Assai gracile, era animo tenace e volitivo. Divenuto sacerdote, a Torino fu accolto dal teologo Luigi Guala nel suo Convittto ecclesiastico da lui aperto. Questi lo spinse a fare opere di catechesi verso il giovane muratori e carcerati, poi lo volle a fianco nella cattedra di teologia morale. Per 24 anni Giuseppe formò generazioni di sacerdoti, dedicandosi anche ad un'intensa opera pastorale verso tutti bisognosi, compresi i carcerati e i condannati a morte. Sul ceduto al Guala, né perfezionò l'opera, rifiutando sempre ogni titolo onorifico. Aiutò materialmente e moralmente Don Bosco che lo definì " il modello di vita sacerdotale". E' patrono dei carcerati e dei condannati a morte.
Etimologia:Giuseppe = aggiunto (in famiglia), dall'ebraico
E' presente nel Martirologio Romano. A Torino, san Giuseppe Cafasso, sacerdote, che si dedicò alla formazione spirituale e culturale dei futuri sacerdoti e a riconciliare a Dio i poveri carcerati e i condannati a morte.
Non ha fondato né costruito, ma ha allevato fondatori e costruttori. Dalla cattedra e dal confessionale ha formato maestri di fede e uomini e donne di Dio per la Chiesa del suo tempo e anche di dopo. Se non era in cattedra o in chiesa, lo si poteva trovare nelle carceri, tra i detenuti. Giuseppe Cafasso, nato a Castelnuovo d’Asti nel 1811 (quattro anni prima di Giovanni Bosco), fa le scuole pubbliche al suo paese e poi va al Seminario di Chieri (Torino). Tra i compagni non spicca per gesti speciali; la sua figura è tutt’altro che imponente: di piccola statura, è già un po’ curvo per una deviazione della colonna vertebrale.
Difficile prevedergli un futuro di grande predicatore, perché il suo parlare è sommesso. Ma è prete già a 22 anni, e con un solido ascendente sui compagni. Entra nel Convitto ecclesiastico torinese del teologo Luigi Guala, dove i neosacerdoti approfondiscono gli studi di teologia e di morale, e intanto fanno tirocinio nel ministero, lavorando in ospedali, riformatori, carceri, ospizi. Entrato come allievo, don Cafasso non va più via, diventando insegnante di morale, direttore spirituale e infine rettore.
Intanto lo chiamano a predicare, anche se gli manca la voce tonante. Parla ai fedeli nelle “missioni” e ai preti negli esercizi spirituali. Sulla linea di Alfonso de’ Liguori, ma con un suo preciso accento personale, insegna la morale, combattendo un rigorismo giansenistico ancora diffuso, che scoraggia molti. E ai preti insegna come presentare la fede con serenità e fiducia, senza transigere sul dogma, ma offrendo comprensione agli incerti, ai disorientati.
Il giovane don Bosco gli chiede consiglio: vorrebbe andare missionario, ma gli si offrono pure incarichi qua e là... Sommesso e chiaro, Cafasso dice a don Bosco che la sua missione è Torino. E’ la capitale piemontese, con tanta gioventù brada, immigrata e analfabeta, sfruttata da molti, malvista dalla polizia. E lo aiuta a cominciare, trova posto per i suoi primi ragazzi, lo difende dagli attacchi di chi non capisce.
Gli chiedono consiglio ex allievi diventati vescovi e cardinali. Alcuni notabili gli propongono di candidarsi alla Camera. Risposta: "Ma nel dì del Giudizio il Signore mi chiederà se avrò fatto il buon prete, non il deputato".
E’ popolare e amato in Torino per l’opera tra i carcerati, che non si limita a visite, buone parole e sigari, ma include l’aiuto alle famiglie, il soccorso ai dimessi perché non ci ricaschino. E include la condivisione delle ore estreme con i condannati a morte, i momenti della disperazione, il cammino verso la forca. Il fragile prete non si stacca mai dai morituri, ai quali parla sommessamente fino al patibolo, pronto poi a inginocchiarsi presso i cadaveri, ricomporli con gesti materni, benedirli, con nell’orecchio ancora le loro ultime parole. Papa Pio XII lo canonizzerà nel 1947, proclamandolo Patrono dei carcerati.
GIUSEPPE CAFASSO, IL PRETE DELLA FORCA
Seguì e confortò i carcerati nella Torino dell'Ottocento, accompagnando fin sotto il patibolo i condannati a morte. Ma soprattutto fu un sacerdote santo che formò molti altri sacerdoti santi, da san Giovanni Bosco al beato Francesco Faà di Bruno.
Nacque a Castelnuovo d’Asti, oggi Castelnuovo Don Bosco, il 15 gennaio 1811 e morì a Torino il 23 giugno 1860. Giuseppe Cafasso fu un sacerdote santo che direttamente o indirettamente formò a sua volta sacerdoti santi. E rimase accanto ai carcerati, accompagnando al patibolo i condannati a morte. A giudizio unanime è una delle radici profonde della cosiddetta Torino dei santi sociali, maturata in un contesto socio-economico non facile, segnato dai moti risorgimentali, da elite liberali spesso laiciste, massoniche, anticristiane, dalla crescente industrializzazione che portò a fenomeni migratori dalle campagne verso la città che generarono un inurbamento caotico e gravido di tensioni.
Nato in una famiglia contadina, Giuseppe Cafasso era terzo di tre figli: la sorella Marianna divenne la madre del beato Giuseppe Allamano (1851-1926), rettore del Convitto e del Santuario della Consolata, nonché fondatore dell’Istituto Missioni della Consolata. Fu sempre gracile e minuto, «era quasi tutto nella voce», diceva don Bosco, eppure fu un gigante nello spirito. Fu ordinato prete il 21 settembre 1833 nella chiesa dell’Arcivescovado di Torino e l’anno dopo avvenne l'incontro con don Luigi Guala (1775–1848), dalla spiritualità ignaziana, insigne moralista e teologo, di cui il Cafasso fu collaboratore e con il quale fondò il Convitto ecclesiastio di San Francesco d’Assisi, volto alla formazione del clero torinese, dove don Cafasso entrò nel 1834.
Padre spirituale, direttore di anime, consigliere di vita ascetica ed ecclesiastica, formatore di preti, a loro volta formatori di altri preti, religiosi e laici, in una sorprendente ed efficace catena, Cafasso fu rettore per 24 anni del Convitto ecclesiastico, che nel 1870 si trasferì al santuario della Consolata, dove oggi riposano le sue spoglie. «Le sue lezioni erano attraenti, osserva la storica Cristiana Siccardi, perché costruite sulle verità di fede e sul sapiente bagaglio di conoscenze, ma anche palpitanti di documentazione raccolta dal vivo nel confessionale, al capezzale dei morenti, nelle missioni predicate al clero e al popolo, e nelle carceri, luogo a lui molto caro. Uomo di sintesi e non di pedanti trattazioni, combatté il rigorismo di matrice giansenista. Voleva fare di ogni sacerdote un uomo di Dio splendente di castità, di scienza, di pietà, di prudenza, di carità; assiduo alla preghiera, alle funzioni religiose, al confessionale, devoto di Maria Santissima e attingente forza dal Santo Sacrificio. Primo dovere del prete, diceva, era quello di essere santo per santificare».
Fu confessore della serva di Dio Giulia Falletti di Barolo (1786-1864) e fra i sacerdoti da lui formati vanno ricordati san Giovanni Bosco, fondatore dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice, il beato Francesco Faà di Bruno (1825-1888), fondatore dell'Opera di Santa Zita e della congregazione delle Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio, il beato Clemente Marchisio (1833-1903), fondatore dell’Istituto delle Figlie di San Giuseppe, Lorenzo Prinotti (1834-1899), fondatore dell’Istituto dei sordomuti poveri; Adolfo Barberis (1884–1967), fondatore delle Suore del Famulato Cristiano. S'adoperò molto per la conversione dei peccatori. Non a caso era assiduo delle prigioni cittadine, tanto da rimanervi fino a tarda notte, a volte tutta la notte. Portava sigari e tabacco da fiutare, al posto della calce che i carcerati raschiavano dai muri; ma soprattutto portava alla conversione ladri e assassini efferati. Talvolta, annota ancora la storica Cristiana Siccardi, erano lenti e tormentati pentimenti, altre volte, invece, si trattava di conversioni immediate, che avvenivano anche a pochi istanti prima dell’impiccagione. Il «prete della forca», così è stato chiamato, usava immensa misericordia, possedendo un’intuizione prodigiosa dei cuori, e trattava i suoi «santi impiccati» come «galantuomini», tanto che il colpevole sentiva così forte l’amore paterno di Dio da volersi unire a lui, come il buon ladrone, crocefisso accanto a Gesù sul Calvario.