terça-feira, 25 de março de 2014

WILLIGIS JÄGER : spiegare cosa sia effettivamente la mistica, vale a dire null'altro che la realizzazione della realtà.

 Jaeger è monaco benedettino e maestro Zen, costretto al silenzio dal 2000, dalla Congregazione della dottrina della fede guidata dall'attuale papa. Dal 2002 ha rinunciato all'esercizio della sua attività sacerdotale. Dal 1975 ha intrapreso il percorso della mistica zen, fino a divenirne maestro. E' una delle voci più alte della ricerca spirituale contemporanea, speranza in chi crede in una religione aperta, a confessionale, anti dogmatica. Scaturita dall'esperienza diretta con il divino.

WILLIGIS JÄGER
L'immagine della mistica in Occidente è stata notevolmente distorta. In questo termine aleggia un'ombra di bigotteria e di esotismo, di segreto e di santità elitaria. E questo è proprio quello che la mistica non è. Ecco perché è importante, prima di tutto, spiegare cosa sia effettivamente la mistica, vale a dire null'altro che la realizzazione della realtà. Spiego. La realtà che noi consideriamo reale non è vera realtà. La vera realtà si dischiude ai nostri occhi solo quando abbandoniamo la consapevolezza abituale dello stato di veglia ed entriamo in una sfera di coscienza superiore, che - rispetto alla coscienza personale dell'Io - può essere definita come "coscienza transpersonale". In molti rappresentati della psicologia avanzata troviamo una distinzione tra i diversi livelli di coscienza. Lo stadio di coscienza prepersonale, o preparazionale, è il livello del corpo e delle percezioni sensoriali, delle emozioni, di semplici cognizioni sotto forma di immagini e di simboli, e delle rappresentazioni mitiche, senza tuttavia una coscienza chiara. Questo livello corrisponde alla coscienza del nostro Io. A livello della coscienza transpersonale, l'essere umano supera la propria coscienza dell'Io, immergendosi in una realtà che trascende l'ego. Ciò avviene anche sotto forma di immagini e di simboli (visioni e profezie).
A livello di coscienza cosmica avviene l'esperienza mistica vera e propria: l'esperienza del vuoto, della "Divinità" senza predicati. Qui l'uomo fa esperienza del "puro essere", l'origine di tutto. È lo stadio che precede tutto quanto può crearsi. Ecco perché non si ha a che fare con un essere che è sostanza. Dionigi l'Areopagita l'ha espresso in modo meraviglioso in una poesia: "La causa prima di ogni cosa non è né essere né vita, poiché è stata lei stessa a creare l'essere e la vita. La causa prima non è neanche concetto o ragione. Perché è stata lei stessa a creare i concetti e la ragione".
L'esperienza mistica è l'esperienza dell'unità di forma e vuoto, della propria identità con la Realtà Prima. Tale livello di coscienza è la meta della vita spirituale. Questa coscienza è l'esperienza mistica e colui al quale accade diventa un altro. Le sue concezioni religiose si trasformano. Compiere questo passo significa, in un certo senso, morire; perciò nella tradizioni mistica tale esperienza viene descritta come la "morte dell'Io".
Per la mistica non si tratta, comunque, di eliminare l'io o di combatterlo. Si tratta semplicemente di rimetterlo al proprio posto e di ridargli il peso che gli spetta. Ecco perché ci si sforza di riconoscere l'io per quello che è effettivamente: un centro organizzativo per la struttura personale dei singoli individui. Questo centro organizzativo ha un valore irrinunciabile per la nostra vita. È quanto ci rende umani. Questo è ovvio per la mistica. L'esperienza mistica, però, porta a l'uomo a non identificarsi più in prima istanza con questo Io palese, liberandolo ed aprendolo ad una realtà nella quale l'Io non è più predominante.
Nel cogliersi come realtà superiore, l'ego non diventa "meno ego", ma "più ego". Ecco perché i mistici non provano un senso di perdita quando l'Io si tira indietro. Fanno esperienza di qualcosa di molto più prezioso, che non lascia nemmeno affiorare l'idea di una perdita. Di conseguenza, sono quasi sempre delle personalità forti. Molti mistici del passato avevano un Io così marcato, che hanno preferito finire sul rogo, piuttosto che tradire la propria convinzione. Per la mistica, nella vita non contano né la giustificazione, né l'appagamento dell'Io, né l'autorealizzazione. Si tratta esclusivamente di smascherare tutti i progetti dell'ego - anche o proprio soprattutto quelli religiosi - come transitori. Nella pratica contemplativa, quello che conta è ridurre anche la volontà, quand'anche si tratti di buona volontà. Finché compiamo gli atti religiosi o recitiamo le professioni di fede per ottenere un tornaconto personale, non siamo ancora avviati sul cammino della mistica. Ci irrigidiamo sullo schema del "Do ut des", del "non si dà nulla per nulla".
Sarebbe troppo semplice accusare solo lo spirito dei tempi, senza accorgersi che questo non fa che seguire una tendenza che tutte le religioni affermate conoscono bene: la tendenza a costruire strutture che preparano la strada alla mentalità del baratto. Ogni volta che vengono emanate delle norme etiche e si esaltano le professioni di fede in quanto apportatrici di redenzione, è in agguato la grande tentazione di usare tali norme e professioni per tranquillizzare l'Io. In tal modo si è ben lontani dall'abbandonarlo, anzi, non si fa che rafforzarlo. Aggiungerei: l'ego si infila in una prigione autocostruita, nella quale alla fine non può che segnare il passo.

La Contemplación tiene tres estructuras básicas

La Contemplación tiene tres estructuras básicas:
  • El recogimiento de la conciencia mediante un solo foco, la respiración o una palabra.
  • La atención pura para crear un espacio para la “contemplación del puro Ser” o la “pura atención amorosa”.
  • Caminar, trabajar y hacer cada movimiento de una forma consciente.
La práctica puede llevar a un estado de conciencia, una pura percepción, una presencia que no juzga ni evalúa.

Sentarse en silencio

El recogimiento de la conciencia a través de la respiración

Nada más importa salvo ésta respiración en este preciso instante. Nada es reprimido aunque la atención siempre vuelve a esta única respiración. Sólo este respiro importa ahora. Pensamientos, intenciones, emociones o sentimientos vuelven a surgir. Tomo nota de todos ellos pero me vuelvo a centrar inmediatamente en ésta única respiración.
La respiración no es manipulada, ni forzada, ni provocada. Cada respiro es como es. Debido a la doble atención que prestamos a la respiración, ésta, con el tiempo, puede crecer y llegar a ser más profunda y amplia.

El recogimiento de la conciencia a través de una palabra

Willigis Jäger dice, y así lo confirma la experiencia, que una palabra es más “tangible” que la atención pura a la respiración. Es un sonido interior, p.ej. la palabra Jesús, Jehoshua, Cristo o Shalom. El significado de la palabra en sí es irrelevante y no se refleja. Cualquier imaginación que pueda ser asociada a una palabra desaparece. Se trata de unirse al simple sonido de la palabra. Me entrego a ella hasta que el Yo se pierda entre el sonido o, es más, hasta que el Yo se haya convertido en este sonido y me lleve a una apertura de conciencia.

Vaciado de la conciencia – “Contemplación del puro Ser”

La postura fundamental es de serenidad alegre. La mente se refleja. Somos cuerpo, mente y espíritu. Es lo que nos caracteriza. Pero esto sólo es el instrumento que “toca” nuestro verdadero Ser. Experimentar el verdadero Ser que se halla detrás de nuestra personalidad y racionalidad es el objetivo de la Contemplación y de la mística. Es un estado que trasciende toda actividad mental y egocentrismo.
La práctica es un sentir, oír y percibir del origen amorfo de nuestra verdadera naturaleza. Es un No-Pensar, un escuchar a nuestro interior. Nada que aparece en nuestra conciencia se retiene. Esta práctica de oración de la paz lleva a un vaciado de la conciencia y una armonía con nuestro Ser que trasciende lo personal.
“Nada es ahora más importante que esto: que ofrezcas la oscura percepción de tu Ser Puro alegremente a Dios para que él te pueda unir a su interior; su Ser con tu Ser.” (Nube del No-Saber)
El místico anónimo de este verso que se dirige a un alumno, habla de un vaciado de la conciencia, de la “Contemplación del puro Ser” que es nuestra verdadera naturaleza.
San Juan de la Cruz dice algo parecido: “atención amorosa”, “atención pura” o “amor pasivo”: “El alma tiene que salir al encuentro de Dios con atención amorosa. Sólo esto; sin destacarse mediante actos. Debe comportarse de una manera sumisa, sin interés propio; con simple y decidida atención amorosa; como alguien que en cuyos ojos se refleja el amor.”

fonte

Willigis Jäger: El Amor es la quintaesencia de mi vida

 
El 7 de marzo del 2010 cumplí 85 años. ¿Cuál es la quintaesencia de mi vida? Desde mi infancia he buscado el Fondo originario detrás de todas las palabras, formulaciones y declaraciones teológicas, ese Fondo al que los cristianos llamamos Dios.
A los seis años salí por primera vez de la limitación racional. Entonces no supe lo que me pasaba, pero esa experiencia me dio la seguridad de que detrás de todas las palabras me espera un amor absoluto. Fui un niño normal. No en vano me dieron el apodo “f y f” – “frech und fromm”, “pillo y devoto”. Pasé una niñez maravillosa con mis seis hermanos. Pero el anhelo hacia ese Fondo originario, del que tan pronto percibí una idea, no me soltó más, ni siquiera en la adolescencia. Fui un buscador apasionado. Ya en la juventud mi oración se asemejaba a un abrirse amoroso a ese Fondo originario divino.
Tampoco en el tiempo que como soldado tuve que pasar en la guerra me abandonó ese anhelo. Gracias a Dios nunca tuve que disparar. Ese anhelo hizo que después de la guerra entrara en el monasterio. Allí esperaba encontrar la realización de mi anhelo.
Como todos mis compañeros de la Orden recibí una formación espiritual de seis años en filosofía y teología. Pero la teología no me trajo la realización de lo que anhelaba. En aquel tiempo la lectura de los libros de Friedrich Schleiermacher me interesaba más que las clases de teología, igualmente Friedrich Nietzsche, cuya experiencia mística en la roca de Surley me impresionó profundamente. De Arthur Schopenhauer me interesaba más su experiencia mística que su interpretación pesimista del mundo. Me impresionó en especial una experiencia suya y me sentí reflejado en ella:
“Pero yo digo, en este mundo temporal, sensual y comprensible, hay personalidad y causalidad, sí, son incluso necesarias. –Pero una consciencia superior en mí me alza a un mundo en el que ya no hay ni personalidad ni causalidad, ni sujeto ni objeto.” Entonces él intenta describir el mundo como se muestra a esa “consciencia superior”: “Tranquilo y sonriente vuelve la mirada hacia los espejismos de este mundo que una vez fueron capaces de conmover y atormentar su ánimo, pero que ahora le resultan tan indiferentes como las piezas de ajedrez después de terminada la partida, o por la mañana los disfraces tirados cuyas figuras nos gastaron bromas y nos inquietaron en la noche de carnaval. La vida y sus formas flotan ante él como un fenómeno pasajero, como ante el que está medio despierto flota el ligero sueño matutino a través del cual brilla ya la realidad y que no puede así engañarle.”
Siempre busqué con gran pasión lo inconcebible de lo divino, lo que estaba detrás de todas las afirmaciones teológicas. Todo lo que la teología y la metafísica ofrecían eran sólo indicaciones hacia un Fondo originario mentalmente inconcebible. La pregunta central que me guiaba era siempre: ¿Cuál es el significado de estos cuantos decenios, en los que voy de un lado para otro sobre esta mota de polvo insignificante en medio de este universo ilimitado? Mientras el ser humano no encuentre respuesta a esta pregunta, filosofamos y teologizamos en un espacio hipotético.
Sólo una experiencia en el campo de la consciencia transpersonal me dio una respuesta satisfactoria a ello: Aquí y ahora, en este tiempo limitado, soy una manifestación única, incomparable e inconfundible de ese Fondo originario que he experimentado y experimento como amor. Ese Fondo originario, al que hemos dado nombres como Divinidad, Vacío o Brahma, se festeja a sí mismo, se celebra a sí mismo como esta forma que yo soy. Únicamente en ello encuentro el significado de mi existencia. Y por eso doy un sí absoluto a este tiempo de mi vida, estando completamente convencido que la vida continúa. ¿En qué forma de existencia?, no lo sé.
Mi decisión de ir al convento fue todo menos huir del mundo, más bien fue la forma más radical de un amor apasionado. Ese amor incluye a todos y a todo, y salva a todo el mundo con su benevolencia. Durante mis estudios encontré en la biblioteca los escritos de Teresa de Ávila, Juan de la Cruz y las de un místico inglés, cuyo nombre no conocemos, que nos ha dejado “La nube del no-saber” y “El libro de la orientación particular”. El autor aconseja dirigir la mente hacia una palabra-guía o un foco, tales como, Dios o Amor.
Se trata de usar esa palabra como lanza y foco para entrar en capas más profundas del alma. Aconseja parar de pensar en Dios para enterrar el entendimiento, la memoria y los sentimientos bajo la nube del olvido. En esa palabra-guía se recoge la consciencia y actúa como un compás que lleva la dirección en la oscuridad.
También el místico Juan de la Cruz fue un maestro importante que dejó tras de sí toda imagen e idea intelectual de Dios. La palabra “Dios”, que saqué como foco de “La nube del no-saber”, se unió a mí de forma muy natural con la respiración.
Seguí unos años por este camino y de repente llegué a una experiencia profunda, que en occidente llamamos experiencia mística. Ésta me condujo más allá del concepto “Dios”. Esta experiencia no se diferenció en nada de la que hice más tarde en el camino del Zen, y que mi maestro Yamada Kôun Roshi me confirmó como kensho.
Hay un nivel humano-general, independiente del origen, sexo y confesión. Es el nivel que en todas las experiencias espirituales lleva a la no-dualidad transpersonal del Ser, que en el Zen se llama Vacío. El Zen tiene la ventaja sobre los demás caminos espirituales de ser radical y absoluto. Pero la profundidad de la experiencia es la misma en cada persona que irrumpe en ella, la misma que Teresa de Ávila muestra en las “Moradas Séptimas” de la descripción de su vida: “Es como si cayendo agua del cielo en un río o fuente, adonde queda hecho todo agua, que no podrán ya dividir ni apartar cuál es el agua del río, o lo que cayó del cielo.”
Después de la ordenación sacerdotal llevé durante dos decenios una vida pastoral muy activa. Trabajé siete años como profesor de Instituto de Bachillerato y como monitor de jóvenes en un internado. A continuación trabajé en las obras eclesiales para la ayuda al desarrollo Missio y Misereor y cuatro años en la Sede de la Juventud Católica de Düsseldorf. Aún con toda mi actividad sentí como interiormente cada vez estaba más vacío y así empecé a ir de nuevo por el camino descrito anteriormente.
A pesar de la actividad pastoral, que me llevaba mucho tiempo, empecé con la práctica contemplativa cada mañana de seis a siete y media y entonces volvió la experiencia. Poco a poco apareció de nuevo lo que en el Budismo se denomina samadhi, o lo que Teresa de Ávila llama oración de quietud. Es la experiencia del Fondo originario permanente que juega un papel fundamental en todas las decisiones.
En 1971 asistí a un cursillo de Zen del Padre E. Lassalle que se impartió en mi convento de Münsterschwarzach. Entraba por primera vez en contacto con el Zen, e inmediatamente vi claro que ese era el camino que tenía que seguir y que me llevaría a mi profundidad y con ello al Fondo originario divino de todo ser.
Empecé de nuevo a sentarme en silencio con regularidad y pronto percibí que iba por la pista correcta. Dos sesshin con Brigitte D’Ortschy Roshi me enseñaron que sólo una gran decisión y una última consecuencia podían proporcionarme una apertura nueva. Cuando mi Orden me ofreció la posibilidad de ir a Japón, a fundar un nuevo monasterio, vi en ello la providencia divina. Dejé mi trabajo de Missio en su punto culminante, bajo la incomprensión de muchos de mis amigos, para vivir en una comunidad benedictina nueva de Kamakura y practicar Zen con Yamada Kôun Roshi, al que había conocido en 1971 en Múnich. ¿Casualidad o destino?, el monasterio debía ser fundado en la misma ciudad que Yamada Kôun Roshi tenía su centro.
Practiqué tres años con el “Mu”, como lo indica la práctica Zen. Este ejercicio apenas se diferenciaba de mi ejercicio anterior con la palabra “Dios”. Pero esta vez tenía un guía experto que me libraba de algunos rodeos. Poco a poco volvieron mis experiencias profundas anteriores. Con cada sesshin sentí el progreso. Era como el abrirse vacilante y paulatino de una flor, hasta que una noche después de un sesshin desperté y los últimos pétalos de la flor se abrieron de golpe como impulsados por una fuerza interior. Sólo había Vacío, la “Nada, Nada, Nada…” de Juan de la Cruz. Del Vacío brotaba el momento: sólo esta respiración, y al ponerme en pie, sólo este paso. Yamada Roshi reconoció esta experiencia como kensho.
Cuando después de unos días me senté a articular lo que había experimentado, escribí algunas palabras: amor, vacío, plenitud, unidad, felicidad. Cuando más tarde leí estas palabras, estaba conmovido. Si alguien cualquiera me hubiese preguntado ¿Qué entiendes tú por “Dios”?, le hubiera contestado en terminología occidental: “lo que llamamos Dios es el Vacío absoluto, que se muestra como amor, plenitud, unidad y felicidad absolutos”. Eso es lo que había experimentado.
Cada día practicaba de seis a ocho horas Za-Zen, trabajaba dos horas en el área del templo y escribía un libro durante algunas horas. También pasé seis meses en una ermita aislado. Mi visión del mundo y mi comprensión cristiana habían cambiado. Me percibía completamente dispuesto al Fondo originario del ser divino, al que ahora prefería llamar Vacío y Nada. Estaba libre de todas las ideas sobre ese Fondo originario. Permanecer en la quietud absoluta, en samadhi, no me parecía ni lujo ni pasatiempo, sino una fuerza transformadora que sirve a toda la humanidad. El caminar consciente me llevaba al aquí y ahora y a la certeza de que el sentido de la vida sólo se encuentra en el momento presente.
¿Cuál es entonces ese nivel de nuestro ser humano? Con Juan de la Cruz puedo responder: “Y éste es el deleite grande de este recuerdo: conocer por Dios las criaturas y no por las criaturas a Dios; que es conocer los efectos por su causa y no la causa por los efectos, que es conocimiento trasero, y esotro esencial”.
Traducido al lenguaje del Zen sería: “Reconocer la forma a través del Vacío y no a través de la forma el Vacío” En otro lugar Juan dice: “Porque el alma en ese estado se une y siente con Dios, como todas las cosas son Dios.” Todas las cosas son Vacío y forma. Como seres humanos estamos siempre a ese nivel pero nuestro yo nos lo tapa. Me sorprendió como el lenguaje de Juan de la Cruz y del Maestro Eckhart expresan la misma experiencia que el Zen. El Maestro Eckhart dice: “Cuando yo llego al Fondo y al Lecho, al Riachuelo y a la Fuente de la Deidad, nadie me pregunta de dónde vengo, ni dónde he estado. Allí, nadie se ha percatado de mi ausencia, pues es allí donde “Dios” desaparece.” Pero como el entendimiento no lo comprende, el Maestro Eckhart sigue: “Si alguien ha comprendido este sermón, lo celebro por él. Si no hubiese habido nadie aquí, tendría que haberlo predicado a este cepillo de las ofrendas.” Y este conocimiento me volvió a la vida a impartir cursillos.
El amor que no puede excluir a nadie ni nada es la fuerza motriz en el camino, que forzosamente también tiene que llevar por la duda y el sufrimiento, hasta que al fin hemos llegado. La “noche oscura” de Juan de la Cruz informa de la necesidad de una experiencia de crisis que retire toda la seguridad y el autoengaño, que nos vacíe y abra a la entrega y amor absolutos. En el caos se halla la fuerza ordenadora para lo nuevo. La flor de loto crece del barro. Ambas cosas son inseparables. Del sufrimiento muchas veces crece lo nuevo.
En este camino también aprendí a tratar mis emociones. La cólera, que nos quiere poseer como un huracán, no es reprimida sino simplemente percibida y experimentada como “mi cólera”, que no tiene nada que ver con él que la provoca. Entonces la cólera recibe otra cualidad y podemos reconocer el verdadero motivo sin ser dominados por ella. Algo semejante es la aceptación del sufrimiento que no se puede evitar. Si conseguimos aceptar lo doloroso, al final se transforma en serenidad y sabiduría.
Practiqué el volver siempre a mi respiración en situaciones difíciles. Cuando en el trabajo estaba con prisas, siempre me concedía unos minutos de tranquilidad y relajación. Esto no es una pérdida de tiempo sino, más bien, concentración de fuerzas para el trabajo que nos espera.
Una experiencia cercana a la muerte dio a mi vida un acento decisivo. Mi corazón se paró un tiempo debido a la intolerancia de un medicamento. De repente me encontré en un nivel nuevo de experiencia. Aquí ya no había un yo, únicamente amor, estar completamente acogido y unidad. Cuando volvió mi yo, quise volver a toda costa a esa unidad amorosa y estaba dispuesto a morir. Pero un amoroso, benevolente y alegre ser en frente de mí me aclaró: “No puedes querer, tienes que esperar hasta ser llamado.” Durante dos días permanecí en esa unidad y amor racionalmente incomprensibles. Desde entonces ha desaparecido mi miedo a la muerte. No se me informó como será después de la muerte. Pero algo me quedó claro: la vida no acaba nunca. Con esa seguridad escribí el libro “La vida no termina nunca” y grabé el CD “La muerte no existe”.
Después de esa experiencia me quedó la certeza: cuando muera volveré a ese amor infinito, sin ninguna limitación del yo. Y ese amor es el Fondo originario de todo ser. Nuestro yo, con todas sus costras y cuños egoístas, lo tapa continuamente. Entendí que como personas no avanzaremos si no conseguimos crecer en ese nivel de la experiencia del amor incondicional.
Esa experiencia no se consigue con la voluntad o la acción, sino únicamente entrando en nuestro siempre presente Ser auténtico, que significa lo mismo que Amor. Ello se celebra a sí mismo como lo que somos. A fin de cuentas no se nos pide más que un sí al momento presente de esta vida que vivimos.
Esa experiencia significa un sí al cuerpo, que en el ascetismo cristiano muchas veces se humilló y despreció. La verdadera vida se traspasó a una existencia después de la muerte. Pero ese Fondo originario Amor se celebra como lo que somos en este momento. Con esta experiencia este par de decenios de vida reciben su verdadero sentido. Cada momento es una manifestación, un rito en el que ese Fondo originario racionalmente incomprensible se celebra a sí mismo.
La vejez nos ofrece la última posibilidad para nuestro proceso de maduración humano. Es la última etapa y por ello una fase decisiva en la vida, una ocasión de crecer una vez más, de madurar y abrazar todo con amor. Todavía estamos deviniendo. Se trata de consumar nuestro nacimiento. Ese tiempo es sobre todo un camino hacia dentro. El papel que he tenido como persona – como profesor, sacerdote, ponente, escritor, Maestro Zen – se hace relativo. Como figura de juego del jugador grandioso “Dios” pronto seré sacado del tablero. La vida no termina nunca. Yo suelto creyendo en la promesa de Jesús, que en casa del Padre hay muchas moradas. No sé si puedo llevar algo de esta estructura personal. Tampoco es importante. En este universo hay miles de millones de posibilidades de existencia. Y seguro que también hay miles de millones de posibilidades de transformación. De momento nadie se puede imaginar que de una crisálida poco vistosa se haga una mariposa espléndida. ¿Por qué no podría traer una resurrección algo completamente nuevo? La vida no termina nunca.
El Amor es la quintaesencia de mi vida, a la que paso revista lleno de agradecimiento. Pero no es el amor del “te amo” y “me amas”. Es el Amor que no excluye al asesino y al criminal. Deleite, ternura y sensación de bienestar son sólo sucesos que señalan hacia un nivel de experiencia mucho más amplio. Ese nivel es como el océano al que siempre puedo volver de nuevo. Aquí me siento en casa, aún cuando como ola me quieran acometer los problemas, la duda, el enfado y el miedo. Es mi lugar de refugio y punto de partida. No necesito buscarle, simplemente miro hacia dentro. En ese Fondo originario siempre estoy en casa. Allí el miedo y la duda me abandonan. Es el lugar que el maestro Eckhart ha descrito tan maravillosamente. Por eso quiero citarle de nuevo como final: “Cuando yo llego al Fondo y al Lecho, al Riachuelo y a la Fuente de la Deidad, nadie me pregunta de dónde vengo, ni dónde he estado. Allí, nadie se ha percatado de mi ausencia, pues es allí donde ‘Dios’ desaparece.” De ahí recibe la vida su último sentido.

La Contemplación, como la vive y enseña Willigis Jäger


En su expresión radicalmente monista y no-dual y siguiendo la tradición cristiana, la Contemplación fue recuperada y renovada, entre otros, por Willigis Jäger. Evoluciona teniendo en cuenta las circunstancias del siglo XXI. Las personas que practican la oración contemplativa hoy en día, no son monjes o monjas de antaño. Muchas de estas personas están casadas, ejercen una profesión y persiguen objetivos en su vida. A todas ellas se les ofrece esta forma de oración a través de cursillos. La Contemplación es un camino espiritual para todo aquél dispuesto a emprenderlo. Se trata de una profunda experiencia del Ser que supera lo racional y lo personal.
La Contemplación, como la vive y enseña Willigis Jäger, es la expresión occidental de la sabiduría espiritual como la conocen y enseñan las religiones tradicionales desde hace milenios. Guarda relación con los métodos de aprendizaje de otras religiones superiores, incluidas las de Oriente. Su objetivo principal es la experiencia de un espacio de conciencia que supere la concentración en el Yo y que nos pueda llevar hacia una experiencia infinita y no espacial del vacío; hacia la verdadera razón de nuestra existencia.
En este sentido, la Contemplación es, junto al Zen, una parte importante de la "Sabiduría Oriental y Occidental", la Fundación creada por Willigis Jäger para la investigación y práctica de los caminos espirituales orientales y occidentales.

 

Contemplación,

el camino místico olvidado por los cristianos
Willigis Jager O.S.B.




En el marco entrañable del convento de San Juan de la Cruz de Segovia, en una tarde soleada y apacible, nos recibe el P. Willigis Jager en el despacho de amplio ventanal. El aire está impregnado de fragancia de mirra. El P. Jager ya es conocido en nuestro país desde el año 1982, cuando por primera vez vino a dar un curso. Es autor de varios libros y escritos. Traducidos al español hay: "La oración contemplativa según san Juan de la Cruz" (Edit. Obelisco) y "Contemplación, encontrar a Dios hoy" (Edit. Narcea, Madrid). En preparación: "En busca del sentido de la vida".

El P. Willigis reúne en sí las características de ser monje benedictino y a la vez maestro Zen, discípulo de Yamada Roshi.

¿Como definiría usted la contemplación?

Toda religión, aparte de sus enseñanzas, rituales y liturgia, o sea, de los elementos esotéricos, conoce un camino a la experiencia, es decir, un camino esotérico. Y en el cristianismo, durante toda la Edad Media, se utilizó el término "contemplación" para el sendero que conducir a la experiencia de lo divino. Diferenciamos entre tres grados en la oración cristiana:
1.- La oración verbal: oratio.
2.- La oración meditativa: meditatio.
3.- La oración contemplativa: contemplatio.
La última forma de oración se enseñó hasta bien entrada la Alta Edad Media.
¿Quiénes la practicaban?
Los grandes místicos de Occidente, como por ejemplo, Casiano, Evagrio Pontico, Dionisio, Buenaventura, el maestro Eckehart, Hugo de san Víctor, los autores de la "Filocalia" y de la "Nube del no-saber" respectivamente, Teresa de Jesús, San Juan de la Cruz, Madame Guyon...
No menciona usted a Ignacio de Loyola, cuyos ejercicios son tan extendidos hasta hoy en la Iglesia Católica.
No, no le menciono porque él abandonó la tradición, entendiendo por contemplación también una oración que incluye la imaginación, las representaciones, que pertenecen al ámbito de la meditación.
¿Cual es la diferencia entre meditación y contemplación?
Hoy en día, lamentablemente, ya no se utilizan estos dos términos en sus formas originales. La meditación, según la clasificación tradicional, se refiere a los dones intelectuales y sensuales del ser humano: la razón, los sentimientos y los sentidos, ocupándose de imágenes, palabras y metáforas que estimulan las potencias del alma. Pero los que se encaminan a la contemplación han de dejar atrás la meditación durante este ejercicio. Por otro lado, se da por supuesto que los que se dediquen a la contemplación ya han practicado intensamente las otras dos formas de oración. La contemplación únicamente es posible cuando queden calladas la razón, la memoria y la voluntad. Todas las potencias del alma están aquí pasivas. Ninguna idea o contenido serán admitidos, incluso habrá que abandonar todas las visiones, pensamientos e ideas religiosas. Contemplación es un "puro mirar"; algo le va sucediendo al orante. Se trata de despertar el verdadero ser divino.
¿Que tipo de instrucción para la oración contemplativa dieron los anteriormente citados místicos?
San Juan de la Cruz, en su libro "Llama de amor viva" (III,36) escribe, por ejemplo, que en cuanto el alma comience a entrar en ese estado sencillo y sereno de la contemplación, agotándosele la meditación, nunca deber intentar figurarse cualesquiera meditaciones o agarrarse a consolaciones espirituales.
En relación a esto, ¿cómo ve Vd. los caminos espirituales de Oriente?
Los caminos esotéricos de Oriente, como son el Vipassana, el Zen, y algunas formas de Yoga, tienen un gran parecido con la contemplación. Las instrucciones básicas se asemejan mucho. La contemplación, en su sentido puro, es un camino paralelo a dichas formas orientales y, en mi opinión, debería volver a utilizarse este término en su concepto clásico dentro del ámbito cristiano.
Háblenos un poco más de las clasificaciones de la oración cristiana.
Bien, pues tenemos, además, la clasificación de la oración apofática y de la catafática (Apo=fuera; Kata=correspondiente; Phatis=discurso, palabra). La espiritualidad catafática utiliza contenidos de la consciencia, o sea, imágenes, símbolos, ideas, conceptos, creyendo que el ser humano los necesita para poder acercarse a Dios.
La espiritualidad apofática equivale a la contemplación, siendo orientada a la consciencia pura, vacía, con el fin de que lo divino pueda llegar a manifestarse en ella. Los contenidos se consideran aquí un obstáculo. Mientras la consciencia quede apegada a imágenes o conceptos, aún no se ha llegado allí donde tiene lugar la verdadera experiencia de Dios, pues éstos oscurecen lo divino.
En su opinión, ¿hay muchos cristianos que practican la contemplación?
La gran mayoría de los cristianos, igual que la mayoría de las personas de las demás grandes religiones, va por el camino catafático, o sea, se sirve de imágenes, ideas, palabras. Por esto, la espiritualidad catafática desempeña un papel fundamental en todas las religiones. Y éstas necesitan las imágenes, los conceptos, porque sin ellos no se puede comunicar ninguna fe; pero, por otro lado, se corre el peligro de conferirles demasiada importancia.
¿Cómo ve Vd. la mística frente a la teología?
Bueno, la mística y la teología son los dos pilares de la religión y únicamente cuando ambos existen altamente desarrollados y en equilibrio, la vida religiosa florece de veras. Por eso, para la mística, la contemplación ha sido la verdadera meta de la pedagogía de la fe. Pero tengo que añadir que la mística o, lo que es lo mismo, la espiritualidad apofática, ha sido considerada por la Institución como algo sospechoso. No le faltó razón a veces, especialmente cada vez que el camino místico se volvió en alto grado antiteológico o incluso anti-intelectual, llegando a caer incluso en lo para-psicológico.
¿Quiénes están llamados al camino de la contemplación?
En los últimos siglos se creyó que solamente "algunas personas escogidas" eran aptas para tener una experiencia mística y, hasta hace muy poco, en los mismos conventos fue necesario tener un permiso especial para poder leer los escritos de San Juan de la Cruz o del maestro Eckhart, aunque los místicos mismos recomiendan esta forma de oración a todo el mundo, en especial a los religiosos. Madame Guyon, por ejemplo, escribe: "Todos son aptos para la oración interior. Es una gran desgracia que la mayoría de la gente cree no estar llamada a ella. Pero lo estamos todos, igual que lo estamos a la redención".
Y San Juan de la Cruz escribe en el prólogo a la "Subida al Monte Carmelo" que ese libro trata de cómo podrá prepararse el alma para unirse con Dios rápidamente, asimismo de las diferentes maneras e instrucciones para principiantes y adelantados. Y en el cap. II, 15,4 pasa a decir que está convencido de que todo el mundo posee las condiciones necesarias para ello, puesto que esa luz (de la contemplación) nunca le falta al alma, pero que debido a las imágenes creadas y a los velos que tapan el alma, no entran en ella.
Para Luis Blosius, benedictino del siglo XIV de Francia, el estado de la contemplación es, por lo menos para todo religioso, lo más natural del mundo. Y llega a decir que si esta perfección le parece demasiado alta a alguien, esa persona, para él, no es ningún monje.
¿Cree Usted que la contemplación es lo suficientemente conocida entre los guías y directores espirituales cristianos?
No, lamentablemente no, y habrá que preguntarse el motivo. Sorprende, por ejemplo, ver que en todas las publicaciones con motivo del 400 aniversario de San Juan de la Cruz (1591-1991), no se encuentra nada referente a la práctica de su camino de contemplación. Hoy día, muchos cristianos se dirigen hacia Oriente en busca de caminos esotéricos, porque en el cristianismo no encuentran las instrucciones necesarias. Hay quienes han abandonado la Iglesia, uniéndose a grupos esotéricos libres. Hay muchas más personas místicas de lo que la Institución se puede imaginar.
¿Nos puede decir algo más acerca de las prácticas tradicionales cristianas?
Hay ciertas estructuras básicas en la mística que son iguales en todas las religiones. O bien se recomienda la concentración de la consciencia mediante una imagen, un sonido, una palabra, la respiración, la luz, o sea, mediante un contenido como foco donde se concentre la consciencia, o bien la mantienen libre de cualquier contenido o estructura, ya sea ésta de índole material, psíquica o intelectual.
Hablaré primeramente de la concentración de la consciencia.
Los monjes, desde siempre, han conocido la interiorización con ayuda de la respiración. Recomiendo a este respecto la lectura del libro La Filocalia que describe la vida oracional de los monjes de la Iglesia Oriental.
Aparte de esto, siempre se ha considerado importantísimo sentarse durante largos períodos en quietud. Esto podrá hacerse en un banco de una iglesia, en casa en una silla, en un banquillo, o sobre los talones. El citado libro de la Filocalia también describe este ejercicio.
Luego tenemos el ejercicio con una palabra. Casiano, que nos cuenta la vida y oraciones de los eremitas y cenobitas del desierto, describe este ejercicio ampliamente y recomienda la frase: "Oh Dios, ven en mi ayuda, Señor, date prisa en socorrerme" (1). A este respecto recomiendo la lectura de sus "Colationes X".
La "oración continua" que nos recomienda Jesús (Lc 18,1) únicamente puede tener lugar en el nivel contemplativo cuando, después de haber practicado durante un período largo, "está rezando en la persona", habiéndose formado un hábito en el alma que una y otra vez vuelve a conducir a la experiencia de la oración. La "buena opinión" que muchos cristianos practican, no es suficiente para ello.
El autor de "La Nube del No Saber", en los capítulos 7,36,37 y 39, da instrucciones para el uso de la palabra en la contemplación.
Cuando se haya progresado hasta cierto punto en la oración, ya no se observa la respiración, sino el sonido. Habrá que "cantar" interiormente, por así decir, la vocal, conduciendo ésta la respiración. La meta consiste en hacerse uno con la palabra, mejor dicho, con el proceso de "cantarla" o pronunciarla interiormente. Hay que volverse el sonido mismo, entonces se va sosegando el fuero interno. La consciencia queda concentrada en la palabra o en la vocal, con lo cual se consigue el desprendimiento de todo lo demás.
La contemplación cristiana siempre va acompañada de entrega y amor (caridad). Nuevamente remito aquí al libro de la Nube del no-saber, cuyo autor recomienda cargar la palabra con entrega, amor y confianza. Esto, únicamente en apariencia contradice la indicación de no quedarse apegados a los sentimientos. Tanto el amor, como la entrega y el anhelo son emociones básicas de nuestra alma perfectamente aptas para acompañar la palabra. Nos orientan y sirven para el recogimiento. Alguien que tiene sed, no tendrá que pensar en agua, pues está completamente impregnado de las ganas de beber agua. Lo mismo ocurre con el amor. Quien ama de veras, quien tiene nostalgia y quien se entrega, no está distraído...
Pero no hay que sorprenderse ante la falta de tales sentimientos. El camino lleva por largos trechos de sequedad, por el desierto y la noche, como nos lo dicen los místicos. Y justamente entonces es fundamental seguir con la oración, aunque la sequedad frustrante nos invada. La sequedad se encuentra en el nivel personal de la afectividad. Es nuestro yo que se frustra, y a ese yo habrá que abandonarle de todas formas. La sequedad para la mística es, por lo tanto, un instrumento y una ayuda de Dios en el proceso del desprendimiento.
Referente al ejercicio del vaciamiento de la consciencia, el autor de "la Nube del no-saber" habla de la percepción del propio ser. En el transcurso del ejercicio, se llegar a percibir un fondo donde harán su apariencia pensamientos, sentimientos e intenciones. Los pensamientos y los sentimientos se originan allí, pero no son el fondo más profundo. El citado autor denomina este fondo el Ser. Sus instrucciones a este respecto me parecen ser las más importantes de su libro. El mirar al Señor es un ejercicio que se practica en muchos caminos místicos, aún y cuando se le dan diferentes nombres. La meta siempre consiste en el vaciamiento de la consciencia, pero no por el vacío en sí, sino porque tan sólo en el vacío podrá manifestarse genuinamente la plenitud de Dios, pues el ojo tendrá que ser incoloro para poder mirar el color auténtico. Uno se desprende de pensamientos, sentimientos e impulsos de la voluntad; El ser humano se parece a un espejo que refleja todo sin identificarse con nada.
En este estado aún quedan dos: un yo que experimenta y aquello que es experimentado. Seguir adelante a partir de aquí resulta realmente muy difícil. La meta consiste en abandonar el yo para experimentar exclusivamente el Ser de Dios. Y esto no se consigue mediante un acto de voluntad. No queda otra cosa que seguir fielmente con el ejercicio. Las instrucciones siguen siendo las mismas que antes: ¡Mantente en el ejercicio! ¡Húndete en él! Entonces podrás recibir el don de la experiencia. Una auténtica experiencia mística es algo que nos ocurre, nunca la podremos producir.
¿Nos podría decir algo acerca del camino de la contemplación de los Padres del Desierto?
El Padre Juan Casiano resume el sendero de la oración contemplativa con las palabras "pureza de corazón". Corazón, para él, es la capacidad básica del conocimiento, mejor dicho, de la experiencia. Es esa chispa del alma con la que no solamente experimentamos nuestra auténtica vida divina, sino que es esa vida divina misma. La experiencia no se alcanza con el discurrir o por medio de palabras que se queden en la memoria. (Véase a este respecto el prólogo de sus Colationes).
El camino a la experiencia llega a través del saber del camino, a través de la "praktik‚" Esta se divide en tres apartados:
- El trabajo en el hombre interior (lucha contra el pecado)
- El servicio en pro de los hermanos
- El volverse igual a Cristo
La primera meta que se deber alcanzar es la pureza del corazón. La contemplación es la meta verdadera y última de toda vida monástica. Pero siempre ser un don y nunca depende de la voluntad. Por ello, la meta más cercana a la que se aspira, es la pureza del corazón (puritas cordis). (Colationes I,4 y I,7).
El proceso de liberación, que más tarde llamaría san Juan de la Cruz la purificación activa y pasiva, es un proceso psicoespiritual que, en primer lugar tiene que ver con el trabajo de las perturbaciones psíquicas, como por ejemplo, los traumas infantiles, los esquemas inculcados en la educación y los trastornos diversos en el inconsciente personal. Además, purificación también significa liberación de todo dominio de los impulsos.
De entre los Padres del Desierto destaca sobre todo el monje Evagrio Póntico, quién ha influido grandemente en la mística cristiana. Referente a la oración, nos habla en especial de dos grandes Padres del Desierto, ambos de nombre Macario. Recomienda "darse totalmente a la oración sin tener en cuenta ni las preocupaciones ni los pensamientos que surjan en el transcurso. Lo único que consiguen en ti es molestarte e intranquilizarte para finalmente tambalear tu orientación tan decidida".
La importancia de Evagrio Póntico estriba en su claridad. La contemplación es atención pura. La persona auténticamente contemplativa ve el lugar de Dios. Asimismo, Evagrio Póntico aconseja quedarse durante períodos largos, sin interrupciones, en el ejercicio de la oración. Dice: "Cuando estés en oración, no te preocupes de las necesidades de tu cuerpo, porque si lo haces, podrías dañar ese don inigualable que se te da en la oración debido a una picadura de una pulga, de un piojo o de un mosquito".
El centro de la contemplación siempre lo constituye la ausencia de imágenes e ideas, y Evagrio Póntico dice al respecto: "Cuando ores no te imagines a la divinidad bajo una misma imagen. Mantén tu mente libre de cualesquiera formas y acércate al Ser inmaterial sin ninguna materia, pues únicamente así lo conocerás".
El camino del ejercicio consiste en la transformación y maduración hacia alcanzar un estado mental completamente receptivo. Para los monjes, Jesús es el orante místico perfecto. Su oración en el monte y en la soledad era la "apateia", el mirar a Dios. Según Casiano, los monjes deberían mantenerse en la oración de la misma manera que lo hiciera Jesús cuando se encontraba en el estado de la experiencia profunda de lo que él llamó "Padre" al estar orando en el monte. Y Casiano critica a los mojes que no saben orar sin representarse algún tipo de imagen.
¿Porqué y cómo se produjo el declive de la mística?.
Hasta hace unos 200 años, la contemplación solía formar parte de la pedagogía de oración. Quisiera citar aquí a Thomas Keating, abad cisterciense de los EE.UU., que en un resumen de la historia de la contemplación, cita los diversos motivos que han influido en el hecho de que esto ya no sea así:
  • La desgraciada tendencia a rebajar los "ejercicios espirituales" (Ignacio de Loyola) a un método de meditación discursiva.
  • El enfrentamiento de la Iglesia establecida con el Quietismo y su radical condena de esta corriente. La pedagogía del Quietismo consiste en un dejar hacer pasivo y en abandonarse a la guía de la gracia. Esto, en la Institución generó un miedo latente ante toda mística, haciendo que cayera en descrédito.
  • El Jansenismo y sus influencias. El Jansenismo se acerca mucho al Determinismo: el ser humano está predestinado y poco puede hacer para cambiar esta condición. Dios escoge a la persona y le concede la gracia de actuar bien, obrando así su redención.
  • La sobrevaloración de las visiones y revelaciones privadas y la consecuente desvalorización de la liturgia.
  • El confundir la auténtica naturaleza de la contemplación con fenómenos como la levitación, el hablar en lenguas, los estigmas y las visiones.
  • El confundir la mística con la beatería.
  • La desfiguración de la imagen de los místicos y la equiparación de la mística con un ascetismo divorciado de la realidad.
  • El incremento del legalismo de la Iglesia Romana.
Aparte de esto, dice Keating, la erradicación de la contemplación fue definitiva cuando se llegó a afirmar que era una temeridad aspirar a la oración contemplativa.
Alentados por los caminos esotéricos de Oriente, muchos cristianos de nuestros días vuelven a acordarse de su propia tradición. Pero su interés no estriba en disertaciones teoréticas sobre místicos, sino en los caminos a la experiencia que éstos nos legaron.
Padre Jaeger, le agradecemos esta entrevista y esperamos que la contemplación vuelva a tener su lugar perdido en la pedagogía de la oración cristiana.
__________________________________
(1)- Naturalmente la recitación se hacía en griego, o en alguno de los idiomas antiguos, de manera que la frase quedaba mucho mas compactada; algo parecido a lo que puede ser "Kyrie Eleison". Todo esto nos llevaría a cuestionar el valor de las lenguas actuales para la oración... pero este es otro tema que merecería todo un estudio; quizás más adelante... (N.D.R) (volver)

 http://www.abandono.com/rincones/Textos0004.htm

“La oración” – Juan Taulero

Sermón 13: “La oración” – Juan Taulero

 

De acuerdo con www.domenicos.org
Presentamos un sermón o tratadito sobre la oración: su práctica, las condiciones que ella requiere para ser fecunda, y tres grados en la consiguiente elevación de espíritu.
El texto corresponde al sermón 13 de Juan Taulero, con levísimas modificaciones en la redacción castellana, y suprimiendo algún parrafito accidental. Dicho sermón se pronunció con ocasión de exponer un versículo de la Carta Primera de san Pedro que dice: Tened los mismos sentimientos de oración (I P 3,8).

Método de oración: Desplegar velas y elevarse a Dios

Tened los mismos sentimientos de oración (1 P 3,8)
“En la carta primera de San Pedro leemos: "Permaneced unánimes en la oración".
Al escribir estas palabras, san Pedro se refiere a lo más útil, más deleitable y más noble entre nuestras obras: Orar. No hay cosa más provechosa y amable que podamos hacer en el tiempo…
En esta consideración trataremos de fomentar la vida de oración. Para ello, sabiendo que … orar es esencialmente elevarse a Dios en el fondo del alma…, nos proponemos hablar brevemente, en tres párrafos, sobre el modo de disponernos para hacerla, el de comportarnos en su desarrollo, y el de avanzar en su intensidad o grados. “.
Esta primera consideración constará de cuatro puntos:
  • recogimiento,
  • oración de corazón,
  • oración mental,
  • unidad de acción y fruición

Recogimiento, como actitud adecuada para orar

“Todo hombre de bien que quiera orar y examinar el fondo de su alma para orientarse limpiamente hacia Dios, debe comenzar recogiendo sus sentidos y seguir un orden de tres grados -inferior, medio y superior- … para elevarse por el camino adecuado a la más sana y auténtica devoción….
  • Un verdadero orante debe comenzar con una firme actitud, la de volver la espalda a las cosas temporales, a todo lo que no sea divino: amigos y extraños, vanidad de atuendos, juguetes, y cualquiera otra cosa que no esté puramente motivada por Dios. Y, además, asumirá el deber de desechar, en palabras y conducta, todo desorden interior y exterior. Es así como el hombre debe prepararse a la verdadera oración.
  • San Pablo dijo que quien ora ha de tener el alma unificada. Quiso decir con ello que el corazón orante debe estar entera y exclusivamente unido a Dios; y que la mirada del hombre desde su fondo y corazón ha de estar orientada totalmente hacia Dios, y adherirse a El con afecto y generosa unión.
  • Mis amigos, recordemos que es de Dios de quien nos viene todo lo que poseemos. Por tanto, ¿no habremos de devolverle todo cuanto hemos recibido de El? Hagámoslo, con la mirada interior y con el corazón vuelto solamente hacia El, sin compartirlo con nada ni con nadie, siendo cada uno verdaderamente uno {indiviso}.
Así es como el hombre debe desplegar sus facultades interiores y exteriores y elevarlas todas a Dios. Este es el verdadero método de oración”.

Dispuestos a orar, hablen los labios, y vuele el corazón.

“No os imaginéis que es oración musitar preces exteriormente con la boca, recitar un número de salmos, y desgranar el rosario, si con ello dejamos que el corazón divague.
Mirad: cualquier fórmula de oración y cualquier obra que os impida rezar en vuestro corazón dejadlas decididamente a un lado, cualesquiera que sean esas prácticas piadosas, y de cualquier manera que las llaméis, por grandes y buenas que os parezcan, a menos que se trate de las "Horas canónicas" a las que estáis obligados por ley de la Iglesia. Fuera de este caso, dad de mano a las demás, si se convierten en obstáculo para la real y verdadera oración del corazón.
Imaginemos que, por cualquier causa, se impone a unas personas o comunidad una oración vocal larga y fatigante. ¿Cómo debe comportarse una persona a quien esa oración con sus actos exteriores le impide orar interiormente?
Debería, a la vez, hacer y no hacer esta oración. ¿Cómo así?
Debería, principalmente, recogerse en sí mismo, volverse sobre el fondo del alma, elevar su corazón, descubrir sus facultades superiores, contemplar interiormente la presencia de Dios, desear ante todo el cumplimiento de la amable y divina voluntad, desligarse de sí mismo y de todas las criaturas y sumergirse más profundamente en la gloriosa voluntad de Dios.
Y hecho eso, debería dedicarse a centrar allí todas las intenciones que le han sido recomendadas, deseando que Dios cumpla su gloria y alabanza para el provecho y consolación de las gentes que se le han encomendado.
Amigo mío, si oras de esta forma habrás orado mucho mejor que si hubieses recitado con tus labios millones de preces”.

Cultivo de la oración mental.

“La oración mental sobrepasa todas las oraciones vocales, porque el Padre quiere hombres que le adoren así, y, por ello, todos los otros rezos no son sino medios para la oración del espíritu. Todo ha de estar al servicio de la oración y lo que no ayude a esto hay que dejarlo a un lado….
Suponed que más de cien obreros trabajan en la construcción de una catedral. Unos acarreando piedras, otros haciendo argamasa, cada cual realizará su tarea, pero todos los trabajos se encaminarán, unidos, ordenados, a la construcción del edificio: hacer una casa de oración. Pues la oración de corazón ha de ser también razón de todo el maravilloso trabajo que se dé en torno a ella.
Todos los métodos estarán encaminados a ella, a la oración, a la unión con Dios.
Si se ha hecho oración interior, que es la verdadera oración, todo lo conducente a ella habrá resultado provechoso, habrá conseguido su fin.
La oración interior es, pues, superior a la oración exterior, a no ser que hablemos de la oración en alguien que esté tan bien ejercitado en ella que pueda hermanar oración externa y oración interior sin el menor impedimento, actuando y disfrutando a la vez.
Este don es una propiedad de los perfectos, de los bien interiorizados y transfigurados.
En ellos van de la mano acción y gozo, sin que lo uno impida a lo otro, y una y otra oración están elevadas al más alto grado de intensidad sin interferencias”.

Miremos a Dios, pues en su perfección se unen acción y fruición

“En Dios la acción pertenece efectivamente a las personas, y el gozo se atribuye a la esencia en la simplicidad.
El Padre celestial, por su propiedad personal, es pura acción. Todo lo que hay en El es acción, porque, tomando conciencia de sí mismo, engendra a su amado Hijo y ambos en eterno abrazo exhalan el Espíritu Santo. Es la eterna y verdadera acción de las personas divinas. Pero en Dios hay, además, aseidad y simplicidad de esencia, y por ella posee también pacífico y simple gozo en fruición de la esencia divina.
En Dios acción y fruición son una misma cosa”.

El hombre, imagen de Dios, puede ser uno en el gozo

El hombre, criatura privilegiada, ha de actuar al modo del Creador.

“Amigos míos: Dios, de forma semejante a como Él es y actúa, ha dado a toda criatura alguna actividad. Se la ha dado al cielo, al sol, a las estrellas, y en grado más alto a los ángeles y hombres. A cada uno se la ha dado conforme a su naturaleza particular; y no hay nada -ni una florecilla, ni una hojita, ni una brizna de yerba- en la que no influyan el cielo inmenso, las estrellas, el sol y la luna. Y, sobre todo ello, está la acción divina.
¿Cómo, pues, el hombre, criatura noble y digna, hecha a imagen de Dios, no ha de ser activo, él, que ha sido formado en Dios, a su semejanza en cuanto a facultades, y que se le parece por esencia? Su actuación debe ser, sin duda, más noble que la de las criaturas irracionales,… ya que estas son inferiores al ser humano en semejanza con Dios… En cualquier clase de vida en que se encuentre el hombre, por sus facultades el hombre es activo; cada una de sus facultades tiene su propio objeto, y según que este objeto sea Dios o sean las criaturas, así se verán influenciadas …
Dado que tal es la condición humana, si el hombre actúa de suerte que los objetos de sus facultades sean divinos, irá dando la espalda a todas las cosas temporales, y verá cómo sus obras se van haciendo divinas.
Consideremos la noble y adorable alma de nuestro Señor Jesucristo. Ella tuvo siempre, desde el primer instante de su creación, sus facultades superiores objetivamente orientadas hacia la divinidad. Ella tuvo desde el principio la misma felicidad y el mismo gozo que ahora posee. En cambio, sus facultades inferiores estuvieron afectadas por otras influencias de emoción y sufrimientos. Así la suya era una vida mezclada de gozo, acción y pasión. Y cuando nuestro Señor sufrió en la cruz y murió, {aunque en sus facultades inferiores sufría} había en sus facultades superiores el mismo gozo de que ahora disfruta.
Mis amigos, quienes aquí imitan a Cristo con la mayor fidelidad en su aplicación a los temas divinos, forman una sola cosa la acción y el gozo, ésos son los que allí arriba se le parecerán más en felicidad eterna y esencial.
¡Qué daño más espantoso y mortífero se hacen cuantos menosprecian esta obra y no emplean bien sus nobles facultades! Viven en gran peligro… Como hombres vanos y extrovertidos no son capaces de ver que sólo los nobles e íntimos amigos de Dios habitarán eternamente en su gloria. ¡Pobres ellos, ociosos, que viven interna y externamente fuera de Dios y dan ocasión constante al enemigo para tener entrada en ellos!”

Prestancia del hombre interior: su vivir en conciencia

“Volvamos a nuestro propósito. Decimos: El hombre es semejante a Dios cuando puede unir al mismo tiempo acción y gozo. Pero ¿cuándo se alcanza esto? Esto tiene lugar cuando el hombre interior se une íntimamente a Dios, de manera inseparable, por su pureza e intención profunda.
Mas este deseo habitual de Dios no es lo que comúnmente se entiende por ello; difiere de ello como el correr del estar sentado. Ese deseo es un tomar conciencia de Dios presente en el fondo del alma y desearle vivamente. Es conciencia interior que causa gozo al hombre, y, si bajo el impulso de la buena voluntad se aplica a las obras exteriores, según sea necesario, no sale de la conciencia interior más que para volver a ella.
Es así como el hombre interior por la mano, muy sujeto, al hombre exterior. Algo así como el maestro cantero que tiene a sus órdenes a muchos aprendices y operarios; él no trabaja directamente, aparece rara vez por el taller, rápidamente pergeña el plan y la disposición de la obra, que cada cual luego ha de ejecutar. Esta dirección y maestría bastan para considerarle como el autor de todo…La obra se le atribuye por razón de sus órdenes e indicaciones y le es más personal que a cualquiera de los obreros que la han ejecutado.
Eso es exactamente lo que hace el hombre interior y transfigurado. Interiormente está en su gozo y, gracias a la luz de su prudencia, con un golpe de vista supervisa las facultades exteriores y asigna a cada una su tarea, de suerte que no quede ni un punto, por pequeño que fuere, sin concurrir al mismo fin….Así las obras más diversas convergen en la unidad”.

Unidad en la multiplicidad y cuerpo místico

“En la Santa Iglesia hay una unidad de orden que justifica el nombre de cuerpo místico. Es un cuerpo espiritual cuya cabeza es Jesucristo, con múltiples miembros. En él hay un ojo que ve el cuerpo, pero no se ve a sí mismo; hay una boca que come y bebe para el cuerpo, no para sí misma….Cada miembro tiene su función propia y todos pertenecen al solo y único cuerpo bajo una sola cabeza. Es así como en toda la cristiandad no hay obra, por modesta que sea, por ejemplo, el sonido de una campanilla o la llama de un cirio, que no esté vinculadas a la vida interior.
Mis buenos amigos, en este cuerpo místico, cuerpo espiritual, ha de reinar una gran solidaridad… Y si conocemos en el cuerpo místico que otro miembro posee más nobleza que nosotros, le debemos tener en mayor estima que a nosotros mismos, al modo como el brazo y la mano protegen la cabeza, el corazón y el ojo más que a sí mismos.
Pues de forma parecida debería reinar entre los miembros de Dios una caridad tan espontánea que nos alegrásemos con afecto de benevolencia del bien de cada uno de nuestros hermanos, como lo haríamos con la cabeza, el miembro más digno del cuerpo.
Todo lo que el Señor quiera, yo tengo que tomarlo a pecho, como mío propio.
Desde el momento que amo más el bien de mi hermano que el mío, ese bien es más verdaderamente mío que suyo. Si hay algo malo en él, eso le queda, pero el bien que yo amo en él es verdaderamente mío. Que san Pablo tuviera un arrobamiento, es Dios quien lo quiso para él y no para mí. Pero si yo gusto de la voluntad de Dios, ese arrobamiento me es más querido en San Pablo que en mí mismo y una vez que yo le amo verdaderamente en él, el rapto, todo cuanto Dios ha prodigado al Apóstol es también mío, desde el momento en que yo lo amo como si acaeciese en mí….”

He de despojarme de mi forma y revestirme de la de Cristo

“Todo el bien que pertenece a la cabeza y a los miembros del cuerpo,… todo eso se daría real y esencialmente en mí, si yo, bajo la noble cabeza, por el amor, me identificase con la voluntad de Dios y con los otros miembros del cuerpo espiritual…
Si tomamos esa actitud por medida, nos será fácil reconocer si amamos a Dios y su voluntad o nos amamos más bien a nosotros mismos, y en qué medida amamos lo nuestro. Lo que parece oro muchas veces ¿no es escasamente cobre con frecuencia?
Sólo aquellos que han renunciado verdaderamente, como conviene, a su beneficio personal son verdaderos pobres en espíritu, aunque posean todas las cosas.
¡Oh mis amigos! Un amor siempre constante en medio de la alegría o de los sufrimientos se halla rara vez entre la gente”.

Grados de vida interior espiritual

Sois dioses e hijos del Altísimo…
“Mis buenos amigos, hablemos de tres grados de la vida interior: inferior, medio y superior.
El primer grado de la vida interior y virtuosa, que nos conduce derechamente hasta Dios, consiste en que el hombre se entregue por completo a las obras maravillosas en que se manifiestan los inefables dones de Dios, donde El se expande en bondad misteriosa. De ahí nace un estado de alma que llamamos júbilo.
El segundo es tránsito por una pobreza del alma y alejamiento de Dios que dejan al espíritu en doloroso despojo.
El tercero nos eleva al modo de ser deiformes, en la unión del espíritu creado con el espíritu subsistente de Dios. Es lo que se puede llamar una verdadera conversión, y es increíble que quienes lleguen realmente a este punto puedan separarse de Dios”.

Primer grado, incipiente, inferior: de júbilo.

Se llega al primer grado, el júbilo, considerando atentamente los deliciosos testimonios de amor que Dios nos ha prodigado en las maravillas del cielo y de la tierra. Al considerar la abundancia de beneficios que El ha prodigado a nosotros y a todas las criaturas, vemos:
  • cómo todo florece y reverdece, y cómo todo está lleno de Dios,
  • cómo la inconcebible liberalidad de Dios ha expandido sus riquezas sobre toda criatura,
  • cómo Dios ha buscado, soportado y dotado al hombre,
  • cómo El le ha invitado y llamado y con cuánta benignidad le espera,
  • cómo por amor del hombre se ha hecho hombre El mismo, y ha sufrido y ofrecido por nosotros su vida, su alma y todo su ser,
  • cómo nos ha invitado a inefable intimidad con El mismo y cómo la Santísima Trinidad, con gran largueza, espera a este hombre para darse a él en gozo eterno.
El hombre, cuya amorosa mirada penetra en todas estas cosas, siente nacer en el alma grande y viva alegría. La clara visión de amor de estas maravillas hace desbordar su corazón con tales delicias que su cuerpo débil no puede contener la alegría estallante en fenómenos visibles.
Sin ellos, la sangre le saldría por la boca, como ha ocurrido en ocasiones, o bien este hombre se sentiría reventar bajo pesada opresión. Nuestro Señor le llena así de sus dulzuras y en abrazo íntimo, El se le ha unido de modo único. Es así cómo Dios atrae desde un principio al hombre hasta El, invitándole a que salga de sí mismo y despojarse de todo lo que le es disemejante.
Que nadie, pues, se atreva a distraer a los hijos de Dios forzándolos al vértigo del activismo o metiéndolos en la multiplicidad con sobrecarga de prácticas vulgares y obras externas. Podrían extraviarlos…

Segundo grado: asumir con buen espíritu el pan del sufrimiento.

“Viene ahora el segundo grado, al que se accede cuando Dios ha llevado ya al hombre lejos de todas las cosas creadas, y éste ya ha dejado de ser espiritualmente niño.
Dios, después de haber confortado al hombre con el alivio de la dulzura, le da a comer pan de centeno bien duro, porque ha llegado a la madurez. A un adulto la comida sólida y fuerte le es más útil. No tiene más necesidad de leche ni pan blanco.
Se le abre un camino desierto y solitario sobre el cual Dios le despoja de cuanto le había regalado. El hombre entonces queda tan abandonado a sí mismo que ya no sabe nada, absolutamente nada de Dios. Llega a tal angustia que duda de si ha estado alguna vez en el camino recto, si hay Dios para él o le ignora en sus profundos sufrimientos. Tan apremiante es su dolor que la misma amplitud del espacio parece apretarle en asfixia. No hay ningún otro sentimiento de Dios, no sabe ya nada de El, y todas las cosas le disgustan. Es como si estuviese metido entre dos muros con una espada detrás y una lanza acerada por delante.
¿Qué le queda por hacer? No puede ni recular ni avanzar. Que se siente y diga: "Oh Dios, yo te saludo, amarga amargura, llena de todas las gracias".
Amar hasta el extremo y verse privado del bien que se ama le parece una prueba más dolorosa que el infierno, si éste fuese posible en la tierra. Todo lo que se le puede decir a este hombre entonces le consuela como una piedra. Toda conversación sobre criaturas le molesta. La amargura y dolor en tal despojo son tanto más insoportables cuanto su conciencia y sentimiento de Dios habían sido más grandes y profundos.
Vamos. ¡Buen ánimo! El Señor está seguramente muy cerca. Apóyate sobre el tronco de una fe muy viva. Todo irá muy bien enseguida.
Pero en la tortura la pobre alma no puede creer que estas tinieblas insoportables puedan jamás cambiarse en luz.

Tercer grado: Deificación.

“Cuando Nuestro Señor ha preparado a fondo a este hombre con opresión insoportable, por un camino mejor que todas las prácticas que pudieran tener todos los hombres, el Señor viene y conduce a esta alma al tercer grado. Allí le levanta el velo de los ojos y le descubre la verdad. Es el momento en que estalla un sol resplandeciente que ahuyenta su pena por completo. Angustias, miserias, calamidades se disipan, y le parece pasar de la muerte a la vida.
El Señor entonces hace salir al alma de sí misma y la levanta hacia El. Allí la alivia de toda su miseria y cura sus heridas. Dios hace entonces que el hombre transforme del modo humano al modo divino de vivir, y pase de la más grande desolación al gozo incomparable de Dios mismo. En este grado, el hombre queda tan divinizado que todo su ser y actividad es Dios quien lo opera en él.
De tal manera está sobreelevado por encima de sus modos naturales que viene a ser por gracia lo que Dios es esencialmente por su naturaleza. Aquí el hombre tiene la impresión y sentimientos de andar perdido. No sabe, no gusta, no siente más de sí mismo, no tiene conciencia más que de un ser sin división.
Mis amigos, haber llegado hasta aquí es realmente haber tocado las honduras más profundas de un verdadero abajamiento, aniquilación, que ni los sentidos ni la inteligencia pueden alcanzar a comprender. Porque es aquí donde se tiene conciencia, la más verdadera, de la propia nada. Y es aquí donde se ahonda lo más profundamente en el fondo de humildad, porque cuanto más se ha descendido más alto se levanta. Altura y profundidad son aquí la misma realidad.
Si sucediese entonces que el hombre, de un modo y otro, cayese de esa altura por un sentimiento de arrogancia, por cierta usurpación del bien divino, sería ciertamente caída igual a Lucifer. Por esta unión del alma en oración de que nos habla la carta de San Pedro venimos en realidad a hacemos como Dios.
Que tal a todos nos suceda y Dios a ello nos ayude”

segunda-feira, 24 de março de 2014

Lettera Pastorale dell'allora vescovo di Eichstätt (Germania, 1988), Mons. Karl Braun, scritta in occasione del 25° anniversario della pubblicazione della Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia.



Mons. Karl Braun,



Lettera Pastorale dell'allora vescovo di Eichstätt (Germania, 1988),
Mons. Karl Braun, scritta in occasione del 25° anniversario della

pubblicazione della Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia

(Sacrosanctum Concilium)



Eichstätt, 4 dicembre 1988

Ai Sacerdoti e ai Diaconi della diocesi di Eichstätt
in occasione del 25º anniversario della pubblicazione della Costituzione sulla liturgia

Cari Confratelli!

Venticinque anni fa, il 4 dicembre 1963, come primo frutto del Concilio Vaticano II venne pubblicata la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium (SC). Essa costituisce il fondamento di tutti i passi postconciliari nell'ambito della vita liturgica della Chiesa. Traggo spunto dal 25º anniversario di questa Costituzione per richiamare l'attenzione su alcune questioni che mi sembrano importanti nella prospettiva attuale.

1. Con la citata Costituzione i Padri conciliari hanno proseguito su vasta scala la riforma liturgica che Papa Pio XII aveva già iniziato al tempo della seconda guerra mondiale. Con questa decisione essi si proponevano di "far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli" (SC 1; cfr. SC 21).

2. I Padri conciliari erano consapevoli che sarebbe stato possibile realizzare le aspirazioni della Costituzione sulla liturgia soltanto quando "gli stessi pastori d'anime [...] sono penetrati per primi dello spirito e della forza della liturgia, e [...] ne diventano maestri" (SC 14). La celebrazione liturgica ha certamente presupposti e conseguenze. La "vita spirituale" non si esaurisce solo in essa (cfr. SC 12). Comunque la liturgia "è la prima e per di più necessaria sorgente dalla quale i fedeli possano attingere uno spirito veramente cristiano" (SC 14). Per questa ragione noi pastori d'anime dobbiamo curare "con zelo e pazienza la formazione liturgica, come pure la partecipazione attiva dei fedeli, interna ed esterna ..."; in tal modo assolviamo "uno dei principali doveri del fedele dispensatore dei misteri di Dio" (SC 19).

Oltre a tutti gli sforzi per un buon svolgimento esteriore dell'azione liturgica, oggi ci deve stare particolarmente a cuore che i fedeli giungano a una profonda partecipazione interiore all'atto liturgico.
Un incremento delle attività esterne in occasione dell'azione liturgica non può andare a discapito dell'interiorità.
Relativamente alla partecipazione interiore alla santa Eucarestia, la Costituzione desidera che "i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma, comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano istruiti nella parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo l'ostia immacolata, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per mezzo di Cristo mediatore siano perfezionati nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti" (SC 48). È quindi decisivo che i cuori si uniscano a Cristo e che insieme con lui si offrano al Padre. Ogni azione liturgica che non si ponga questo fine, per quanto apparentemente "riuscita" e "rispondente", misconosce la natura della liturgia.
Quindi i pastori d'anime "devono vigilare affinché nell'azione liturgica non solo siano osservate le leggi per la valida e lecita celebrazione, ma che i fedeli vi prendano parte consapevolmente, attivamente e fruttuosamente"(SC 11LEGGERE...

domingo, 23 de março de 2014

S. Ecc. Mons. Athanasius Schneider : Il rito e ogni dettaglio del Santo Sacrificio della Messa deve incentrarsi sulla glorificazione e adorazione di Dio. Le cinque piaghe del Corpo mistico di Cristo liturgico.

Rito della Messa: Forma straordinaria e nuova evangelizzazione

di S. Ecc. Mons. Athanasius Schneider
Foto: Mons. Schneider
L’articolo che segue, di Mons. Athanasius Schneider, il vescovo autore di “Dominus est“, è stato pubblicato sull’edizione dell’estate 2012 di “The Latin Mass“. Il vescovo Schneider esamina i punti di rottura tra la liturgia preconciliare e postconciliare considerandoli vere e proprie “piaghe liturgiche”, anche perché, per la maggior parte, non sono nemmeno previste dalla Sacrosanctum Concilium. Propone anche il ristabilimento di un minimo di continuità, che considera condizione imprescindibile per la nuova evangelizzazione, vista la corrispondenza tra lex orandi e lex credendi.
Volgendo lo sguardo verso Cristo
Per parlare correttamente di nuova evangelizzazione, è necessario in primo luogo a volgere lo sguardo verso Colui che è il vero evangelizzatore, cioè Nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, il Verbo di Dio fatto Uomo. Il Figlio di Dio venne su questa terra per espiare e riparare il più grande peccato, il peccato per eccellenza. E questo peccato, il peccato per eccellenza dell’umanità, consiste nel rifiuto di adorare Dio e nel rifiuto di mantenere per lui il primo posto, il posto d’onore. Questo peccato da parte dell’uomo consiste nel non prestare attenzione a Dio, non avendo più il senso della convenienza delle cose, o anche il senso dei dettagli relativi a Dio e dell’adorazione che gli è dovuta, nel non voler vedere Dio, e nel non voler a inginocchiarsi davanti a Dio.
Per chi ha un tale atteggiamento, l’incarnazione di Dio è una fonte di imbarazzo e di conseguenza anche la presenza reale di Dio nel mistero eucaristico è motivo di imbarazzo, come lo è la centralità della presenza eucaristica di Dio nelle nostre chiese. Infatti l’uomo peccatore vuole il centro della scena per se stesso, sia all’interno della Chiesa che durante la celebrazione eucaristica. Vuole essere visto, per farsi notare.
Per questo motivo Gesù Eucaristia, Dio incarnato, presente nel tabernacolo sotto la forma eucaristica, viene messo da parte. Anche la rappresentazione del Crocifisso sulla croce in mezzo all’altare durante la celebrazione verso il popolo è un imbarazzo, perché potrebbe nascondere il volto del sacerdote. Pertanto, l’immagine del Crocifisso al centro dell’altare, così come Gesù Eucaristia nel tabernacolo nel centro dell’altare, è un imbarazzo. Di conseguenza, la croce e il tabernacolo sono spostati a lato. Durante la messa, l’assemblea deve essere in grado di vedere il volto del sacerdote in ogni momento, e lui si diverte a mettersi letteralmente al centro della casa di Dio… E se per caso Gesù, realmente presente a noi nella Santissima Eucaristia, è ancora lasciato nel suo tabernacolo al centro dell’altare perché il Ministero di monumenti storici, anche in un regime ateo, ha proibito il suo spostamento per la conservazione del patrimonio artistico, il prete, spesso, durante tutta la celebrazione eucaristica, non si fa scrupolo di voltargli le spalle.
Quante volte gli adoratori di Cristo buoni e fedeli, piangendo, hanno gridato, nella loro semplicità e umiltà: “Dio ti benedica, Ministero dei monumenti storici! Almeno ci hanno lasciato Gesù al centro della nostra chiesa “.
La Messa è destinato a dare gloria a Dio, non agli uomini
Solo sulla base dell’adorazione e della glorificazione di Dio la Chiesa può adeguatamente proclamare la parola di verità, vale a dire evangelizzare. Prima che il mondo abbia mai sentito Gesù, il Verbo eterno fatto carne, predicare e annunciare il Regno, Egli ha adorato in silenzio per trenta anni. Questa rimane sempre la legge per la vita della Chiesa e la sua azione, nonché per tutti gli evangelizzatori. “Dal modo in cui viene trattata la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa”, ha detto il cardinale Ratzinger, il nostro attuale Santo Padre Benedetto XVI. Il Concilio Vaticano II ha voluto ricordare alla Chiesa quale realtà e quali azioni sarebbero dovute essere al primo posto nella sua vita.
Per questa ragione la prima parte degli atti del Concilio è stata dedicata alla liturgia. Il Concilio ci dà i seguenti principi: nella Chiesa, e quindi nella liturgia, l’uomo deve essere orientato verso il divino ed essere subordinato ad esso, allo stesso modo il visibile in relazione l’invisibile, l’azione in relazione alla contemplazione, la città presente in relazione a quella futura, a cui aspiriamo (vedi Sacrosanctum Concilium, 2). Secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II nostra liturgia terrena partecipa in anticipo alla liturgia celeste della città santa di Gerusalemme (ibid., 2).
Tutto ciò che riguarda la liturgia della Santa Messa, vale a dire le preghiere di adorazione, di ringraziamento, di espiazione e di petizione che il sommo ed eterno Sacerdote ha presentato al Padre, deve quindi servire a esprimere chiaramente la realtà del sacrificio di Cristo.
La forma straordinaria e la nuova evangelizzazione
Il rito e ogni dettaglio del Santo Sacrificio della Messa deve incentrarsi sulla glorificazione e adorazione di Dio, insistendo sulla centralità della presenza di Cristo, sia nel segno e la rappresentazione del Crocifisso, sia nella sua presenza eucaristica nel tabernacolo, e in particolare al momento della Consacrazione e della Santa Comunione. Più questo è rispettato, meno l’uomo è protagonista nella celebrazione, e tanto meno la celebrazione appare come un cerchio chiuso in se stesso; piuttosto [è un cerchio] aperto a Cristo e avanza verso di lui come in un corteo, con il sacerdote alla sua testa; come una processione liturgica ha il pregio di rispecchiare il sacrificio di adorazione di Cristo crocifisso; i frutti derivanti dalla glorificazione di Dio e ricevuti nelle anime dei presenti saranno più ricchi; Dio li onorerà di più.
Quanto più il sacerdote e i fedeli, nelle celebrazioni eucaristiche, cercano sinceramente la gloria di Dio piuttosto che quella degli uomini e non cercano di ricevere la gloria gli uni dagli altri, più Dio li considererà, concedendo che le loro anime possano partecipare più intensamente e con frutto alla gloria e all’onore della sua vita divina.
Oggi, in vari luoghi della terra, ci sono molte celebrazioni della Santa Messa che, si potrebbe dire, rappresentano un inversione del Salmo 113:9: “Non a te, o Signore, ma al nostro nome dà gloria” [chissà che cosa ne direbbe il Card. Siri! n. d. t.]. A tali celebrazioni si riferiscono le parole di Gesù: “Come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?”(Gv 5:44).
I sei principi della riforma liturgica
Il Concilio Vaticano II stabilì i seguenti principi in merito a una riforma liturgica:
1. Durante la celebrazione liturgica, l’umano, il temporale, e l’azione devono essere diretti verso il divino, l’eterno, e la contemplazione, il ruolo dei primi deve essere subordinato a questi ultimi (Sacrosanctum Concilium, 2).
2. Durante la celebrazione liturgica, dovrà essere incoraggiata la consapevolezza che la liturgia terrena partecipa alla liturgia celeste (Sacrosanctum Concilium, 8).
3. Non ci deve essere assolutamente alcuna innovazione; quindi nessuna nuova creazione dei riti liturgici, in particolare nel rito della Messa, se non per un guadagno vero e certo per la Chiesa, e a condizione che tutto sia fatto con prudenza e, se ciò è garantito, che nuove forme sostituiscano organicamente quelle esistenti (Sacrosanctum Concilium, 23).
4. Il rito della Messa deve essere tale che il sacro sia affrontato in modo più esplicito (Sacrosanctum Concilium, 21).
5. Il latino deve essere conservato nella liturgia, soprattutto alla Santa Messa (Sacrosanctum Concilium, 36 e 54).
6. Il canto gregoriano ha un posto d’onore nella liturgia (Sacrosanctum Concilium, 116).
I Padri conciliari hanno visto le loro proposte di riforma come la continuazione della riforma di san Pio X (Sacrosanctum Concilium 112 e 117) e del servo di Dio Pio XII, anzi, nella Costituzione liturgica, l’Enciclica Mediator Dei di Pio XII è quella citata più spesso.
Tra le altre cose, il Papa Pio XII ha lasciato alla Chiesa un importante principio della dottrina riguardante la Santa Liturgia, vale a dire la condanna di quello che viene chiamato archeologismo liturgico, le cui proposte sono in gran parte sovrapponibili a quelle del sinodo giansenista e tendente al protestantesimo di Pistoia (vedi Mediator Dei, 63-64).
È un dato di fatto che richiamino alla mente il pensiero teologico di Martin Lutero.
Per questa ragione, il Concilio di Trento aveva già condannato le idee liturgiche protestanti, in particolare l’enfasi esagerata sulla nozione di banchetto nella celebrazione eucaristica a scapito del suo carattere sacrificale e la soppressione di segni univoci di sacralità come espressione del mistero della liturgia (Concilio di Trento, sessione 22).
Le dichiarazioni dottrinali del Magistero sulla liturgia, in questo caso quelle del Concilio di Trento e dell’ enciclica Mediator Dei e che si riflettono in una prassi liturgica secolare, o addirittura millenaria, queste dichiarazioni, dico, formano una parte di quell’elemento della Santa Tradizione che non si può abbandonare senza incorrere in gravi danni spirituali. Il Vaticano II ha confermato queste dichiarazioni dottrinali sulla liturgia, come si può vedere leggendo i principi generali del culto divino nella Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium.
Come esempio di errore nel pensiero e nella prassi liturgica, Papa Pio XII cita la proposta di dare all’altare la forma di un tavolo (Mediator Dei 62).
Se già Papa Pio XII rifiutò l’altare a forma di tavolo , si può immaginare quanto più egli avrebbe rifiutato la proposta per una celebrazione attorno a un tavolo versus populum!
Quando la Sacrosanctum Concilium (n. 2) insegna che, nella liturgia, la contemplazione ha la priorità e che tutta la celebrazione deve essere orientata ai misteri celesti (ibid. 2 e 8), riecheggia fedelmente la seguente dichiarazione del Concilio di Trento: “E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza piccoli accorgimenti esteriori, per questa ragione la chiesa, pia madre, ha stabilito alcuni riti, che cioè, qualche tratto nella messa, sia pronunziato a voce bassa, qualche altro a voce più alta. Ha stabilito, similmente, delle cerimonie, come le benedizioni mistiche; usa i lumi, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui venga messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti dei fedeli siano attratte da questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo sacrificio.“(Sessione 25, capitolo 5).
Gli insegnamenti magisteriali della Chiesa citati sopra, in particolare la Mediator Dei, erano certamente riconosciuti come pienamente valida dai Padri del Concilio. Pertanto essi devono continuare ad essere pienamente validi per tutti i figli della Chiesa anche oggi.
Le cinque piaghe del Corpo mistico di Cristo liturgico
Nella lettera a tutti i vescovi della Chiesa cattolica che Benedetto XVI ha inviato il 7 luglio 2007 con il Motu Proprio Summorum Pontificum, il Papa ha fatto la seguente importante dichiarazione: “Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni precedenti era sacro, resta sacro e grande anche per noi.” Nel dire questo, il Papa ha espresso il principio fondamentale della liturgia che hanno insegnato il Concilio di Trento, Papa Pio XII e il Concilio Vaticano II.
Guardando senza pregiudizi e obiettivamente la prassi liturgica della stragrande maggioranza delle chiese di tutto il mondo cattolico in cui viene utilizzata la forma ordinaria del rito romano, nessuno può onestamente negare che i sei principi liturgici del Vaticano II siano costantemente violati, o quasi, nonostante l’affermazione erronea che questa sia la prassi liturgica voluta dal Vaticano II. Ci sono un certo numero di aspetti concreti della prassi liturgica attualmente prevalente nel rito ordinario che rappresentano una rottura vera e propria rispetto ad una pratica liturgica costante e millenaria. Con questo intendo le cinque pratiche liturgiche che citerò a breve, che possono essere definite le cinque piaghe del corpo mistico liturgico di Cristo. Si tratta di ferite, perché costituiscono una rottura violenta con il passato in quanto minimizzano il carattere sacrificale (che in realtà è il carattere centrale ed essenziale della Messa) e propongono l’idea del banchetto. Tutto questo riduce i segni esteriori di adorazione divina, perché mette in evidenza in misura molto minore la dimensione celeste ed eterna del mistero.
Ora le cinque ferite (tranne per le nuove preghiere dell’Offertorio) sono quelli che non sono previsti nella forma ordinaria del rito della Messa, ma sono stati portati in esso attraverso la pratica di una moda deplorevole.
A) La prima e più ovvia ferita è la celebrazione del Sacrificio della Messa in cui il sacerdote celebra con la faccia rivolta verso i fedeli, soprattutto durante la preghiera eucaristica e la consacrazione, il momento più alto e più sacro del culto che è dovuto a Dio. Questa forma esteriore corrisponde, per sua stessa natura, più che altro al modo in cui si insegna in una classe o si condivide un pasto. Siamo in un circolo chiuso. E questa forma assolutamente non è conforme al momento della preghiera, meno ancora a quella di adorazione. Eppure il Vaticano II non ha voluto affatto questa forma, né la stessa è mai stata raccomandata dal Magistero dei Papi dopo il Concilio.
Papa Benedetto XVI ha scritto nella prefazione al primo volume delle sue opere raccolte: “L’idea che il sacerdote e il popolo in preghiera devono guardarsi l’un l’altro reciprocamente è nata solo in età moderna ed è completamente estranea al cristianesimo antico. Infatti, il sacerdote e il popolo non affrontano la loro preghiera gli uni verso gli altri, ma insieme la rivolgono all’unico Signore. Per questo motivo, nella preghiera, guardano nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico del ritorno del Signore, o, dove questo non fosse possibile, verso una immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso l’alto“.
La forma di celebrazione in cui tutti volgono il loro sguardo nella stessa direzione (Conversi ad orientem, ad Crucem, ad Dominum) è anche menzionata nelle rubriche del nuovo rito della Messa (cfr. Ordo Missae, 25, 133, 134). La cosiddetta celebrazione versus populum non corrisponde certo all’idea della Santa Liturgia come indicato nella dichiarazione della Sacrosanctum Concilium, 2 e 8.
B) La seconda ferita è la comunione nella mano, che ora è diffusa in quasi tutto il mondo. Non solo questo modo di ricevere la comunione non è in alcun modo menzionato dai Padri del Concilio Vaticano II, ma è stato in realtà introdotto da un certo numero di vescovi in disobbedienza alla Santa Sede e nonostante il voto a maggioranza negativo dai vescovi nel 1968. Papa Paolo VI la legittimò solo più tardi, a malincuore, e in particolari condizioni.
Papa Benedetto XVI, dal Corpus Christi 2008, distribuisce la Comunione ai fedeli in ginocchio e sulla lingua, sia a Roma che in tutte le chiese locali che visita. E così sta mostrando a tutta la Chiesa un chiaro esempio di Magistero pratico in una questione liturgica. Poiché la maggioranza qualificata dei vescovi rifiutò la Comunione nella mano come qualcosa di nocivo tre anni dopo il Concilio, tanto più lo avrebbero fattoi Padri conciliari!
C) La ferita è rappresentata dalle nuove preghiere di Offertorio. Si tratta di una creazione del tutto nuova e non erano mai state utilizzate nella Chiesa. Esse non esprimono tanto il mistero del sacrificio della Croce quanto l’evento di un banchetto e in tal modo ricordano le preghiere del pasto del sabato ebraico. Nella tradizione più che millenaria della Chiesa, in Oriente e in Occidente, le preghiere Offertorio sono sempre stati espressamente orientate al mistero del sacrificio della Croce (cfr. ad esempio Paul Tirot, Histoire des Prières d’Offertoire dans la liturgie romaine du VIIème XVIème au siècle [Roma, 1985]). Non vi è dubbio che una tale creazione, assolutamente nuova contraddice la chiara formulazione del Concilio Vaticano II che afferma: “novità ne fiant. . . novae formae ex Formis iam exstantibus organice crescant “(Sacrosanctum Concilium, 23).
D) La quarta ferita è la totale scomparsa del latino nella stragrande maggioranza delle celebrazioni eucaristiche nella forma ordinaria in tutti i paesi cattolici. Si tratta di una infrazione diretta contro le decisioni del Concilio Vaticano II.
E) La quinta ferita è l’esercizio da parte delle donne dei servizi liturgici di lettore e di accolito, come pure l’esercizio di questi stessi servizi in abiti laici, quando, durante la Santa Messa entrano nel coro direttamente dallo spazio riservato ai fedeli. Questa usanza non è mai esistita nella Chiesa, o almeno non è mai stato la benvenuta. Essa conferisce la celebrazione della Messa cattolica il carattere esterno di informalità, il carattere e lo stile di un gruppo piuttosto profano. Il Concilio di Nicea, già nel 787, proibiva tali pratiche quando ha stabilito il canone seguente: “Se qualcuno non è ordinato, non è consentito per lui a fare la lettura dall’ambone durante la santa liturgia” (can. 14 ). Questa norma è stata costantemente seguita nella Chiesa. Solo i suddiaconi e i lettori sono stati autorizzati a fare la lettura durante la liturgia della Messa. Se lettori e accoliti non sono presenti, uomini o ragazzi con i paramenti liturgici possono farlo, non le donne, dal momento che il sesso maschile rappresenta simbolicamente l’ultimo anello di ordini minori dal punto di vista dell’ordinazione non sacramentale di lettori e accoliti.
I testi del Vaticano II non parlano della soppressione degli ordini minori e del suddiaconato o dell’introduzione di nuovi ministeri. Nella Sacrosanctum Concilium, al n. 28, il Concilio distingue il ministro dal fedele durante la celebrazione liturgica, e stabilisce che ciascuno può fare solo ciò che gli compete per la natura della liturgia. Il numero 29 menziona i ministrantes, cioè i chierichetti che non sono stati ordinati. In contrasto con loro, ci sono, in linea con i termini giuridici in uso in quel tempo, i Ministri, vale a dire coloro che hanno ricevuto un ordine, sia esso maggiore o minore.
Il Motu Proprio: Come porre fine alla rottura nella Liturgia
Nel Motu Proprio Summorum Pontificum, Papa Benedetto XVI stabilisce che le due forme del rito romano devono essere considerate e trattate con lo stesso rispetto, perché la Chiesa rimane la stessa prima e dopo il Concilio. Nella lettera di accompagnamento del Motu Proprio, il Papa vuole le che due forme si arricchiscano reciprocamente.
Inoltre egli auspica che la nuova forma “sia in grado di dimostrare, più chiaramente di quanto non sia avvenuto finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso“.
Quattro delle ferite liturgiche, o pratiche sfortunate (celebrazione versus populum, comunione nella mano, totale abbandono del latino e del canto gregoriano, e intervento delle donne per il servizio di lettore e di accolito), non hanno in sé e per sé nulla a che fare con la forma ordinaria della Messa ed inoltre sono in contraddizione con i principi liturgica del Vaticano II. Se fossero abolite queste pratiche si tornerebbe al vero insegnamento del Concilio Vaticano II. E poi, le due forme del rito romano, verrebbero ad essere considerate assai più vicine, e così la forma straordinaria e la nuova evangelizzazione poiché, almeno esternamente, non si parlerebbe di alcuna rottura né apparirebbe alcuna rottura nella Chiesa tra il pre e il postconcilio.
Per quanto riguarda le nuove preghiere dell’Offertorio, sarebbe auspicabile che la Santa Sede le sostituisse con le preghiere corrispondenti della forma straordinaria, o almeno consentisse l’uso di quest’ultimo ad libitum. In questo modo la rottura tra le due forme sarebbe evitata non solo esternamente ma anche internamente. La rottura nella liturgia è proprio ciò che i Padri conciliari non volevano. I verbali del Concilio attestano questo, perché nel corso dei duemila anni di storia della liturgia, non c’è mai stata una rottura liturgica e, di conseguenza, non ci può essere. D’altra parte deve esserci continuità, così come si conviene per il Magistero.
Le cinque piaghe del corpo liturgico della Chiesa che ho menzionato gridano per la guarigione. Esse rappresentano una rottura che si può confrontare con l’esilio ad Avignone.
La situazione di una rottura così forte in un’espressione della vita della Chiesa è ben lungi dall’essere irrilevante, allora con l’assenza dei papi da Roma, oggi lcon a rottura visibile tra la liturgia prima e dopo il Concilio. Questa situazione grida in effetti, per la guarigione. Per questo motivo abbiamo bisogno di nuovi santi oggi, di una o più Sante Caterina di Siena.
Abbiamo bisogno di vox populi fidelis che richiedano la soppressione di questa rottura liturgica. La tragedia in tutto questo è che, oggi come i nel tempo dell’esilio di Avignone, la grande maggioranza del clero, soprattutto nei suoi ranghi più alti, è contenta di questa rottura.
Prima che ci si possano aspettare frutti efficaci e duraturi dalla nuova evangelizzazione, deve avere corso all’interno della Chiesa un processo di conversione. Come possiamo chiamare gli altri alla conversione quando, tra coloro che hanno risposto alla vocazione, non si è ancora verificata una convincente conversione nei confronti di Dio, internamente o esternamente? Il sacrificio della Messa, il sacrificio di adorazione di Cristo, il più grande mistero della Fede, l’atto più sublime di adorazione si celebra in un circolo chiuso, in cui le persone si cercano a vicenda.
Quello che manca è la conversio ad Dominum. È necessaria, anche esternamente e fisicamente, dal momento che nella liturgia Cristo è trattata come se non fosse Dio, e non Gli sono rivolti chiari segni esteriori dell’adorazione che è dovuta a Dio solo, perché i fedeli ricevono la Santa Comunione in piedi e, per giunta, la prendono in mano come un qualsiasi altro alimento, l’afferrano con le dita e la portano in bocca. Vi è qui una sorta di arianesimo o semi-arianesimo eucaristico.
Una delle condizioni necessarie per una nuova e fruttuosa evangelizzazione sarebbe la testimonianza di tutta la Chiesa nel culto liturgico pubblico. Dovrebbero essere osservati almeno questi due aspetti del culto divino:
1) Che la Santa Messa sia celebrata in tutto il mondo, anche in forma ordinaria, in una conversio ad Dominum interna e quindi necessariamente anche esterna .
2) Che i fedeli si inginocchino davanti a Cristo al momento della Santa Comunione, come san Paolo chiede quando si fa menzione del nome o della persona di Cristo (Fil 2,10), e che lo ricevano con l’amore più grande e il più grande rispetto possibile, come si addice a Lui come Dio vero.
Grazie a Dio, Benedetto XVI ha preso due misure concrete per avviare il processo di un ritorno dall’esilio di Avignone della liturgia, cioè, il Motu Proprio Summorum Pontificum e la reintroduzione del tradizionale rito della Comunione.
Vi è ancora bisogno di molte preghiere e forse di una nuovo santa Caterina da Siena per le altre misure da adottare al fine di guarire le cinque piaghe sul corpo liturgico e mistico della Chiesa e perché Dio sia venerato nella liturgia con quell’amore, quel rispetto, quel senso del sublime che da sempre sono le caratteristiche della Chiesa e del suo insegnamento, in particolare nel Concilio di Trento, nell’enciclica Mediator Dei di Papa Pio XII, nella Costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II e nella teologia della liturgia di Papa Benedetto XVI, nel suo magistero liturgico, e nel Motu proprio di cui sopra.
Nessuno può evangelizzare a meno che non abbia adorato, o meglio ancora a meno che non adori costantemente e doni Dio, Cristo nell’Eucaristia, vera priorità nel suo modo di celebrare e in tutta la sua vita. Infatti, per citare il cardinale Joseph Ratzinger: “E’ nel trattamento della liturgia che si decide il destino della fede e della Chiesa.
da “The Latin Mass Magazine” vol. 21 n. 2, estate 2012.