BEATA MARIA CANDIDA DELL'EUCARISTIA
1884 - 1949
Memoria facoltativa, 14 giugno
L'educazione cristiana in famiglia
La sua era una buona famiglia dell'agiata borghesia palermitana di fine '800. Il papà, Pietro Barba era Consigliere di Cassazione e Primo Presidente della Corte d'Appello di Palermo, cristiano senza paure. La mamma, Giovanna Florena, apparteneva a una nobile famiglia messinese, e la povera gente le aveva dato il titolo di "Donna della carità", tanto sapeva dedicarsi agli altri e prendersi cura dei più poveri.La piccola Maria, nata nel 1884, s'era subito dimostrata particolarmente sensibile ai richiami religiosi che la mamma sapeva attentamente coltivare: «Il Signore: ecco il Tutto che la mamma infuse fin dall'infanzia nel mio cuore». «Fin da bambina ebbi il gusto della preghiera», racconterà lei stessa più tardi, ricordando con tenerezza il giorno in cui una cameriera particolarmente devota l'aveva convinta a «ripetere mille volte il nome dolcissimo di Gesù». La ragazzina si riempiva la giornata di innumerevoli preghierine e devozioni: era quello il modo con cui Dio la preparava – senza che lei lo sapesse – alla vocazione carmelitana che chiede di far diventare preghiera tutta la vita e di far diventare vita ogni preghiera. E c'erano già i germi di quella vocazione personalissima – che ella doveva scoprire e maturare più tardi – tesa a mettere l'Eucaristia al centro di tutto: al centro del cuore, al centro della giornata e al centro delle proprie aspirazioni ideali.
«Ricordo che quando ero piccina – avrò avuto tre o quattro anni – la mamma, venendo dall'aver fatto la Comunione, baciava me e le mie sorelline, dicendo che con quel bacio ci dava il Signore. Perciò io, vedendola rincasare, per prima le correvo incontro e abbracciandola chiedevo: a me, a me il Signore! Mamma mi baciava, alitando sulle mie labbra, e io me ne andavo felice, con le mani incrociate sul petto, con piena fede di possederlo [e dicendomi:] io pure, io pure ho il Signore!».Quando giunse il momento della Prima Comunione, a dieci anni, la bambina volle che tutto, proprio tutto, il suo abbigliamento fosse nuovo e immacolato per esprimere il candore dell'anima. E Dio la ripagò a modo suo: «Ricevuto Gesù e ritornata al mio posto, fui preda per alcuni istanti di una stretta amorosa. Era la prima volta che ciò mi accadeva, una cosa nuova per me. Rimasi sorpresa nel gustare quella goccia di celeste consolazione, caduta sull'anima mia... Io non dissi niente a Gesù: mi sentivo felice... Gli diedi solo due lacrime di intensa felicità e di amore... Ma Lui che avrà fatto, che avrà detto al mio piccolo cuore? Io lo so».
Vivacità e vanità
Poi la vita riprese a scorrere, sbocciando in un'adolescenza fresca, e tuttavia piuttosto agitata. Maria frequentava una delle scuole più prestigiose di Palermo, il "Collegio Giusino", vicino alla Cattedrale: l'educazione era buona, ma non bastava a contenere la vivacità e la vanità della bambina, già molto determinata. «Sapevo fare assai bene la mia volontà, risolutamente», racconterà lei stessa. Era buona se decideva di esserlo; mentiva se le conveniva; prediligeva e invidiava le compagne più ricche e sofisticate, trattando le altre con qualche alterigia; sapeva essere ironica e pungente; leggeva, di nascosto e con gusto, giornali, romanzi e testi teatrali inadatti alla sua età; indulgeva a discorsi e curiosità non proprio edificanti; era facile ai capricci. Era soprattutto infatuata di se stessa: non si sentiva mai abbastanza elegante, era sensibile ai complimenti, ed esibiva pettinature elaborate, soddisfatta solo quando le cameriere «la acconciavano come una bambola». E certo non dimenticava d'avere partecipato, a sei anni, a un concorso di bellezza per bambini (organizzato a Palermo già nel 1890!), dal quale era tornata ricca di premi e di regali.
Maria aveva allora tra i dodici e i quattordici anni: tutto avveniva, senza una vera coscienza di peccato, sotto gli occhi attenti dei familiari e delle Suore maestre, che non avrebbero mai permesso trasgressioni esplicite, ma ce n'era abbastanza perché si depositasse nell'anima un disagio che, più tardi, si sarebbe tramutato in inconsolabile dolore per avere offeso Dio.
Poté frequentare solo le elementari e le tre classi preparatorie alle magistrali; poi la tolsero dalla scuola perché giungevano già – secondo l'uso del tempo – le prime proposte di matrimonio e la mamma la voleva a casa per preservarla da ogni rischio. L'affidarono a una brava insegnante privata solo per lo studio del pianoforte.
Un deciso ri-orientamento si produsse in lei alla morte della nonna amatissima (nell'estate del 1898) quando si sentì urgere dentro il grido di quelle domande radicali senza le quali è impossibile maturare davvero. «Domandavo a chi veniva a farci visita: "Che ne fai delle tue giornate?". E ad altri chiedevo: "Che pensate di fare vivendo?". Ogni cosa mi sembrava vuota e inconcludente e mi ripetevo: "A che scopo realizzare questa o quella cosa?". E per molto tempo rimasi senza desideri e attrattive».
"Come? Il mio Dio si degna di abbassarsi fino a me?!"
Per fortuna la preghiera non era stata dimenticata. In casa c'era un angolino dove brillava un'immagine del Sacro Cuore costantemente illuminata. E fu là che accadde l'incontro: «Una sera giravo oziosa per le stanze in attesa di andare a cena... Mi prese il desiderio di fermarmi un po' a meditare davanti a quella immagine... Il mio spirito era attratto da Gesù. Prima più lievemente, poi più fortemente mi sentii sollevare in Dio, mentre il cielo si apriva sulla mia anima... Iddio, infinito nella sua misericordia, scendeva verso di me, tanto cattiva. Sì, scendeva tutto fino a me, per attirarmi a Sé. Era cosa da farsi all'anima mia? Ma ben riuscì Gesù nel suo intento, perché proprio questo voleva farmi rilevare il mio Dio: la mia indegnità, la mia cattiveria, la mia miseria e infedeltà. E per lasciarmelo comprendere bene e farlo risaltare, non doveva far altro che contrapporvi qualche tratto della sua infinità bontà... Mi dicevo: "Come? Il mio Dio si degna di abbassarsi fino a me?!"». Da quella sera l'improvvisata meditazione cominciò a diventare un appuntamento quotidiano: «Mi sentivo felice! Come è dolce servire il Signore!», mi dicevo: «Ero del mio Dio, volevo Dio, mi piaceva Dio». Era un primo innamoramento, ma Gesù aveva solo cominciato a corteggiarla. Ed egli, di solito, lo fa disseminando la vita della sua creatura con incontri significativi e con segni evocativi.
Per Maria ciò accadde alcuni giorni dopo, quando fu invitata a una particolare funzione religiosa: la vestizione di una giovane parente che aveva scelto di farsi monaca visitandina. La cerimonia la commosse, ma tornò a casa con una persuasione: «Non è per me!». La sola idea della clausura la terrorizzava: «Mi sembrava cosa impossibile, terribile, restare per sempre chiusa là, scegliere quella volontaria prigionia». La sera, a tavola, i fratelli di Maria – un po' segnati dall'anticlericalismo che andava di moda – scherzarono con lei esortandola, ironicamente, a fare la stessa scelta. «Per me sarebbe impossibile!», rispondeva la fanciulla, senza sospettare che convincere i fratelli a lasciarla andare in monastero sarebbe diventato in seguito il suo più grande e lungo tormento, che sarebbe durato anni. Nel cuore della nostra Maria, quell'aspro rifiuto della clausura durò soltanto una notte, perché nella mattinata successiva ricevette una grazia mistica che l'avrebbe segnata per tutta la vita.
Chiamata alla vita consacrata
«Il giorno dopo dormivo ancora placidamente ed erano le nove. Chissà quanto avevi vegliato amorosamente accanto a me, Gesù: chissà con quale abisso d'amore e di misericordia ti eri preparato, contando le ore, a concedermi questa grazia e a prendermi per te! Gesù aspettò che le mie sorelle uscissero dalla camera, poi, quando fui sola, si piegò sul mio cuore. Mi destai stupita, sbalordita per quel che sentivo: che aveva fatto Gesù al mio cuore? Ripensando a quegli istanti provo dei brividi di gioia, di meraviglia. La vedo come un'immensa pazzia d'amore quella grazia di Gesù. Con le sue mani divine fece come se volesse rubare il mio misero cuore e, a quel tocco, lo coprì di felicità... Vi innestò, vi lasciò passare il suo amore e, nel suo amore, lo suggellò. Mi alzai fuori di me e comprimendo fortemente il petto, quasi ad alleggerire quella smania d'amore, pregai con grande slancio: "Signore, ti amo! Signore, ti amo! Signore, ti amo!". Mi quietai e restai sua». Era il 3 luglio 1899. Maria aveva solo quindici anni. «Sono trascorsi più di ventisette anni – scriverà ella in seguito – e io sento ancora il tocco della tua mano che mi rapì il cuore!».
Che cosa era dunque accaduto? Le era stata concessa quella grazia di "esperimentare" anche nella carne le verità della fede, della speranza e della carità; di "sentire davvero" le parole d'amore che si recitano nella preghiera e quelle che la stessa Parola di Dio ci mette sulle labbra. Le accadde un incontro d'amore più vero dell'incontro di due fidanzati che vorrebbero scambiarsi il cuore. In particolare le accadde di esperimentare che la clausura non ha tanto lo scopo di separare dal mondo, ma serve a tenersi legate a Gesù solo, e a Lui solo abbracciate.
«Per me sarebbe impossibile!», aveva esclamato Maria la sera precedente, pensando alla clausura monastica. La sera successiva, poteva ormai dire a se stessa: «Non potrò più essere felice, se non quando mi troverò là per sempre». Per realizzare quel sogno, avrebbe dovuto aspettare e lottare per più di vent'anni – troppi, se si fosse trattato solo di un'infatuazione sentimentale! Ma esso non sarebbe mai venuto meno, si sarebbe anzi intensificato giorno per giorno, pur nella normale e laica esistenza, possibile a una ricca ragazza siciliana agli inizi del '900.
Educazione e controllo di sè
I suoi primi impeti spirituali furono motivati dal bisogno che Maria sentiva di riparare le offese al suo Signore e di preservarsi dai pericoli della brillante vita di società che si conduceva in famiglia. Escogitava penitenze esagerate; teneva a freno la sua fiorente bellezza, anche con metodi esasperati; si sfibrava nell'analizzare la sua coscienza e nel controllare azioni, pensieri e desideri; si dedicava a lunghe preghiere e coltivava molte austerità. E così continuerà così per molti anni, giungendo fin quasi a rovinarsi la salute.
Alla ragazza non era allora consentita una vita sociale e spirituale indipendente, né la partecipazione attiva a qualche comunità ecclesiale. Così ella doveva formarsi da sola, secondo i libri spirituali che le riusciva di leggere, spesso segnati da un duro ascetismo. Non tutto era saggio, ma lo sforzo ascetico le giovò per imparare a dominare gli aspetti più negativi della sua natura che tendeva all'imperio, alla vanità e al possesso geloso di cose e persone. E le servì soprattutto ad imparare che ogni vero amore dev'essere seriamente custodito, alimentato, coltivato; imparerà anche a viverlo con più semplicità assecondando serenamente la volontà di Dio che si manifesta nelle circostanze ordinarie della vita.
Per tre anni questa volontà di Dio si manifestò nella lunga malattia che colpì il papà, condizionando e sconvolgendo l'intera vita familiare: non più feste e ricevimenti brillanti, ma i lamenti dell'infermo che richiedeva assistenza continua e totale, anche notturna, e che alternava momenti di tranquilla tenerezza a crisi nervose anche violente. Non si poteva lasciarlo solo neanche un momento, perché avrebbe potuto farsi del male, e a volte chi l'assisteva doveva subire anche qualche percossa. In famiglia la mamma e le ragazze si davano il turno giorno e notte, e Maria faceva in modo di far cadere su di sé il peso maggiore di quella logorante assistenza: l'adorazione che ella aveva sempre provato per il papà doveva ora fare i conti con l'avvilimento e lo squallore. Gli stessi familiari erano stupiti dalla forza e dalla resistenza della ragazza. «Ma come fai?» le chiedeva la sorella maggiore, «Mi preparo per tempo – rispondeva Maria – con un assoluto abbandono nel Signore, disposta a soffrire ogni cosa per suo amore. Entro così nella camera del papà malato, dimentica di me stessa e mi do a lui per amore di Dio». Diceva di considerare il letto dell'infermo «come l'altare in cui voleva offrire tutta se stessa per Iddio».
I consigli evangelici tra le mura domestiche
Da come s'era messa la situazione in famiglia, Maria ormai sapeva che la strada per realizzare la sua vocazione monastica sarebbe stata lunga, e aveva perciò deciso di cominciare a vivere i consigli evangelici nel mondo. Cominciò facendo il voto di verginità, sia pure in forma temporanea, secondo i consigli del confessore. Viveva con la coscienza felice di appartenerGli, dicendosi spesso: «Io sono tutta di Gesù, appartengo tutta a Gesù, come cosa sua. Se guardo devo guardare Lui; se parlo devo parlare di Lui».
Contemporaneamente si applicò ad imparare, già nel mondo, l'obbedienza evangelica col metodo più semplice che si possa immaginare: «Io chiedo a Gesù: "Parla, che vuoi da me? Che vuoi ch'io faccia?". E Lui, sempre con la medesima pazienza, come fosse la prima volta, non mi chiede altro che questo: "Amami!"».
Allo stesso modo cercava di coltivare la povertà evangelica, pur dovendo restare nell'ambiente agiato in cui era nata. La fanciulla ricca che, in villeggiatura, guardava con romantica nostalgia la povera famiglia del giardiniere, sognando «una casuccia povera, in una famiglia dove si vive giorno per giorno, affidati alle mani della Provvidenza», imparò – direttamente dall'Eucaristia – il realismo della povertà: «Guardando Lui che sta nella piccola ostia e si dona in così umili apparenze, anch'io mi sforzai di imitarlo...». E scelse di imitarlo proprio nella rinuncia alle apparenze delle vesti ricche e sontuose, delle acconciature elaborate, degli oggetti ricercati, del cibo raffinato, del denaro speso per il superfluo. Imparò semplicemente a donare con facilità ciò che era suo e a non chiedere mai ciò che le mancava: «Nelle tue mani, Signore, io mi abbandono come una bimba, felice di ciò che mi manca». Paradossalmente il punto in cui si sentiva più povera, più priva del necessario, era proprio l'Eucaristia, che le era raramente concessa.
In quegli anni di inizio secolo, ad una signorina di buona famiglia non era consentito uscire da casa senza essere accompagnata dai genitori o da un fratello, nemmeno per andare a Messa. Oggi questo potrà far sorridere, ma nell'ambiente sociale di Maria era una legge ferrea. Ogni domenica ella se ne stava – digiuna dalla mezzanotte, come allora era richiesto – aspettando che qualcuno dei familiari la accompagnasse a Messa, e i fratelli spesso si decidevano solo ad ora molto tarda: ma la fame fisica che Maria pativa era poca cosa rispetto al desiderio dell'Eucaristia che la consumava dentro. E se così era nei giorni festivi di precetto, la sofferenza si acuiva nei giorni ferali quando il suo bisogno, quasi fisico, di ricevere quotidianamente l'Eucaristia, si scontrava con la pratica impossibilità di recarsi in Chiesa.
Dopo la morte dei genitori le cose peggiorarono ancora: «Per mesi e mesi, forse anche per un anno intero, per me non c'erano né domeniche né chiesa, né Santo Sacrificio, né Eucaristia. Quanti desideri, quanto mendicare e sperare che qualcuno si decidesse ad accompagnarmi nella tua casa, o mio Gesù. Inutili le attese, il digiuno...». Si può dire che la difficoltà che ella ebbe a realizzare la sua vocazione – soggetta com'era all'autorità dei familiari – aveva una spina quotidiana proprio nelle difficoltà che la tenevano lontana dall'Eucaristia. Ma ella le risolse quando capì che nemmeno la distanza fisica poteva impedirle di visitare spiritualmente – ma in tutta verità – quel Gesù che se ne stava pazientemente nel suo tabernacolo: «Cominciai a fargli delle visitine durante il giorno, e anche durante la notte, col pensiero e col cuore. Lo visitavo in tutte le chiese dove stesse più abbandonato e dimenticato. Di notte, interrompendo il sonno, mi levavo in ginocchio e adoravo. Vedevo con lo spirito quelle chiesette buie e la porticina silenziosa del santo tabernacolo. Dicevo a Gesù che ai piedi di ogni tabernacolo mettevo come lampada il mio cuore, affinché continuamente lo adorasse, lo ringraziasse, lo amasse e riparasse per tutti.». Non riusciva nemmeno a immaginare che esistesse al mondo altra felicità che quella della presenza eucaristica: «Se vedevo a volte qualcuno che rideva e si rallegrava, mi veniva spontaneo pensare: "Forse oggi avranno fatto la Comunione!". E se qualche persona allegra stava parlando proprio con me, e potevo apprendere che non s'era affatto comunicata, mi chiedevo con stupore: "Ma come può essere allegra? Di che ha da rallegrarsi?"». Le sembrava impossibile che ci fossero al mondo persone che si adattassero, in maniera spensierata, a quello che chiamava "l'interiore vuoto volontario".
L'incontro con Teresa di Lisieux e l'entrata in monastero
Intanto la situazione familiare si aggravava ulteriormente: nel 1911 morì improvvisamente di nefrite il fratello Paolo, studente di Legge, a soli 21 anni di età. Era il preferito della famiglia, per la sua dolce bontà e Maria (che aveva allora 27 anni) era per lui amica e confidente. In seguito a tale tragedia, anche la salute di mamma cominciò rapidamente a declinare. E furono altri tre anni di continua assistenza all'inferma. Era come se i legami che trattenevano Maria nel mondo si allentassero progressivamente, ma solo a prezzo di sofferenze lunghe e profonde. Prima di morire, la mamma raccomandò ai due fratelli maggiori di lasciare finalmente partire la sorella verso il suo sospirato monastero. Ma la loro resistenza si fece, invece, ancora più aspra. Erano due professionisti affermati (uno medico cardiologo e Libero Docente all'Università di Palermo, l'altro Magistrato alla Corte d'Appello) e si sentivano due buoni cristiani, ma erano troppo segnati dallo spirito del tempo: ambedue convinti che Maria fosse la luce della famiglia di cui non potevano né dovevano privarsi; ambedue convinti di avere su di lei un'autorità indiscutibile; ambedue convinti che quella vocazione fosse solo frutto di una fantasia surriscaldata.
Ella aveva custodito in cuore un desiderio della clausura piuttosto generico, orientato inizialmente verso il monastero delle Visitandine. Poi era stata affascinata dalla "Storia di un'anima", di Teresa di Lisieux, che in quegli anni cominciava a diffondersi. Ma a Palermo il monastero delle carmelitane era in grave crisi. Fu l'Arcivescovo di Palermo, Card. Lualdi, a sciogliere il nodo, consigliando a Maria Barba un nuovo, povero monastero di Carmelitane che in quegli anni era sorto nella lontana Ragusa. I primi contatti, all'insaputa dei fratelli, furono epistolari. Ma quando venne finalmente il tempo della partenza (Maria aveva già 35 anni) lo scontro con i fratelli toccò punte di parossismo. Si rifiutarono di accompagnarla, come l'uso del tempo avrebbe esigito. «Tu sei pazza! Non posso venirti a chiudere in carcere con le mie mani», gli disse uno di essi rifiutandosi di accompagnarla. E l'altro, al momento degli ultimi saluti, se ne resto mutò col giornale in mano, senza nemmeno guardarla. Negli anni avvenire, Maria non riceverà mai né una visita né una lettera dai fratelli, che la considereranno come morta.
Il viaggio in treno per Ragusa durava allora più di quindici ore, quasi tutte notturne. Quando nel pomeriggio del giorno dopo, Maria si presentò alle porte del monastero, le monache quasi non volevano più accettarla, perché la giovane – per un ultimo tentativo di accontentare i fratelli – era uscita di casa indossando il suo vestito più bello. «Sembrava una ballerina», dissero le rudi monache che se la videro apparire alla porta come se venisse da un mondo di fiaba. Ma sorrisero, quando videro il primo gesto che Maria compì quasi istintivamente: si tolse la collanina d'oro e gli orecchini di smeraldi ornati di perle e li depose ai piedi di una statua della Vergine Santa che era nell'atrio del monastero.
Formazione al Carmelo
Quando giunse il tempo della prima vestizione, le diedero spontaneamente – senza che lei ne avesse mai fatto parola – il nome che aveva sempre desiderato: Maria Candida dell'Eucaristia e, quando si accostò al tabernacolo, le parve di sentire che Gesù Eucarestia l'accoglieva dicendole con infinita tenerezza: «Maria Candida, mia».
L'adattamento alla vita claustrale non fu facile. Si trattava di un monastero di recente fondazione, quasi interamente immaginato e preparato da una ventina di ragazze che s'erano via via radunate assieme spontaneamente, nel desiderio della vita carmelitana. Conoscevano le "Costituzioni" di Santa Teresa e qualche testo di San Giovanni della Croce. E già subivano il fascino di una giovane carmelitana francese (Teresa di Lisieux), la cui fama cominciava a irraggiarsi anche in Italia. A guidarle e a meglio compaginarle erano state inviate due religiose più anziane ed esperimentate, dal monastero di Arco Mirelli (Napoli). L'ideale in vigore nel monastero ragusano era riassumibile nel binomio tradizionale preghiera-austerità di vita, anche se c'era voluto tempo perché la vita regolare fosse interamente attuata. Si era appena conclusa la Prima Guerra Mondiale e sofferenze ed austerità erano da tempo pane quotidiano per tanta povera gente. Anche Maria s'era da tempo abituata, già in famiglia, a vivere in maniera austera, dedicandosi a lunghe preghiere e praticando dure penitenze. Ma in quei primi mesi di vita monastica scopriva durezze inattese: il pesante divario culturale e la rusticità di alcune consorelle; la grossolanità e la scarsezza del cibo; la scomodità degli orari; il freddo inusuale; il riposo insufficiente... A volte, al mattino, la stanchezza era già tanta che le sembrava quasi impossibile giungere fino a sera. Eppure le lettere e i diari del tempo sono impregnati di entusiasmo e di gioia: «Sto bene e sono felice, sempre», è la formula ricorrente. Il fatto è che tutto contribuiva a farla sentire abbracciata e custodita da un amore più grande.
Della Regola Carmelitana aveva subito percepito il nucleo incandescente, là dove essa prescrive "la preghiera incessante". Anziché spaventarsi di una simile prescrizione, diceva di averne avuto sempre «una sete indescrivibile», e che non le sembrava vero di poterla finalmente appagare. Della dottrina di Santa Teresa d'Avila l'affascinava l'impegno e l'invito ad osservare la Regola "con la maggiore perfezione possibile", in modo da non togliere mai nulla all'amore. Ma restò col fiato in gola, quando poté leggere le prime pagine del "Castello interiore" dove la Santa descriveva la grande bellezza e l'infinità dignità dell'anima umana e Maria riconobbe proprio ciò che le era accaduto appena entrata in monastero: si stava confessando e, nel momento di ricevere l'assoluzione, aveva avuto la grazia di "vedersi dentro". Era rimasta stupefatta: «"Ma così sono io interiormente? Questo tesoro io posseggo in me?", ripetevo a me stessa tra lo stupore e l'onda di grazia e di dolcezza che mi avvolgeva». Da allora il suo rapporto con la grande Teresa continuò con questo ritmo: nelle parole di lei, Maria Candida ritrovava e capiva tutte le intense esperienze che Dio man mano le concedeva.
Con San Giovanni della Croce – che cominciava a conoscere – le pareva di avere una lunga e lontana familiarità, perché già nel mondo ella s'era spesso sentita come la "Sposa dei Cantici", continuamente corteggiata dallo Sposo: da Lui vegliata nella notte, da Lui accarezzata, da Lui baciata. Ma ora in monastero cominciava ad intuire anche la drammaticità di un possesso mai totalmente appagante, un possesso che dev'essere sempre nuovamente ricercato e sempre nuovamente realizzato, ad ogni prezzo.
La notte oscura
Il periodo di formazione monastica durò cinque anni e l'esperienza interiore ebbe un duplice movimento, apparentemente contrastante. Più le grazie la inondavano, più le accadeva – già in quei primi anni – qualcosa a cui Maria Candida non era affatto abituata: «Quella luce santissima mi portò le tenebre e mise sottosopra il fondo della mia natura». «Patire senza avere più notizie di Gesù, agonizzare in un mare di tentazioni e di ripugnanze e sentirsi intanto del tutto estranea a Lui, anzi da Lui rifiutata, lo spirito nelle tenebre, la mente avvolta nelle distrazioni, nessuna goccia di sollievo in nessuna cosa! Anzi soffrire di tutto... Questo è inferno! E così la mia anima spontaneamente l'ha qualificato». Le sembrava di assomigliare ad un tronco spogliato, via via, di ogni frutto, di ogni foglia, di ogni ramo e aggredito da una scure impietosa. «Gesù mi aveva appena accolto con tanto amore dal seno della mia famiglia nel giardino carissimo del Carmelo che subito mi abbandonò, anzi mi rifiutò del tutto».
Per fortuna chi si mette alla scuola di San Giovanni della Croce è bene attrezzato per conoscere questo particolarissimo dramma che il Santo chiamava "notte oscura" e che si produce spesso nella vita dei più grandi mistici. L'amore cristiano, quanto più cresce tanto più è chiamato a immergersi nella Croce di Gesù e a partecipare al dramma con cui Egli vuole abbracciare anche tutta la nostra sofferenza e tutta la nostra perdizione. Non c'è sofferenza umana che al vero mistico possa essere risparmiata, come non è stata risparmiata al nostro Salvatore.
Madre come Maria
Teresa di Lisieux appena proclamata Beata. E non erano ancora passati sei mesi, che tutta la comunità la eleggeva all'ufficio di Priora, nel quale l'avrebbero poi mantenuta per quasi vent'anni. Era una cosa inaudita in un Carmelo, tanto che ci volle un permesso speciale della Santa Sede per convalidare la nomina.
Erano quasi tutte monache giovani, ma nell'ultima arrivata avevano subito intuito una maturità, una forza e una maternità straordinarie, e loro avevano appunto bisogno di una madre spirituale. Fu così che la storia di Madre Maria Candida dell'Eucaristia divenne la storia della sua comunità che ella educò nel pieno rispetto della tradizione carmelitana, non senza rischiare nei primi anni un'eccessiva rigidità e severità.
Dalle sue monache esigeva un'osservanza assoluta e minuziosa della Regola, non per durezza di cuore, ma perché – dopo aver tanto atteso e desiderato quella vita – non sapeva nemmeno che ci si potesse risparmiare in amore. In seguito, con l'esperienza degli anni, diverrà più misericordiosa e dolce, al punto che, alla fine, potrà dire alle sue sorelle: «Vi ho amate tutte, come se ognuna fosse l'unica e la prediletta».
Le aveva anche coinvolte nel suo personalissimo carisma che sapeva far convergere tutto sull'Eucaristia: sua gioia quotidiana e suo continuo martirio d'amore. Ebbe il dono di vedere davvero nel Sacramento dell'altare "il centro del cosmo e della storia" e di sentirsene infallibilmente, stabilmente, irresistibilmente attratta. Per lei il Tabernacolo rifletteva esattamente la "settima dimora" del "Castello interiore" di Santa Teresa d'Avila, in cui la sua anima carmelitana anelava di poter sempre abitare. Non vedeva al mondo bellezza altrettanto grande che meritasse attenzione: «Girando poi lo sguardo a tutte le bellezze, a tutte le grandezze, a tutti gli splendori della terra, e riposandolo di nuovo sul santo Tabernacolo, io sento, io esclamo che tutto è vuoto, che non v'è tesoro più grande, più delizioso, di quello che io possiedo e che tutto è là!». Pregava: «Gesù Eucaristia, tu mi hai fatta per te e per te io tutta sono» e l'intera sua esistenza era ricerca di potergli offrire sempre qualcosa di più nuovo e di più totale. Giunse fino a donargli la promessa (il "voto") di compiere sempre ciò che era "più perfetto" (cioè "più gradito" a Dio). Gli offrì la sua disponibilità a lasciarsi sempre "immolare" come si immola quotidianamente l'Ostia su tutti gli altari. Gli donò l'attenzione quotidiana e operosa nel guardare e trattare ogni altra monaca (e sua figlia) con "stupore eucaristico".
L'Eucaristia era l'incarnazione di Gesù, messa alla portata di ciascun uomo: alla portata di ogni cuore e perfino di ogni corpo umano. Diceva: «Nel nascere Gesù si fece nostro, nell'Eucaristia si rende mio». Se avesse potuto, sarebbe rimasta a fargli compagnia vicino all'altare, ad ogni istante libero della giornata, ma faceva sempre precedere il rispetto delle regole del monastero e le urgenze della carità fraterna. Nella sua passione eucaristica si sentiva vicinissima alla Madonna e diceva: «Io Vorrei essere come Maria, essere Maria per Gesù, prendere il posto della mamma sua. Nelle mie comunioni Maria l'ho sempre presente. Dalle sue mani io voglio ricevere Gesù. Lei deve farmi diventare una cosa sola con Lui. Io non posso dividere Maria da Gesù!... Nei miei rapporti con Gesù Ostia, mi studierò di essere come Maria per rispetto, per adorazione, per tenerezza, per amore. Io non dividerò mai Maria da Gesù».
Così quando le urgenze del monastero e del suo ufficio di Priora la tenevano occupata altrove si comportava col Santissimo Sacramento come si comporta una mamma che, quando mette a letto il bambino può sbrigare le faccende di casa, ma ogni tanto lo va a guardare ed è impaziente di tornare vicino alla culla. «Allora, quando le occupazioni della vita mi chiamano, io gli dico che intanto dorma nel mio cuore, poi ogni tanto ritorno a lui, ci rimango con soavità a guardarlo in silenzio. Sono tornata, l'ho guardato in silenzio, gli ho parlato piano piano per non svegliarlo. Dopo finalmente mi è stato dato di appartarmi, finiti i lavori, per seguitare il mio ringraziamento. Tutta lieta l'ho svegliato presto con un bacio e gli ho detto: ecco, Gesù, or a noi due, e mi è parso che Gesù si levasse e mi unisse forte a lui nel suo cuore...».
Così passarono gli anni. Così invecchiò Madre Maria Candida, sempre desiderando di potere dare tutto al suo Sposo e sempre educando "eucaristicamente" il monastero che le era stato affidato. A 65 anni si ammalò gravemente per un tumore al fegato e le sofferenze non le diedero tregua, ma continuò ad essere, per tutti, di esempio caro e materno, anche se non era più Priora.
Morì nella festa della Santissima Trinità del 1949, spirando come aveva desiderato quel giorno in cui in un suo quadernetto aveva annotato: «Io voglio alla sera della mia vita mormorare in piena pace e gioia e calma "Ho fatto tutto quello che voleva il mio Dio"». Era certa di Lui: «Ho un cumulo infinito di meriti per andare in paradiso: i meriti di Gesù... Ho trovato dolcissimi nascondigli dove nascondere in eterno le mie colpe e le grandi miserie della mia anima: le cinque piaghe di Gesù».
E' stata beatificata il 21 marzo del 2004 a Roma da San Giovanni Paolo II.