È LA FRAGILITÀ IL LUOGO DELL'INCONTRO CON DIO
21/05/2020 La pandemia ci ha fatto toccare con mano i nostri limiti. Ma secondo il prete ideatore del cammino dei Dieci comandamenti, autore del libro "L'arte di guarire" (Edizioni San Paolo), le prove e le malattie possono essere l’occasione per ripartire da ciò che conta davvero (Foto Stefano Dal Pozzolo / Contrasto)
ALFABETO PER IL FUTURO - Parole per il domani - 1° puntata FRAGILITÀ
«L’idea di una vita tutta perfetta, senza debolezze e fragilità, è un idolo. È il rifiuto dei nostri limiti di creature». Don Fabio Rosini, prete romano molto noto, lo scrive in L’arte di guarire, il suo ultimo libro, da poco uscito da San Paolo. Un libro steso prima che scoppiasse l’emergenza Coronavirus, nelle pagine del quale si intuisce chiaramente l’esperienza personale della malattia grave vissuta dall’autore. Don Fabio è un uomo della Parola. Non usa Whatsapp, non ha un profilo Facebook, non frequenta Twitter. Eppure sa comunicare come pochi. Ha conseguito la Licenza in Sacre Scritture presso il Pontificio istituto biblico e non ha più smesso di annunciare la Buona notizia con un entusiasmo e una profondità che l’hanno reso molto popolare. Ha iniziato nel 1993 un percorso per giovani sui Dieci comandamenti e, poi, sui Sette Segni del Vangelo di Giovanni: itinerari che poi ha condiviso con tanti altri sacerdoti e laici, sia in Italia che all’estero. Per dare una misura della sua popolarità: un video, realizzato nel dicembre 2018 dalla Pastorale giovanile di Perugia, che commenta con immagini di film un’omelia di don Fabio sul tema della santità, ha totalizzato oltre 157 mila visualizzazioni. La pandemia da Covid-19 ci ha fatto toccare con mano i nostri limiti ed è a partire da questa considerazione che muove l’incontro con don Fabio. Ma lui non si iscrive affatto alla categoria degli “apocalittici”, secondo i quali il Coronavirus sarebbe una sorta di castigo di Dio. La sua lettura è un’altra: «Quando decidi di compiere un cammino, presto capisci che devi buttare il superfluo», attacca. «Le tragedie, come la pandemia che stiamo vivendo, se ben metabolizzate rappresentano un momento di crescita per l’umanità. Avevamo bisogno di una scossa del genere? Lo sa solo Dio. Ma so che è una grande occasione per svuotare lo zaino». Che tutto questo stia accadendo, però, è da vedere… «Mi dà terrore», commenta don Fabio, «osservare che molti, anche in ambito ecclesiale, stanno tornando a fare quanto si faceva prima. Credo, invece, che tutto debba essere messo in discussione. Nel mio piccolo lo sto facendo». “Fragilità” è un termine che piace poco a una cultura salutista ed efficientista come la nostra. Con la pandemia da Coronavirus è accaduto l’imprevedibile e tutti i nostri equilibri sono saltati… «Ed è venuto il momento», prosegue don Rosini, «di chiederci, oggi più che mai, cosa conta davvero nella vita. È quel che ci ha invitato a fare il 27 marzo scorso papa Francesco, in quel memorabile discorso pronunciato in una piazza San Pietro deserta. Questo significa prendere coscienza della nostra vera realtà. Noi odiamo le fragilità e ci innamoriamo delle soluzioni: dovremmo invece sospettare molto delle nostre soluzioni e avere tanta simpatia per le fragilità: è la chiave dell’equilibrio interiore».
NON PROGETTI MA METE
Dal punto di vista ecclesiale, osservo che il periodo della quarantena ci ha costretto a sperimentare una sensazione di fragilità: l’impossibilità di poggiarci su iniziative e strutture ci ha spiazzati. Don Rosini prende la palla al balzo per fare quel che chiama «un discorso duro». «Da sempre insisto nel dire che i cristiani non hanno progetti, ma mete. Il che è molto diverso. Un principio della fisica è che la realtà sorge dalla rottura della simmetria. In altri termini: i progetti esistono per violarli. E se non lo facciamo noi, ci pensa la Provvidenza. Ora: a forza di voler programmare, dobbiamo constatare che, come Chiesa, siamo diventati irrilevanti». Parole pesanti, soprattutto perché pronunciate da uno che la Chiesa l’ama davvero. Don Fabio lo sa, ma non arretra di un millimetro: «Cosa ha fatto Dio in questo tempo? Ci ha fatto saltare i programmi! Ma allora», esclama con forza, «buttiamoli via definitivamente! Siamo diventati irrilevanti perché abbiamo il messaggio più bello del mondo da dare, ma il “come” lo facciamo è viziato da un efficientismo che ricorda quello degli yuppie anni Ottanta. Papa Francesco non va certo in questa direzione». Mi viene in mente Madeleine Delbrêl, la “mistica col grembiule”, secondo la quale il cristiano farebbe meglio a rinunciare a teorie e schemi per essere più attento a cosa chiede lo Spirito oggi, nelle concrete circostanze della vita. Don Fabio concorda: «Dobbiamo ripartire dall’arte di incarnarsi. Gesù è nato nel posto sbagliato e nel momento sbagliato. Ma quello che faceva era tutto giusto».
MALATTIA E SALVEZZA
Sposto la conversazione sul personale, per chiedere a don Rosini, che negli ultimi anni ha vissuto sulla sua pelle la malattia grave, come ha letto quell’esperienza alla luce della fede. «Da sempre la croce è il luogo dell’opera di Dio più incisiva sulla vita di qualunque cristiano. Per me la malattia è stata davvero una strada di salvezza perché, azzerando tutto, mi ha permesso di ricostruire dalla radice. Le persone che ho intorno mi dicono che sono stato “migliorato” dal tumore. Non c’è nulla da fare: la fragilità è il luogo vero e proprio dell’incontro con Dio». Eppure don Fabio è noto per essere un prete molto attivo… «Ho viaggiato tanto nella vita, Europa, Asia, Africa», replica, «ma i viaggi più importanti li ho fatti steso su un letto di ospedale». Perché? «C’è sempre un braccio di ferro durante la malattia. Tutti noi la rifiutiamo all’inizio. Ma quando uno “molla” e si abbandona a Dio, allora accadono sorprese». Già. In L’arte di guarire, leggiamo: «Ho visto dei malati terminali brillare come fari nel buio». E l’esempio citato è quello di Chiara Corbella, la giovane mamma che aveva rinunciato a cure troppo aggressive contro un tumore per portare a termine la gravidanza e per la quale la diocesi di Roma ha aperto la causa di canonizzazione. Don Fabio la conosceva bene e non si fa pregare: «Ricordo che, nell’ultima Pentecoste (era il 2012) Chiara, ormai alla fine, aveva partecipato alla liturgia: in quel momento era lei, senz’ombra di dubbio, la persona più luminosa e felice in quella chiesa, anche se sarebbe morta pochi giorni dopo. Ecco: la malattia rende semplici, l’essenzialità diventa disarmante e, nello stesso tempo, il dolore si fa offerta. Ma finché uno non molla, non accade niente».
CIÒ CHE CONTA È L'AMORE
Un’altra delle tante frasi che colpiscono chi legga il libro recita: «Ho il cancro come una spada di Damocle sulla mia vita biologica, ma se voglio guarire è il mio amore che deve guarire». Chiedo all’autore il significato di un’affermazione che ha del paradossale. «Misurarsi con la malattia e la morte», replica don Fabio, «ci porta inesorabilmente a chiederci: “Abbiamo amato qualcuno?”. Davanti a un familiare o un amico morto ci interroghiamo: “Gli ho fatto sapere quanto gli volevo bene?”. Se la malattia mi permette di crescere nell’amore, possiamo dire che “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”. Quando l’amore autentico diventa l’unica cosa che vale nella vita, allora uno capisce perché è più importante che l’amore guarisca piuttosto che il cancro». Un’autentica rivoluzione copernicana. «Sì», sottolinea il sacerdote, «perché il grande surrogato dell’amore è il possesso. Quand’ero ateo, diciottenne arrabbiato, fui molto aiutato a capire tutto ciò dalla lettura di Avere o essere di Erich Fromm». Non tutti sanno che, prima d’essere prete, anche don Fabio ha fatto un cammino personale molto particolare. Un cammino, com’è stato per André Frossard, iniziato in un giorno ben preciso, il 21 marzo 1982, che segna un prima e un dopo. «Mi sono riavvicinato alla Chiesa grazie al contatto con un movimento col quale, peraltro, da molto tempo non ho più rapporti. A segnarmi fu la voce di un uomo che leggeva un passo del Vangelo, all’interno di un ritiro spirituale di quel gruppo, una delle esperienze ecclesiali “effervescenti” che avevano molto impatto negli anni Ottanta». A vent’anni – leggiamo in L’arte di guarire – «ero un ragazzo sano, intelligente e ben accompagnato. Ma ero un infelice». «Mi mancava il senso di tutto», commenta lapidario don Fabio. E poi aggiunge sorridendo: «Ero un musicista, ma sentivo che mancava l’arte nella mia vita. La vera bellezza l’ho riconosciuta solo dopo. Ed è quello che io annuncio oggi quando dico a ogni giovane con cui mi incontro: sappi che agli occhi di Dio sei importante!». Don Fabio lo fa, non di rado, con espressioni che stupiscono. Prendete questa: «È come se tu fossi una ragazza che si disprezza e scopri che Scarlett Johansson si sta facendo la plastica per somigliarti… ma allora tanto brutta non devi essere». A chi pensasse che si tratti di un fervorino da prete, per accattivarsi i giovani don Rosini ribatte con convinzione: «San Basilio diceva: “L’uomo è una cosa grande”. Perché il 21 marzo 1982 mi sono aperto alla fede cristiana? Perché finalmente avevo capito che la grandezza e bellezza dell’uomo non contraddicevano la mia fragilità, anzi: la illuminavano. Tutte le persone sono opere d’arte grezze da “tirar fuori”, ed è Dio che lo fa. Nel mio caso, una vita che mi pareva totalmente sbagliata è diventata il marmo su cui Dio ha potuto lavorare».
UMILTÀ E AUTOIRONIA
Concludiamo la chiacchierata citando il mantra che oggi molti ripetono: «Niente sarà più come prima». Chiedo a don Fabio come potremo fare tesoro della lezione della pandemia e se tornerà di moda una parola antica, “umiltà”, cara al lessico cristiano ma da tanti considerata anacronistica. Al solito, la risposta è divertente e profonda al tempo stesso: «Umiltà ci rimanda, oltre che a humus (terra, ndr), anche a umorismo, ossia all’arte dell’autoironia, del non arrabbiarsi per i propri limiti. Bisogna smentire Caterina Caselli che cantava “La verità ti fa male, lo so…”. No! La verità ci fa molto bene e l’autoironia è una delle strade maestre della salvezza». E spiega: «Quando non mi prendo più sul serio, attuo la “de-assolutizzazione”, un processo non meno necessario di quello opposto, ossia la “de-banalizzazione”. Occorre, in altre parole, tenere insieme la coscienza che, come uomini, siamo grandi e fragili allo stesso tempo». Già. «L’uomo è immagine di Dio, ma mangia come gli animali; è fatto di terra, ma ha il soffio di Dio dentro o di sé».