza, certo, è una virtù specificamente diversa dall’umiltà, tuttavia non vi è vera
umiltà là dove non vi è vera obbedienza. Vi può essere un’obbedienza che non sia umiltà,
quando manchi l’interiore riconoscimento di una nostra dipendenza dal Creatore, ma non vi è
mai un’umiltà che non sia obbedienza. L’umiltà praticamente s’incarna nell’obbedienza.
Così
nella sua natura umana, Gesù medesimo “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla
morte e alla morte di croce” (Fil 2,8).
Le parole dell’Apostolo nella Lettera ai Filippesi sono categoriche e ci insegnano
precisamente come l’obbedienza sia frutto di umiltà.
Il Verbo divino assumendo la natura
umana riconosce ed accetta, come uomo, la Sua dipendenza dal Padre in un’obbedienza
totale, in un’obbedienza fino alla morte e alla morte di croce.
Il Cristo nella sua obbedienza non è tuttavia solo la causa esemplare della nostra santità, ne è
la causa efficiente. È per la sua obbedienza che siamo salvati. Più ancora: è nella sua stessa
obbedienza.
Nell’atto della sua obbedienza totale al volere del Padre, la natura umana di Gesù
non vive solo per sé la sua piena, perfetta dipendenza da Dio, ma in quell’atto nel quale Egli
assumeva tutta la responsabilità del peccato umano, fu la natura dell’uomo come tale che si
offrì nuovamente a Dio e si abbandonò alla sua volontà adorabile.
Per questo in quel
medesimo atto la natura umana era redenta, ordinandosi a Dio totalmente.
Così in quella obbedienza che fu la morte del Cristo l’uomo ora vive la vita stessa di Dio.
L’obbedienza dell’uomo non è più che partecipazione all’atto stesso di Gesù, partecipazione
alla sua morte di croce.
Se la purificazione dell’anima nel tendere a Dio praticamente si identifica con un processo di
umiltà, questo processo di umiltà impone l’esercizio dell’obbedienza.
La creatura fa posto a
Dio in sé soprattutto rinunciando liberamente alla propria volontà. In questa obbedienza non
soltanto l’uomo mette a servizio di Dio le sue potenze esteriori, ma tutto il suo essere in
quello che ha di più intimo e proprio.
L’uomo può rifiutare non la sua dipendenza reale da Dio, ma la sua accettazione libera e
piena.
Non possiamo di fatto sottrarci a Colui che ci ha creati: volenti o nolenti dipendiamo in
un modo assoluto da Lui, anche nell’agire e non solo nell’essere; ma dobbiamo vivere
liberamente questa nostra dipendenza da Dio nell’obbedienza, consentendo all’azione di Dio
e rimettendoci totalmente a Lui, lasciandoci guidare da Lui in ogni nostra azione, rinunziando
a ogni nostra iniziativa, a ogni nostra libertà perché in noi puramente si realizzi la volontà di
Dio.
L’uso migliore che possiamo fare della nostra libertà è il dono reale e pieno che ne facciamo
al Signore. Le virtù che fanno più spedito il cammino che ci deve condurre a Dio sono la
povertà, la castità, l’obbedienza.
Ma l’obbedienza è insieme incarnazione di umiltà e di
amore. Di umiltà, perché è rinunzia di sé; di amore, perché l’uomo rinunzia a se stesso
nell’atto in cui si lascia possedere da Dio. La vera umiltà non può essere riconoscimento
amaro e forzato della sovranità divina, ma ne è l’accettazione gioiosa.
Tu vivi l’umiltà
riconoscendo ed accettando la tua dipendenza dal Signore, e vivendo perciò in ogni istante la
negazione di ogni tua volontà perché in te viva Dio e la vita di Dio sostituisca in te ogni altra
vita.