Ringrazio Cristina Siccardi per averci messo a disposizione questo suo interessante lavoro nel quale illustra, a partire dalla riforma liturgica, le ferite inferte alla fede cattolica dall'umanesimo laico frutto delle moderne filosofie.
Conferenza presso il Circolo Newman
Seregno - 10 febbraio 2012
Seregno - 10 febbraio 2012
Quando la prima domenica di Avvento del 1969 venne introdotta la Messa del Novus Ordo, ovvero la Messa di Paolo VI (1897-1978), furono in molti a rimanere sconcertati, altri, invece, ne furono entusiasti. C’era chi si addolorava per la perdita di un rito millenario: il Messale che risaliva al XVI secolo.
In seguito alla richiesta del Concilio di Trento (1545-1563), san Pio V (1504-1572) s’impegnò per la revisione del Messale che approvò il 14 luglio 1570, con la bolla Quo primum tempore; il Pontefice lo promulgò e lo sostituì a quelli che non potevano vantare un’antichità di almeno 200 anni, che assicurava la loro immunità dalle influenze protestanti ed eretiche, ordinando «a tutti e singoli i Patriarchi e Amministratori [...] , e a tutti gli ecclesiastici, [...] facendone loro severo obbligo in virtù di santa obbedienza, che, in avvenire abbandonino del tutto e completamente rigettino tutti gli altri ordinamenti e riti, senza alcuna eccezione, contenuti negli altri Messali, per quanto antichi essi siano e finora soliti ad essere usati, e cantino e leggano la Messa secondo il rito, la forma e la norma, che Noi abbiamo prescritto nel presente Messale; e, pertanto, non abbiano l'audacia di aggiungere altre cerimonie o recitare altre preghiere che quelle contenute in questo Messale».
Ebbene, quella domenica del 1969 c’era chi si rallegrava di quella rivoluzione liturgica che era in pratica il sigillo del nuovo pensiero che era maturato in seno alla Chiesa e aveva caratterizzato il Concilio Vaticano II: la Chiesa si era “aperta” al mondo, vi andava incontro con entusiasmo e non condannava più l’errore, ma era comprensiva e duttile.
Benedetto XVI, all’epoca, si collocò fra gli sconcertati: «Il […] grande evento all’inizio dei miei anni di Ratisbona fu la pubblicazione del messale di Paolo VI, con il divieto quasi completo del messale precedente, dopo una fase di transizione di circa sei mesi. Il fatto che, dopo un periodo di sperimentazioni che spesso avevano profondamente sfigurato la liturgia, si tornasse ad avere un testo liturgico vincolante, era da salutare come qualcosa di sicuramente positivo. Ma rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l’impressione che questo fosse del tutto normale. Il messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito al Concilio di Trento; era quindi normale che, dopo quattrocento anni e un nuovo Concilio, un nuovo Papa pubblicasse un nuovo messale. Ma la verità storica è un’altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli. Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui, però, la continuità non veniva mai distrutta. Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. C’è solo la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica. Il nuovo, dopo il Concilio di Trento, fu di altra natura: l’irruzione della riforma protestante aveva avuto luogo soprattutto nella modalità di “riforme” liturgiche.
Non c’erano semplicemente una Chiesa cattolica e una Chiesa protestante poste l’una accanto all’altra; la divisione della Chiesa ebbe luogo quasi impercettibilmente e trovò la sua manifestazione più visibile e storicamente più incisiva nel cambiamento della liturgia, che, a sua volta, risultò parecchio diversificata sul piano locale, tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano ben difficili da definire. […]. Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentari dell’antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. […] si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro sia pure con il materiale di cui si era fatto l’edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti […] il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest’ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l’impressione che la liturgia sia “fatta”, che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di “donato”, ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un’autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna “comunità” voglia darsi una propria liturgia» 1).
Aver distrutto un rito così ricco di sacralità e di bellezza non è andato a detrimento soltanto della rappresentazione visiva ed uditiva, ma ha prodotto una ben più tragica conseguenza: ha minato la Fede, l’ha colpita in maniera durissima. La scusante maggiore di una tale rivoluzione, sviluppata dalla Commissione liturgica (già operante sotto il Pontificato di Pio XII) e capeggiata da Monsignor Annibale Bugnini (1912-1982), era quella che i fedeli avrebbero avuto una più facile comprensione e per due ragioni: la lingua (il latino, dicevano, allontanava invece di avvicinare) e la «partecipazione attiva», attraverso un dialogo diretto che il sacerdote, rivolto non più verso Dio, ma verso il popolo, avrebbe instaurato con i fedeli.
Scrisse anni fa Joseph Ratzinger, oggi Benedetto XVI: «Una cosa dovrebbe essere chiara. La liturgia non deve essere il terreno di sperimentazioni per ipotesi teologiche. In questi ultimi decenni congetture di esperti sono entrate troppo rapidamente nella pratica liturgica, spesso anche passando allato dell'autorità ecclesiastica, tramite il canale di commissioni che seppero divulgare a livello internazionale il loro consenso del momento e nella pratica seppero trasformarlo in legge liturgica. La liturgia trae la sua grandezza da ciò che essa è e non da ciò che noi ne facciamo.
La nostra partecipazione è certamente necessaria, ma come un mezzo per inserirci umilmente nello spirito della liturgia e per servire Colui che è il vero soggetto della liturgia: Gesù Cristo.La liturgia non è l'espressione della coscienza di una comunità, che del resto è varia e mutevole.
Essa è la Rivelazione accolta nella fede e nella preghiera...» 2).
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La nostra partecipazione è certamente necessaria, ma come un mezzo per inserirci umilmente nello spirito della liturgia e per servire Colui che è il vero soggetto della liturgia: Gesù Cristo.La liturgia non è l'espressione della coscienza di una comunità, che del resto è varia e mutevole.
Essa è la Rivelazione accolta nella fede e nella preghiera...» 2).
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