sexta-feira, 26 de julho de 2019

Un grande uomo di Dio, don Divo Barsotti, scrisse: “Nella vita spirituale cristiana i santi sono i fratelli maggiori che ci portano per mano, sono gli amici che ci accompagnano nel cammino. Non ci manca mai il loro amore.

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Carissimi fratelli e sorelle, un grande uomo di Dio, don Divo Barsotti, scrisse: “Nella vita spirituale cristiana i santi sono i fratelli maggiori che ci portano per mano, sono gli amici che ci accompagnano nel cammino. Non ci manca mai il loro amore. Conoscono le nostre debolezze, non si scandalizzano di noi, non si stancano, sono sempre pronti ad aiutarci, ci confortano, ci danno fiducia. Se li conosceremo, non potremo più dimenticarli”. Facendo tesoro di queste sapienti parole, la festa odierna ci dona anche questa consolazione spirituale: i santi sono nostri amici. È importante dunque che essi siano costantemente presenti nella nostra vita quotidiana: li dobbiamo conoscere, li dobbiamo amare, li dobbiamo pregare. Ciascuno, in piena libertà e secondo le proprie preferenze. Personalmente sono profondamente convinto che, per la nostra società, i santi siano più necessari dei politici, degli scienziati, dei filosofi, dei teologi. Per andare avanti, il mondo e la Chiesa hanno bisogno dei santi. Nelle tenebre che ci circondano, nel vuoto di senso che preme dentro le nostre anime, nella tristezza del cuore che ci pervade, essi sono la luce vera di Cristo, essi sono coloro che ci insegnano come camminare nella vita, poiché semplicemente ci insegnano come si ama. Forse tante insicurezze e paure pesano sul nostro cuore anche per questo: non viviamo più in compagnia dei santi. In Cristo Signore, invece, la Chiesa è un’immensa comunione di amore composta di santi e sante, una comunione che lega il cielo alla terra, perché l’amore che la anima vince ogni distanza di tempo e di spazio. Invochiamo Maria, Madre della Chiesa e specchio di ogni santità: Lei, la Tutta Santa, ci renda fedeli discepoli del suo figlio Gesù Cristo!

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don Divo Barsotti (1914-2006), teologo e mistico, schivo a qualsiasi forma di pubblicità, ma padre spirituale di innumerevoli anime.

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«Chiunque vuole appartenere a Cristo deve e dovrà sempre più prepararsi al martirio. Ognuno di noi, se è cristiano, è un martire in potenza. La sua presenza provoca l’odio del mondo. Come mai ti sei dimenticato della Parola di Dio da credere e insegnare la possibilità di un dialogo col mondo?».
Così scriveva nei suoi diari degli ultimi tempi, in vecchiaia (nel 1993), la grande e luminosa figura di don Divo Barsotti (1914-2006), teologo e mistico, schivo a qualsiasi forma di pubblicità, ma padre spirituale di innumerevoli anime.
Il cristiano è e sarà sempre urticante nei confronti del mondo. Il motivo è semplice: il mondo è posto nelle mani del maligno (1 Gv 5,19) e più volte nel Nuovo Testamento viene raccomandato di non amare il mondo né le cose del mondo, viene detto che il principe di questo mondo è per costituzione in contrasto con il Re del Cielo e della terra e Signore dei cuori, Cristo Gesù.
La prova più evidente dell’esistenza del demonio non sono gli indemoniati che vanno dall’esorcista, ma i santi. Prendete un santo e troverete immediatamente il mondo scatenato contro di lui: non lo sopportano, lo odiano, lo vogliono eliminare e sopprimere in ogni modo. Questo astio, in fondo, non si spiega se non usiamo le categorie teologiche. Per fare un esempio: che fastidio o che male poteva fare Rolando Rivi, seminarista quattordicenne ucciso dai partigiani vicino a Reggio Emilia il 13 aprile 1945 solo perché portava la tonaca da seminarista? Quale minaccia poteva rappresentare per quegli uomini un ragazzino innocuo che non faceva male a nessuno e che attendeva solo si riaprisse il Seminario per continuare il suo corso di formazione verso il sacerdozio? Non basta dire «quegli uomini ce l’avevano coi preti e con la Chiesa». Qui c’è qualcosa sotto di misterioso o, meglio, di più profondo, di invisibile. Ed è la lotta tra Cristo e l’Anticristo, tra Gesù e Satana. Ciò che richiama a Gesù dà fastidio. A chi? A Satana. Il quale si scaglia contro l’uomo che lo rappresenta e lo vuole sopprimere, perché tutto ciò che è per lui l’immagine di Gesù è anche il richiamo della sua rovina eterna. leggere...

LA MISTICA DELLA RIPARAZIONE BY DON DIVO BARSOTTI




Pagine straordinarie di uno dei più bei libri del grande mistico del Novecento, Don Divo Barsotti, fondatore della Comunità dei Figli di Dio (“La mistica della riparazione”, I Edizione: Borla, Torino 1962).
«ALMENO TU AMAMI»Una domanda, anzitutto. Qual è l’oggetto della devozione al S. Cuore di Gesù? A che cosa questa devozione ci chiama?
La devozione al S. Cuore è essenzialmente una devozione riparatrice, richiama il cristiano alla riparazione. Il rapporto fra il S. Cuore e la riparazione non è tuttavia molto evidente, anche se non si può negare che i due termini siano in intimo rapporto fra loro.
Di fatto, la devozione al S. Cuore, così come spesso è intesa, non sembra avere un oggetto suo proprio, perché se nel S. Cuore vediamo soltanto il simbolo dell’amore divino verso di noi ci pare che, in fondo, anche la devozione dell’Eucarestia e quella stessa del Crocifisso non ci dicano cosa diversa, non abbiamo oggetto diverso. L’Eucarestia non è forse il dono di Dio, il dono supremo di Cristo, il dono anzi ch’egli ci fa di se stesso? E il Crocifisso non è la manifestazione, la rivelazione suprema dell’amore di Dio per noi?
In fondo, tutte le operazioni di Dio verso di noi sono operazioni di amore, che hanno avuto il loro principio nell’amore e hanno come loro fine l’amore. Non è proprio della devozione al S. Cuore il richiamo a meditare sull’amore di Dio, né è oggetto precipuo della devozione al S. Cuore un richiamo da parte di Dio a noi, affinché lo si ami. Sembra invece oggetto specifico della devozione al S. Cuore, così come l’ha voluta Gesù, la riparazione. Di fatto la riparazione è stata voluta direttamente da Cristo, mentre le altre devozioni della Chiesa non esprimono chiaramente un richiamo immediato alla riparazione. Perché il S. Cuore ha un rapporto con la riparazione? Ecco quello che non vediamo con chiarezza.
Accettiamo umilmente da Nostro Signore che egli, presentando il suo Cuore, voglia incitarci e impegnarci all’espiazione e alla riparazione. Non solo accettiamo umilmente, ma adempiamo l’ineffabile volontà di Dio che attraverso questo segno ci richiama a un grande dovere; sentiamo di doverci impegnare alla riparazione per il richiamo esplicito di Gesù a S. Margherita Maria. Anche se non conosciamo le ragioni profonde che possono giustificare il rapporto fra il S. Cuore e la riparazione, anche se non dovessimo conoscerle mai, ci basterebbe la parola stessa di Gesù, il fatto che Gesù medesimo ha voluto legare la rivelazione del suo Cuore divino, le sue apparizioni a S. Margherita Maria, al dovere della riparazione. E questo è nuovo nella devozione cattolica, questo è nuovo nella vita cristiana. Non certo perché prima di S. Margherita Maria i cristiani non sentissero il dovere di riparare, di espiare per i peccati del mondo (altrimenti non sarebbero stati cristiani), ma perché questa riparazione non era sentita in modo così chiaro, definito, specifico, come compito proprio della pietà cattolica. Oggi noi non potremmo più vivere la nostra vita cristiana integrale, non potremmo più rispondere a una vocazione divina che ci chiama alla perfezione, senza sentirci impegnati in modo preciso all’adempimento di questo dovere.
AMARE DIO PER GLI ALTRIMa di che riparazione si parla? E per quali motivi siamo impegnati a questa riparazione? Intanto risulta dalle parole stesse di Gesù a S. Margherita Maria: ella deve supplire dinanzi a Gesù tante altre anime che non lo amano. La riparazione, prima di tutto, esprime un nostro dovere di supplenza, e questo ci sembra veramente cristiano. Nell’andare verso Dio non siamo mai soli, non possiamo mai scioglierci dalla comunità, non possiamo mai pretendere di fuggire soli col Solo; il nostro dovere, quanto più ci accostiamo a Dio, è quello di rappresentare tutti gli altri che sono lontani.
Se Gesù ti dice: «Almeno tu amami», non intende con questo rinunziare all’amore di coloro che non lo amano, ma vuole che col tuo amore per lui tu compensi l’amore che i tuoi fratelli gli negano, che il tuo amore supplisca per loro, che tu lo ami per loro.
«Almeno tu amami».
«Mi ami tu più di questi?» domanda Gesù a Pietro.
L’amore che il Signore chiede non sottrae l’anima al mondo, non la divide dai fratelli; al contrario, è questo amore che la unisce di più agli uomini, la fa responsabile per tutti. Pietro, per questo amore, riceve una missione di universale paternità, la missione di guidare tutto il gregge di Cristo, e finalmente riceve la promessa di morire com’è molto Gesù: non solo il martirio, ma la partecipazione più piena alla Passione e alla Morte del Cristo, in una morte che dovrà essere atto di offerta per il mondo intero.
«Signore, non imputar loro questo peccato». È la preghiera di Stefano, ed è la preghiera di Pietro, perché il martirio cristiano mai potrebbe essere soltanto testimonianza di amore per Iddio, ma dev’essere anche testimonianza di amore per gli uomini, per quelli stessi che ti danno la morte.
Sembra che tutto ciò risponda ad un disegno preciso della provvidenza di Dio: i molti si salvano per i pochi, tutti si salvano per uno solo. Gesù, l’Unico, salva la moltitudine immensa; dopo di lui, ma con lui, i pochi salvano i molti. È una verità che si adatta ad ogni generazione umana: i veri cristiani saranno sempre il sale della terra, la luce del mondo. Saranno sempre un piccolo gregge. Ma sarà per questo piccolo gregge, per questo pugno di sale, per questa luce sul moggio che tutto il mondo sarà illuminato, che sarà impedita la corruzione universale e la rovina degli uomini.
Mistero che non osiamo nemmeno contemplare tanto ci fa paura, perché ci dice la nostra responsabilità precisa: siamo degli eletti da Dio. Ci rendiamo conto che non rispondere non è soltanto mettere in pericolo l’anima nostra, ma è mettere in pericolo la salvezza di innumerevoli anime, è defraudare tutta l’umanità, tutta la creazione, di una forza divina, di un potere di salvezza, di un dono di amore che attraverso i prescelti dovrebbe raggiungere gli altri? Dio certamente ci ama, se ci chiama presso di sé, ma tuttavia la chiamata non è limitata a noi soli; la chiamata di Dio ci separa dagli altri, ma per renderci solidali con essi, padri di tutti come Abramo. La chiamata di Dio strappa Abramo alla sua tribù, lo porta fuori della sua città, ma per farlo padre di tutti i credenti. Se non rispondiamo al Signore, non mettiamo in pericolo soltanto la nostra perfezione, la nostra santità: se ci accontentassimo soltanto di una nostra salvezza forse non ci potremmo salvare. Quante sono le anime anche buone che si accontentano di andare in Paradiso senza saper che questa loro volontà di una propria esclusiva salvezza, già forse le perde! Chi è prescelto non può rinunciare ad essere perfetto come il Signore lo vuole, non potrebbe rinunciarvi soprattutto per gli altri. Agli altri giunge la grazia attraverso di te. In che modo? Attraverso quali vie? Tu non lo sai. Comunque, nella stessa misura in cui sei chiamato alla perfezione, sei anche chiamato a rappresentare tutta quanta la Chiesa, tutta quanta la creazione, a portarla nel tuo cuore, con le tue mani, ad offrirla come tua offerta, a salvarla con te.
IL MISTERO DELLA REDENZIONEÈ il mistero Cristiano che si esprime in questa legge. Nella prima creazione Dio creò, moltiplicando le cose; dall’unità il processo divino passa alla molteplicità, ad una molteplicità sempre più varia, sempre più ricca di forme. Nella seconda creazione, al contrario, da questa molteplicità, da questa frammentarietà di una situazione divisa anche dal peccato, frantumata anche dal male, la parola divina chiama verso l’unità. Tutta quanta la creazione divina diviene un solo Cristo; Cristo, l’Unico, la salva in se stesso, assumendola in sé, portando egli stesso il peso di tutti i peccati, divenendo solidale con tutto l’universo dinanzi al Padre. Questo processo, dalla molteplicità all’unità, continua e diviene pienamente reale attraverso la Chiesa. Certo, nella medesima misura in cui siamo in Cristo, in cui ci trasformiamo in lui, dobbiamo operare anche per questa unità, per questa unificazione.
Non siamo salvi se non è salvo con noi l’universo, diceva Péguy. È vero, perché la nostra salvezza non è che una partecipazione al mistero di una redenzione universale. Ora, questo della redenzione cristiana è il mistero per cui, nell’unità di Cristo, tutto quanto è salvato. Non posso partecipare a questo mistero di redenzione che nella misura in cui io stesso divengo solidale veramente col mondo, nella misura in cui riunisco in me tutta quanta la creazione, assumendo tutto il peso delle sue angosce, del suo dolore, del suo male, della sua miseria, del suo peccato, e rispondendo di tutto dinanzi a Dio. I pochi salvano i molti.
Ci domandiamo sempre perché Nostro Signore agisca in un modo così curioso. Perché è veramente curioso il modo di agire di Dio. Dopo duemila anni siamo come all’inizio; pochi santi, un discreto numero di anime buone, una grande moltitudine di cristiani di nome e una moltitudine sterminata di anime che non conoscono il Cristo. È fallito il Cristianesimo? Continua il mistero di Uno che salva tutti, dei pochi che salvano i molti.
Cristo è sempre presente, nella Chiesa, nella storia del mondo, ed è presente nel Sacrificio per cui assume la creazione, e si addossa la miseria e i peccati del mondo: «Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis». Nella Messa, Gesù non è presente soltanto per la sua nascita da Maria, per i miracoli che ha compiuto in favore dei lebbrosi e dei ciechi: è presente nel mistero di una morte per effetto della quale egli assume tutto il peccato umano e lo cancella in sé. «Agnus Dei, qui tollis peccata mundi»: tutti egli li prende sopra di sé. Veramente la Messa è la salvezza dell’universo; in ogni istante Gesù rimane vivo, l’Unico che salva tutti. E poiché noi dobbiamo essere in lui, non possiamo vivere altro che questo stesso mistero. Ecco l’impegno per noi: non di separarci dagli altri, non di sentirci diversi, non di rigettare il peso della miseria e del peccato umano, ma caricarcene totalmente per risponderne a Dio.
Voi mi dite: «Non è orgoglio, in fondo, tutto questo? Non dobbiamo piuttosto badare ad espiare il nostro peccato piuttosto che quello degli altri? Come osiamo investirci di questa responsabilità e voler rispondere del peccato umano quando noi stessi siamo così peccatori?». È vero, di fatto non possiamo rispondere a questo dovere che nella misura in cui siamo santi. Appunto nella stessa misura in cui siamo chiamati alla perfezione, siamo anche chiamati ad assumerci questo peccato.
AI limite estremo, quando fossimo santi come Gesù, anche noi dovremmo caricarci di tutto il peccato umano, come lui. Possiamo riparare poco, e ripariamo poco effettivamente, proprio perché non siamo nel Cristo, perché estremamente imperfetta è la nostra unione con lui. Quanto più saremo nel Cristo, tanto più potremo dunque rappresentare l’umanità peccatrice, essere solidali con questa umanità per salvarla innanzi al Volto di Dio. Così, quando abbiamo espiato i nostri peccati, si inizia per noi il vero martirio. Santi della santità di Gesù, diveniamo vittime immolate che si offrono al Padre per ottenere misericordia. Quando per questa via saremo santi della santità di Gesù, in questa santità si realizzerà l’unità nostra con Cristo e con tutti i fratelli, perché non ci separeremo più da loro, ma vorremo che la loro condanna sia la nostra, parteciperemo al loro castigo, sopporteremo il peso dell’universale peccato. Nessuna dottrina teologica rivela più di questa la nostra unità con gli uomini, manifesta maggiormente l’infinita carità di Dio e dice meglio la dignità del cristiano, chiamato a collaborare con Dio per sollevare il mondo e farlo partecipe della santità e della gloria di Dio.
MARIA E I SANTI CONTRIBUISCONO ALLA REDENZIONEDopo Gesù, colei che più di tutte le altre anime umane ha posto riparo al peccato del mondo (dopo Gesù e in dipendenza assoluta da lui, perché in fondo quella di lei è una partecipazione al mistero della Redenzione del Cristo) è Maria. Non che Maria e Gesù in parti uguali (o, sia pure, uno per grandissima e l’altra per piccolissima parte) contribuiscano a riparare al peccato e a salvare il mondo con la loro riparazione; ma Maria, nella stessa misura in cui è nel Cristo, in cui vive la santità stessa di Gesù, in cui è associata al mistero di Gesù, vive anche il mistero di questa Redenzione universale, e lo vive dipendentemente da Cristo. In quanto ella è nel Cristo, ella è la riparatrice universale: non solo «sublimiori modo redempta», ma «universalis corredentrix».
Secolo per secolo vi sono grandi anime sulle quali pesa davvero tutto il peccato di una generazione, su cui grava la miseria del mondo. Sono le anime più sante. Così noi comprendiamo perché la santità non può mai dissociarsi dal dolore; se la santità di fatto ci unisce a Cristo nella sua morte, ci unisce a Cristo anche nel mistero di una riparazione; proprio quanto più siamo santi tanto più dobbiamo anche soffrire. Per questo i più grandi santi sono quelli che più hanno sofferto: sono stati fatti degni di una più intima partecipazione al mistero della Croce per divenire, generazione per generazione, il sostegno del mondo.
  1. Veronica Giuliani, grandissima mistica giunta al matrimonio spirituale, deve subire le più gravi persecuzioni che si possano immaginare. Per ordine del S. Uffizio viene deposta dalla sua carica di maestra delle novizie e messa in carcere, a pane e acqua, guardata a vista da due suore, e privata dei Sacramenti, senza poter parlare con alcuno. E così vive glorificando e ringraziando Dio e chiedendo di soffrire sempre più.
  2. Giovanni della Croce fu messo in carcere in una cella dove non poteva stare in piedi né distendersi, a pane e acqua, flagellato a sangue dai confratelli. E, alla vigilia della morte, giunto alla più grande purezza di amore, fu confinato in un convento dove il Superiore non aveva per lui che rimproveri.
È giusto che sia così, è stupendo, è divino, che sia così! Tutto ciò dimostra che la cosa più grande è il dolore; esso ci fa simili a Cristo. Dalla Croce fiorisce la grazia.
Non soffriamo perché siamo peccatori, soffriamo nonostante la nostra innocenza; ogni cristiano soffre nella misura in cui è innocente, nella misura in cui è santo, perché il dolore nel Cristianesimo non è più soltanto castigo al peccato, è soprattutto, invece cosa meravigliosa! – l’atto per mezzo del quale Dio, nella nostra carne, cancella il peccato: non lo subisce, ma lo distrugge.
Se vi è dunque la possibilità di una salvezza del mondo, questa salvezza sarà raggiunta sempre attraverso il dolore umano, accettato liberamente dalle anime sante in solidarietà, in unione con tutti i peccatori dell’universo. Allora si capisce, prima di tutto, che cosa voglia dire esser chiamati ad essere cristiani, chiamati alla vita religiosa; che cosa voglia dire esser chiamati da Dio, stimolati da lui, dalla sua grazia, giorno per giorno, per il raggiungimento della perfezione evangelica: vuol dire essere chiamati, come Gesù, al sacrificio per i peccati del mondo. Crediamo alle volte di liberarci dal dolore liberandoci dal nostro peccato e, spesso, se anche non ci lamentiamo con Dio per i pesi dei quali ci grava, pensiamo tuttavia che impegnandoci più seriamente a seguirlo potremo in qualche modo sottrarci a troppo grandi sofferenze, a troppo grandi dolori. Non sappiamo invece che la nostra vocazione cristiana, nella misura in cui ci chiama alla perfezione, è anche una promessa di dolore e di sofferenza, è anche una promessa di martirio e di morte. Dobbiamo saper accettare tutto questo. A questo ci chiama la devozione al Cuore di Gesù.
COLLABORATORI DI CRISTODobbiamo essere coscienti della nostra missione: con Cristo, in lui, dobbiamo redimere il mondo nella misura in cui soffriamo. Uniti a Cristo nella carità, ma solidali col mondo, dobbiamo cooperare alla sua redenzione: ognuno di noi coopera alla redenzione se in lui vive la carità di Dio.
Quale grande missione! Accettiamola e benediciamo Dio che ha voluto chiamarci a collaborare con lui. Non possiamo sottrarci alla sofferenza in altro modo che sottraendoci all’amore. E anche se ci sottraessimo all’amore soffriremmo ugualmente, ma della sofferenza dei dannati. C’è infatti la sofferenza di Cristo che redime, ma c’è anche la sofferenza non accettata per amore, la sofferenza che rimane inutile e che è segno di una nostra condanna.
Amare: ecco la vita del cristiano. Amare così da non poter sopportare più nessuna pena per i nostri fratelli, così da assumere nel nostro spirito l’angoscia e il dolore di tutti, perché per l’amore di Dio che vive nei nostri cuori sia salvato con noi tutto il mondo.
È necessario comprendere prima di tutto il piano divino della redenzione umana: l’Uno che salva tutti, e in lui i pochi che salvano i molti. Nella misura in cui siamo santi, in cui siamo nel Cristo, anche noi dobbiamo rappresentare, e rappresentiamo di fatto sempre di più, tutta l’umanità dinanzi a Dio. La rappresenteremo non separandoci da essa, ma portandone il peso del peccato su di noi, perché soltanto in questo modo si può rappresentare in modo veritiero l’umanità dinanzi al Padre; non in quanto siamo peccatori, ma in quanto portiamo di tutti i peccati il peso e il gravame dinanzi a Dio.
Altra cosa sarebbe esser solidali col mondo nel peccato: in questo caso saremmo anche noi separati da Dio, non più salvatori, ma piuttosto bisognosi di essere salvati e redenti. Invece, nella misura in cui siamo redenti, nella misura in cui abbiamo risposto al Signore, ma anche nella misura in cui vogliamo tendere alla perfezione divina della carità, dobbiamo sentirci impegnati ad assumere il peso, il castigo del peccato umano, e non dobbiamo sottrarci alla sofferenza né dobbiamo pretendere di schivare la pena e il martirio; dobbiamo anzi prepararci, come Gesù si preparò durante tutta la sua vita, ad accettare la nostra croce che è la Croce di Gesù, ed è la croce stessa del mondo.

Fin dalle sue origini, la Comunità Redemptor hominis, in particolar modo nella persona del nostro fondatore don Emilio Grasso, è rimasta legata da profonda amicizia a don Divo e alla sua “Comunità dei Figli di Dio”.

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E' MORTO A 92 ANNI
DON DIVO BARSOTTI
È morto stamani nell'eremo di Casa San Sergio, a Settignano, sui colli fiorentini, don Divo Barsotti, mistico, poeta, teologo, scrittore, fondatore della Comunità dei figli di Dio, che conta oggi oltre 2.000 membri in diverse parti del mondo. Il 14 aprile avrebbe compiuto 92 anni.
Grande interprete del monachesimo orientale, don Barsotti ha scritto oltre 150 libri ed ha dialogato con i più grandi filosofi e pensatori del Novecento: da Hans Urs Von Balthasar a Henry De Lubac, da Thomas Merton a Giuseppe Dossetti, da Mario Luzi a Giorgio La Pira.
Carlo Bo lo ha definito "uno degli spiriti più alti del nostro tempo" e il Dizionario della spiritualità italiana della Città Nuova lo pone tra le 10 figure spirituali più importanti del Ventesimo secolo.



Fin dalle sue origini, la Comunità Redemptor hominis, in particolar modo  nella persona del nostro fondatore don Emilio Grasso, è rimasta legata da profonda amicizia a don Divo e alla sua “Comunità dei Figli di Dio”.
Diverse volte lo abbiamo incontrato nella sua casa di San Sergio, con grande affetto e commozione e con profonda gratitudine per la sua esistenza e la sua amicizia, partecipiamo oggi alla sua entrata nella Casa del Padre.
Egli attendeva l’incontro “faccia a faccia” con Dio, come disse ad alcuni di noi durante un incontro nel maggio 2003. Chiamato per nome, un giorno lontano, e continuamente in relazione sponsale con il Cristo che lo affascinò, lo abbiamo visto in questi giorni ancor più “uomo in missione”. Dalla sua stanza di Settignano, nella contemplazione del Volto di Dio, raggiunge tutti gli uomini della terra, nel sacrificio di sé, nell’offerta pura della sua vita, nell’unione mistica a Colui che ha dato senso a tutta la sua vita.
  
 “CHIAMARE PER NOME” 
 
Alcuni aspetti della missione in don Divo Barsotti
 

Siamo andati a trovare don Divo nel maggio scorso, nella sua casa di  Settignano in Toscana. Costretto a letto per una grave malattia che sopporta con fede e serenità, don Divo ci ha accolto con amicizia profonda, un’amicizia che data quasi quarant’anni.
Abbiamo incontrato don Divo come un “libro aperto”, pagina di storia della Chiesa, testimonianza della spiritualità di un secolo, ponte tra passato e futuro, “contemporaneo del futuro”, com’è stato definito, in un presente che egli vive più che mai nell’attesa dell’incontro “faccia a faccia” con Dio.
Emilio, Antonio ed io abbiamo parlato a lungo con lui, in un dialogo che ci ha riportato indietro nel tempo, a quando sfogliavamo per la prima volta i suoi libri. Abbiamo ritrovato nelle parole vive l’eco di tutto ciò che ha scritto, memoria lucida e fedele del suo vissuto spirituale che appartiene alla Chiesa, a noi, a tutti.
Condividendo il suo modo di vedere la missione della Chiesa1, proponiamo ai nostri lettori il suo pensiero. La sua stessa vocazione, come da lui sempre affermato, è una vocazione missionaria. 
Ad immagine della Trinità  
Don Divo sottolinea che la missione della Chiesa ha le sue radici nella vita trinitaria. All’origine di questo pensiero, c’è l’idea della “comunicazione” della vita divina, termine tanto caro alla teologia orientale da cui Barsotti ha attinto molto, al punto da assimilare “come per connaturalità, l’animo e la sensibilità spirituale ed esegetica” dei Padri2.
 Nel rapporto Padre-Figlio-Spirito Santo c’è “comunicazione” della vita divina, in quelle che san Tommaso chiama “missioni intime” della Trinità (la generazione del Figlio, la processione dello Spirito). Seguendo il pensiero di san Tommaso, Barsotti afferma che tutto ciò che la Trinità compie all’esterno (creazione, incarnazione del Verbo, ecc.) non è che il prolungamento di quelle “missioni intime”: Dio, comunicandosi alle creature, si comunica, perciò, come Trinità.
Togliendole quest’aspetto, la missione si spoglierebbe di ciò che le è proprio e finirebbe per perdersi in quelle attività che si occupano soltanto di valori naturali e mondani. è per questo che Barsotti insiste sulla necessità di tornare ad annunciare Cristo in tutta la sua radicalità. Oggi, la predicazione della Chiesa parla solo incidentalmente di Cristo. La protezione della vita, i problemi della giustizia e la pace dei popoli sono tutte cose importanti e la Chiesa fa bene ad impegnarsi, ma il cristianesimo è altro. Se si riduce solo a promozione umana, si evacua la pienezza del mistero di Cristo3.
Se l’uomo potesse dar tutto, ma non donasse Dio ai suoi fratelli, comprometterebbe la loro salvezza. Se il cristianesimo divenisse soltanto messaggio di liberazione economica, politica, di grandezza e felicità temporale, sarebbe soltanto menzogna.
La missione di Cristo Signore è di riportare l’uomo nella comunicazione trinitaria; non soltanto irruzione del divino, ma comunicazione della vita di Dio. Cristo, nel momento in cui torna nel seno trinitario, affida alla Chiesa il compito di far presente nel mondo la Sua stessa missione.
Barsotti ci mette in guardia da una spiritualità d’evasione, per richiamarci ad una spiritualità che implichi la missione stessa di Gesù: la storia vera non ha, come suo contenuto, che la missione data da Gesù ai dodici.  
Il primato della contemplazione  
Appoggiandosi sulla teologia trinitaria, Barsotti presenta l’uomo come fascio di relazioni: un io che esiste nel momento in cui entra in relazione con il Tu di Dio. Nasce, così, il primato della contemplazione che fonda la missione: l’amore di Dio fa nascere il bisogno di donarLo ai fratelli.
Per Barsotti, “solo la mistica salverà il mondo. La mistica è il calarsi di Dio nel  contesto umano. Dio entra veramente in quest’umanità e la solleva, lentamente la prende, la unisce a sé e la innalza verso di Lui. Questa è la grandezza propria della vocazione cristiana. Non saremo mai un numero, mai. Ognuno deve sentire, nella sua povertà, di essere lo strumento di Dio per un’opera che lo vince e lo innalza ad un piano, ad una dimensione, non solo nuova, ma del tutto incredibile”4.
Barsotti considera l’esperienza mistica come l’incontro tra due libertà: la libertà di Dio che vuole comunicarsi all’uomo e la libertà dell’uomo che si apre nella fede ad accogliere Dio. Questa vita mistica non è riservata soltanto ai monaci: ogni cristiano può e deve aspirare all’unione mistica con Dio in Cristo Gesù. Non c’è contrasto tra vita contemplativa e vita attiva, essendo da ritenere falso l’insegnamento comune di una loro opposizione.
è dalla vita mistica che nasce la missione. Essa è ricerca del Volto di Dio, contemplato, ma mai in maniera esaustiva. Nella missione si annuncia per crescere nella conoscenza di Dio, per vedere e contemplare il suo Volto, sicché si dona e si riceve insieme. Nella missione si annuncia per far conoscere e per conoscere. “L’esperienza del mistico – infatti – non può mai esaurire una conoscenza di Dio. Dio solo conosce Dio; una conoscenza esaustiva di Dio non potrebbe essere propria di una creatura. Vuol dire che l’esperienza mistica non solo è molteplice perché molti e diversi sono gli uomini che cercano il Volto di Dio, ma anche perché Dio stesso si rivela più o meno secondo la sua libertà, secondo la capacità di ogni uomo e ogni uomo può avere una certa conoscenza di Dio già in quella fame di assoluto che lo spinge in un cammino senza fine”5. 
Chiamare per nome  
Per Barsotti, è molto evidente che il cristianesimo è una religione personale. La comunicazione della vita nella Trinità è comunicazione tra persone. Dio si comunica all’uomo e lo salva personalmente: non il genere umano è redento, ma il “corpo” dei singoli redenti. Dio chiama i suoi amici per nome (cfr. Gv 10, 1-18). Tutta la missione del Figlio è questa ricerca delle sue pecore; per ognuna, singolarmente, offre la sua vita.
“Dal fatto che al sommo grado Dio si rivela come Persona, ne consegue che l’elezione di Dio non è nel cristianesimo elezione di un popolo, ma vocazione personale”6. La persona umana diviene il valore assoluto perché in rapporto immediato con Dio.
In questa originalità consiste anche il proprium della missione: far emergere gli uomini dalla moltitudine, chiamarli per nome, dare un nome all’amato, far sì che acquisti un valore unico.
Ci diceva Barsotti: “Tante volte noi opponiamo la comunità alla persona. Non  esiste comunità se non in quanto la persona assume gli altri, ma è sempre Lui quello che vive in ciascuno. Quanto più si va avanti nella vita soprannaturale, tanto più gli altri scompaiono come persone divise e rimane, unico, il Cristo. In Cristo ci saranno tutti, ma nel Cristo, non indipendentemente da Lui; è anzi Lui, la sua presenza che suscita la comunità. La missione rende presente questo: Dio ci chiama per nome, ma ci chiama per fare qualche cosa, mai indipendentemente dalla sua volontà. La missione, pertanto, ha le radici nella chiamata che si esprime e si vive nel dono di tutta la vita a quello che il Signore ci chiede”.
La missione della Chiesa è di salvare l’uomo, l’uomo concreto di tutti i tempi, di tutte le latitudini: quest’uomo che deve divenire Dio.
Per Barsotti, riprendendo l’espressione di san Tommaso, l’uomo è desiderio naturale di vedere Dio: non vede Dio in astratto, in un’immagine della sua fantasia, ma in colui che ne ha fatto l’esperienza e si mostra quale icona vivente di Dio.
Il Cristo, che non è visibile in sé, si fa visibile in chi, vivendo nella sua presenza, irradia la sua luce. La presenza ultima del Cristo nel mondo è il cristiano; è nel cristiano che Egli si fa visibile al mondo; è nel cristiano e per il cristiano che Egli opera ancora. Il cristianesimo non è soltanto una comunicazione di verità, ma anche di vita.
è per questo che il rinnovamento della missione è impossibile al di fuori di uomini nuovi. Le strutture della Chiesa sono frutto di questi e non viceversa. Il rinnovamento è opera dello Spirito, nasce dall’intimo; la legge può riconoscerlo quando è avvenuto o eliminare gli ostacoli, ma, di per sé, non lo produce.
Chi è, però, l’uomo nuovo? Per Barsotti, è il santo. L’annunzio e l’impegno ad extra non precedono mai la santificazione personale, ma scaturiscono e prorompono solo dall’uomo che ha veramente incontrato Dio e che, attirando a sé, come termine storico d’un cammino, un’umanità stanca e delusa, la porta veramente ad incontrare Dio Padre, origine non originata di ogni vita.  
Missione e croce  
Per Barsotti, non vi è missione senza sacrificio e croce: è nel sacrificio che la missione trova il suo compimento e realizza il suo fine; e sarà proprio la testimonianza (il martirio), come ci ricorda Giovanni Paolo II, che costituirà un particolare “luogo teologico”, il punto da cui si dovrà partire per rendere credibile l’annuncio del Vangelo7.
La nostra missione deve costarci quello che è costata a Cristo. Si parte per l’annuncio ben sapendo che tutta la storia di salvezza è una lotta. Il mondo perseguiterà sempre la Chiesa perché essa vuole generare Cristo negli uomini e questo comporta la trasformazione del mondo. Gli uomini debbono, in qualche modo, ricevere Dio da noi. La Chiesa si interessa del mondo perché la sua missione nel mondo non sia sterile. Non fa, però, un discorso per appagare il mondo. Suo fine ultimo è quello di far entrare gli uomini nel Corpo mistico del Cristo che è la Chiesa perché solo il Cristo entra nel seno di Dio8.
L’origine e il fine della missione sono questo suo radicarsi nel mistero trinitario. In questo itinerario, “da Dio a Dio”, il pensiero di Barsotti può essere sintetizzato in una espressione a lui cara e che ha costituito il suo programma di vita: essere figlio nel Figlio. La missione della Chiesa è di donare all’uomo l’adozione filiale e di farlo tornare alla casa del Padre nel Figlio suo, Gesù Cristo. Alla fine, non ci sarà che un solo salvato: Gesù Cristo e il suo corpo che è la Chiesa. Se la missione è di andare ad annunciare, essa è anche quella di riportare a Dio il dono ricevuto e fatto fruttificare.
Ci sono tanti altri aspetti che Barsotti ha messo in luce per meditare sulla missione della Chiesa, come il rapporto del cristianesimo con le culture e le altre religioni. Ci siamo limitati ad alcuni. Quello che più ci ha colpito, parlando con don Divo o leggendo i suoi libri, è questa realtà profonda incrollabile: chiamato per nome, un giorno lontano, e continuamente in relazione sponsale con il Cristo che lo affascinò, lo abbiamo visto in questi giorni ancor più “uomo in missione”. Dalla sua stanza di Settignano, nella contemplazione del Volto di Dio, raggiunge tutti gli uomini della terra, nel sacrificio di sé, nell’offerta pura della sua vita, nell’unione mistica a Colui che ha dato senso a tutta la sua vita.



Nato a Palaia (Pisa) nel 1914, don Divo Barsotti è uno dei teologi contemporanei più importanti e una delle figure più prestigiose del  cattolicesimo italiano. Ordinato sacerdote nel 1937, vive dall’immediato dopoguerra nella “Casa San Sergio” di Settignano (Firenze). Il suo alto ed efficace magistero, così refrattario alle superficialità correnti, alimentato dalla visione del Cristo Crocifisso e Risorto, ma attento anche alla poesia e alla bellezza cristiana, ha dato origine alla “Comunità dei Figli di Dio”, i cui membri, sacerdoti e laici consacrati, si propongono di vivere un’esistenza di unione con Dio e di presenza cristiana nel mondo.
Vastissima è la produzione bibliografica barsottiana, costi-tuita da libri di commento alla Sacra Scrittura, di teologia spirituale, saggi, poesie, diari. Gran parte della sua opera è stata tradotta in tedesco, francese, olandese, polacco, inglese e spagnolo. Don Divo ha svolto anche intensa attività di predicatore (e memorabili furono i suoi “Esercizi spirituali” predicati a Paolo VI in Vaticano) e di guida spirituale di molte comunità religiose italiane e straniere.


Don Emilio Grasso, fondatore della Comunità Redemptor hominis, ha un profondo legame spirituale con don Divo Barsotti che gli è stato vicino in momenti particolarmente delicati e difficili della sua avventura apostolica, sin dai tempi delle baracche.
Don Emilio fece gli studi di Missiologia alla Pontificia Università Gregoriana e, quando giunse alla tesi di laurea, cominciò a pensare se un debito di  riconoscenza che aveva nei confronti di don Barsotti potesse saldarsi con uno studio sui suoi scritti. Mettere a fuoco il pensiero dell’autore fiorentino avrebbe mostrato come nella sua opera si poteva trovare il fondamento per una spiritualità missionaria. Don Emilio, in occasione della discussione della sua tesi, Fondamenti di una spiritualità missionaria. Secondo le opere di Don Divo Barsotti, affermava: “Esistenzialmente, prima ancora che intellettualmente, ritrovai sintonia con l’opera di don Barsotti; attraverso di essa ritrovavo qualcosa di antico e sempre nuovo che alla verifica dei fatti mi sembravano verità di fondo che resistono alle tempeste del tempo e permettono alla barca di navigare sicura verso il porto senza essere travolta dalle onde impetuose”.
Divo Barsotti fu molto riconoscente per questo suo lavoro: “La tesi mi fa sentire quanto è buono il Signore che ha voluto che tu, che hai dato tanti missionari alla Chiesa del Camerun, del Paraguay..., abbia cercato nei miei scritti quanto poteva animare una vocazione missionaria. è come se la tua risposta fosse oggi la mia stessa risposta... Hai letto e meditato tutti i miei scritti, nulla ti è sfuggito di quello che ho stampato. Non hai letto con distacco interiore e tanto meno con spirito polemico, ma con quella attenzione amorosa che realizza sempre una comunione vera e profonda”. Molti anni dopo, Barsotti esprimerà ancora la sua riconoscenza: “Tu – scrive a don Emilio il 13 aprile 2000 – sei stato il primo a scrivere qualcosa su di me, e te ne sarò sempre grato. Favore e stima, e anche entusiasmo, che oggi mi accompagnano... fino a ieri ero un balordo proscritto... Ma certo nessuno come te mi è stato fedele nell’amicizia. Te ne sarò sempre grato”.
   

“È l’amore che ci personalizza: Dio ama me! Non sono io che salvo me stesso, non sono io che salvo la mia persona, ma è l’amore di Dio che, volendomi, mi fa emergere dalla moltitudine e mi dà un nome unico, eterno. Non si ama finché l’amato non emerge dalla moltitudine e non acquista un nome per colui che ama, non acquista per lui un valore unico: nella misura in cui si ama, l’amato diviene tutta la vita”.
(D. BARSOTTI, Le lodi di Dio Altissimo, Ed. O.R., Milano 1982, 50-51)



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Vedi a proposito E . GRASSO, Fondamenti di una spiritualità missionaria. Secondo le opere di Don Divo Barsotti, Università Gregoriana Editrice (Documenta Missionalia 20), Roma 1986. Molti riferimenti sono tratti da quest’opera.

2 Cfr. G. MAZZANTI, Spiritualità della presenza escatologica del Risorto. Evento eucaristico e comunione universale. Saggio extravagante sulla dimensione profetica di don Divo Barsotti, in Cerco Dio solo. Omaggio a Divo Barsotti. A cura di S. TOGNETTI - G. GUARNIERI - L. RUSSO, Comunità dei Figli di Dio, Settignano (FI) 1994, 193.
3 Cfr. Intervista a Divo Barsotti, in R. RIGHETTO, Monaci. Silenzio e profezia nell’era post-cristiana, Camunia, Firenze 1997, 41, cit. in Divo Barsotti. Testimone di Dio nell’Italia del Novecento. A cura di C. NARO - L. RUSSO, Paccagnella Editrice, S. Lazzaro di Savena (BO) 2001, 227. 
4 Tutti i brani che riportiamo tra virgolette, e che non hanno un riferimento bibliografico, sono tratti dal colloquio avuto con don Divo a maggio 2003. 
5 D. BARSOTTI, Monachesimo e mistica, Abbazia San Benedetto, Seregno 1996, 24-25, cit. in Divo Barsotti. Testimone di Dio…, 232.
6 E. GRASSO, Fondamenti…, 234. 
7 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Congresso Teologico Internazionale di Lublino del 15 agosto 1991, in “L’Osservatore Romano” (16-17 agosto 1991) 9.
8 Cfr. D. BARSOTTI, Prediche al Papa. La responsabilità dei preti, Cinisello Balsamo (MI) 1975, 67; 131; 134, cit. in E. GRASSO, Fondamenti…, 149-153.

Sul Padre Nostro. Divo Barsotti.

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(Giotto di Bondone, Lavanda dei piedi, 1300-1305,  Cappella degli Scrovegni, Padova)

Trascrivo la meditazione di don Divo Barsotti (1914-2006), scritta per un ritiro del 16 giugno 1966. Teologo, fondatore della “Comunità dei figli di Dio”, nel 1972 ha seguito gli Esercizi Spirituali di papa Paolo VI

Formula e distintivo dei discepoli di Gesù

Se Ascolta Israele è la formula che distingue l’Ebraismo (e può essere nostra perché noi siamo il nuovo Israele) ed è la formula che distingue essenzialmente tutto il popolo eletto tanto dell’Antico come del Nuovo Testamento, il Padre Nostro invece è la formula che distingue solo il Nuovo Israele, i discepoli di Gesù.
Per chiarire queste concetto rifacciamoci alla Sacra Scrittura. Come Ascolta Israele è un testo fondamentale del Deuteronomio, così il Padre Nostro è un testo del Vangelo.
Come il Deuteronomio, richiamando l’Alleanza del Sinai, vuole anche essere come il vademecum del pio Israelita più di qualsiasi altro libro della Sacra Scrittura ed è proprio nel Deuteronomio che già troviamo, si direbbe, i testi fondamentali e primitivi della liturgia ebraica (proprio per questo il Deuteronomio, a differenza di tutti gli altri libri dell’Antico Testamento, è quello che comporta di più formule già fatte e testi che saranno all’origine di tutta la produzione liturgica israelitica) così all’inizio di tutta la produzione liturgica propria del Cristianesimo, rimane il Padre Nostro. E questo mi sembra bene sottolinearlo proprio per chiarire precisamente l’importanza che deve avere per la nostra vita di preghiera, sia pubblica che privata, il Padre Nostro
Ma dobbiamo dire di più, cioè, Nostro Signore medesimo ha voluto dare, secondo i Vangeli Sinottici e in particolare seconde il Vangelo di Luca, il Padre Nostro come tessera di riconoscimento per i suoi discepoli.
Nel quarto Vangelo la tessera di riconoscimento per i discepoli dì Gesù è l’amore fraterno: “Da questo conosceranno che siete miei discepoli”, ma i Vangeli Sinottici riportano il Padre Nostrocome tessera e distintivo dei disecepoli di Gesù. Infatti il dono del Padre Nostro ai discepoli, Gesù lo fa stimolato da loro, i quali si rivolgono a Lui per averlo visto pregare: “Insegnaci a pregare”. Gli chiedono che come Giovanni Battista ha dato ai suoi discepoli una formula di preghiera, così anche Lui dia loro una formula. E il Padre Nostro diviene il segno distintivo dei discepoli di Gesù e Gesù lo dà proprio come segno della fede che essi hanno nel Cristo.

L’amore fraterno è pure il distintivo del cristiano

L’amore fraterno, secondo l’evangelista Giovanni, e il Padre Nostro, secondo sopratutto San Luca, sono i due segni distintivi dei discepoli di Gesù.
Quello che distingue Israele è l’ascoltare Dio, perché ancora l’uomo non può parlare a Dio, non è entrato in vera comunione con Lui. L’Israelita dirà i Salmi, è vero, ma quello che lo distingue è l’ascoltare Dio che gli dona una Legge. Quello che distingue invece il cristiano, che è redento ed è entrato nella vita divina, è il colloquio, il dialogo, il rapporto vicendevole: Dio ti ascolta, tu gli puoi parlare, tu sei figlio.
Lo schiavo non può parlare, può accettare soltanto una legge e obbedire e deve stare zitto. Ora invece l’uomo è figlio e non solo ascolta Dio ma anche gli parla.
Ecco quello che distingue veramente il Cristianesimo: l’uomo è entrato veramente in comunione con l’Eterno, può rivolgersi a Lui e stabilire con Lui il rapporto più intimo: Padre. L’uomo quando si rivolge a Dio con le preghiera del Padre Nostro riconosce un legame ontologico, una unione, una comunione di sangue.
Padre Nostro… tessera di riconoscimento perché dice una redenzione avvenuta, perché dice l’unità di una vita, perché assicura e garantisce una vera comunione di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio.
Ma perché tessera di riconoscimento dei cristiani sarà anche l’amore fraterno? L’amore fraterno viene dopo aver riconosciuto un padre. Noi siamo fratelli soltanto se Dio è Padre, perché altrimenti, sul piano umano, nulla ci fa fratelli essendo stata la natura umana divisa e disgregata col peccato.
Dopo il peccato che cosa vi è di comune fra uomo e uomo? Il rapporto dell’uomo con l’uomo, dopo il peccato, non è tanto la comunione, quanto la guerra. Praticamente la storia di questo mondo è storia soltanto di guerre.
Ma se tu hai ritrovato il Padre, Dio, in Dio anche hai ritrovato gli uomini come tuoi fratelli. La paternità divina ristabilisce un’unione fra gli uomini che è ben altrimenti profonda di quella soltanto di natura. Ed è per questo che altra tessera di riconoscimento, allora, sarà l’amore fraterno.

L’uomo può raggiungere Dio?

Un’altra cosa che vorrei notare a proposito del Padre Nostro ed è il modo veramente strano della sua composizione. Sembra che tutto sia fatto a rovescio. Effettivamente sembra più logico terminare con la parola “Padre” che è certamente il vertice di ogni cosa. Dopo aver detto questa parola il resto è tutto compreso. Allora Nostro Signore ha sbagliato questa preghiera?
Vorrei dirvi una cosa: effettivamente sarebbe sbagliata soltanto se noi potessimo giungere a questo vertice, che è Dio, partendoci del basso, salendo. Ma vi è strada fra l’uomo e Dio? Non vi è strada. Hai voglia di camminare o di salire, non raggiungi mai Dio. Bisogna che Dio ti ponga sul vertice e di là discendi fino ad abbracciare ogni cosa.
In fondo il processo cristiano è questo: Dio ti stabilisce in Sé, poi una volta che ti ha stabilito in Sé, che ti ha portato come aquila sulle altezze, allora di là domini tutto e puoi scendere anche nella valle. Ma dalla valle tu non sali al cielo. Sarebbe, mi sembra, la presunzione degli antichi giganti quella di scalare il cielo, pretendendo con le nostro forze, attraverso l’ascesi i Comandamenti, l’amore del prossimo di arrivare fino a Dio. Che pensi di poter fare con le tue forze?

La mistica precede l’ascesi

Quello che io ho sempre detto, anche il Padre Nostro lo giustifica. Si è sempre sentito dire che prima viene l’ascetica e poi la mistica. È il contrario che è vero! Che vuoi fare con l’ascetica? È la mistica che determina il grado di ascesi. È nella misura che Dio si fa presente che tu puoi fare il vuoto di tutto; altrimenti come fai a fare il vuoto se non sei riempito di nulla?
È Dio che rende possibile e l’esercizio anche minimo della virtù e poi l’esercizio massimo nella misura che vivo in te Dio ha l’iniziativa. Noi non possiamo nemmeno avere il desiderio della fede senza la grazia preveniente. È Dio che fa tutto!
Che bello, però, tutto questo! Pensando di fare noi ci si accorge poi che in fondo, dopo esserci tanto arrabattati, siamo al medesimo punto di prima. Ed è giusto; perché fin tanto che non perdiamo la presunzione di poter fare senza Dio, non combiniamo nulla. È la forza della grazia che determina in noi e l’esperienza di Dio e la santità della condotta.
Molto spesso l’esperienza più alta di Dio, almeno la più sicura non sono tanto le estasi, ma il fatto che noi siamo fedeli, Dio vive in te nella misura che ti rende capace di conformare la tua volontà alla Sua. Non cercare altro, perché, in fondo, se tu cerchi altro, l’altro è molto meno sicuro, molto meno ti garantisce una presenza divina, di questa tua fedeltà.
Ecco perché la suprema mistica è sempre la conformità della propria alla volontà di Dio e l’esperienza più alta della nostra vita divina è la fedeltà ai divini Comandamenti. È questo bisogno, questa facilità che proviamo nel compiere quello che interiormente sentiamo più perfetto e che più può piacere a Dio. Tutto questo ci assicura più di qualsiasi altra cosa. Se poi sentiamo non soltanto docilità, facilità al compimento di quello che è il piacere di Dio, ma sentiamo che, in fondo, tutta la nostra vita non è che un atto solo, tutti i nostri atti pian piano si riducono all’atto onde l’anima consente a Dio di essere, che Egli sia, la volontà essenziale,basta! che volete cercare di più? Non c’è nulla di più alto di questo!
Se tu consenti che Dio sia mentre hai un cancro, la lebbra, mentre sei battuto, o buttato fuori dalla finestra, che vai a cercare le estasi? Basta questo.
Ecco, Dio precede, dunque, l’atto umano, perciò anche l’ascesi, Per questo Padre nostro che sei nei celi.
L’anima ai porta d’impeto sulle altezze vertiginose della vita divina.

Dire Padre è già entrare nella vita trinitaria

Che cosa vuoi dire Padre. È il richiamo alla vita trinitaria, perché non si dice Padre al Dio Unico, si dice Padre alla Persona del Padre. È alla Persona del Padre che si rivolge la mia preghiera.
Allora, vedete Padre nostro implica veramente un volo che ci porta al di là di tutti i termini, più in là non si va. È la vita Trinitaria pura, semplice, assoluta.
Dire Padre vuol dire vivere la vita del Figlio di Dio, perché la vita del Figlio di Dio non è altro che dire Padre come la vita del Padre non è che dire Figlio – Tu sei mio Figlio, la generazione dei Figlio, dire la Parola. Questa è la vita del Padre. Anche la vita dei Figlio è dire la Parola, ma la Parola rivolta verso di Lui è la Parola che nuovamente a Lui si volge: Padre!
Cosa più alta di questa non può esistere, non dico in questa vita, ma nemmeno nell’altra. Non dico per gli uomini, ma nemmeno per Iddio, perché la vita stessa di Dio consuma in questa aspirazione dei Figlio: Padre! come la vita dei Padre consuma in questa aspirazione: Tu sei mio Figlio! Figlio!
Dice il Beato Contardo Ferrini che se l’anima ascolta Dio che lo chiama figlio, anche l’anima non vive più che una risposta di amore a Dio chiamandolo Padre e l’anima esala tutta la vita dicendo Padre!
Pensate, dire questa parola sarà tutto il Paradiso, sarà tutta l’eternità, tutta la nostra vita, tutta la vita degli uomini, tutta la vita di Dio, la vita del Figlio di Dio: Padre!
Non siamo già agli estremi limiti? E di lì poi si passa: Non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male.
Giusto, perché l’anima una volta salita lassù, deve ora vivere in tutte le sue potenze questa vita divina. E questa vita divina non la può vivere in tutte le sue potenze e in tutte le espressioni della vita umana, che, prima di tutto, in una realizzazione del Regno.

Sia santificato il Tuo Nome

Il commento al Padre Nostro si può compiere precisamente attraverso il Vangelo. Ricordate le ultime parole della preghiera sacerdotale di Gesù? Io ho fetta conoscere il Tuo nome e lo farò conoscere ancora. La conoscenza del Nome è la santificazione anche del Nome. Dio è glorificato nella misura che tu lo conosci come Padre, nella misura che tu lo riconosci e vivi il tuo rapporto con Lui come Padre. Dio si fa presente nella Sua intima vita, proprio nella tua vita in quanto Egli ti genera come figlio nel Figlio, e in quanto tu, come figlio, a Lui ti rivolgi. Ecco la santificazione del Nome. Ho fatto conoscere il Tuo nome e lo farò conoscere ancora. Ecco l’estrema glorificazione.
Ecco la vita intima di ciascuno. Però questo non e tutta la vita. Da questa nostra. santificazione, glorificazione in Dio, divinizzazione dell’essere creato, procede la comunità ecclesiale, il Regno di Dio.

Venga il Tuo Regno

Dopo il singolo, la comunità, Così come già è implicito nella invocazione iniziale: Padre nostro. Queste due paroline si allargano, si esemplificano, si spiegano, si direbbe, nelle prime due domande. La santificazione del Nome in quanto sono figlio e Lo glorifico come Padre; l’avvento del Regno in quanto questa santificazione non riguarda più il singolo soltanto, riguarda la comunità come tale.
Il Regno implica un popolo, una nazione, una comunità, L’avvento di questo Regno è il termine ultimo.
Ma come si giunge a questo?

Sia fatta la Tua Volontà

Nel compiere la volontà divina, nel far sì che si realizzi il piano di Dio. Venga il Tuo Regno è la presa di posizione da parte di Dio di tutta la comunità umana, di tutta la creazione. Il modo di avvenire è nel compimento della volontà divina. E questa deificazione implica una trasfigurazione di tutto l’essere umano.
La grazia divina non porta alla contemplazione di Dio soltanto l’intimo vertice dell’anima, ma investe tutta la natura dell’uomo, e questa grazia implica che nessuna attività umana si sottragga alla divinizzazione stessa.

Dacci oggi…

Di qui la richiesta del pane. Perché prima di tutto il Dacci oggi il nostro pane quotidiano vuol dire immediatamente il pane corporale; vorrà anche dire il cibo spirituale, ma prima di tutto, letteralmente vuol dire “pane”.
È l’uomo totale che è santificato da Dio, è l’uomo totale che è investito dalla grazia di Dio. Dal vertice dell’anima la grazia giunge anche alla natura fisica e a tutto provvede, tutto santifica, tutto investe di sé.

Rimetti a noi… come noi…

Poi si passa di nuovo dall’individuo alla comunità, ai rapporti con gli altri. L’unione con Dio implica l’unione con gli uomini.
Il perdono che Dio dona all’uomo e che tu implori, esige da te, come sua contropartita, il perdono che tu devi dare agli altri: la comunità che si realizza attraverso un perdono reciproco.
E a questo proposito faccio notare che anche l’unione fra noi non è mai possibile senza un vicendevole perdono, Dobbiamo rendercene conto. Come non è possibile l’unione con Dio – non siamo il Figlio Unigenito – senza un perdono implorato e ottenuto da Lui, così non potrà mai sussistere una unione fra gli uomini se non attraverso una vicendevole pazienza, che è anche un vicendevole perdono.
La Chiesa ha bisogno di chiedere perdono ai comunisti oltre che ai cristiani separati, la Chiesa come comunità e ciascuno di noi, perché certamente anche verso i comunisti abbiamo delle colpe noi singoli cristiani. Anche loro le hanno verso di noi, è sempre vicendevole. E quale è la misura del più e del meno? Lo sa Dio, noi sappiamo soltanto che siamo manchevoli e perciò il nostre onore deve essere essenzialmente legato alla misericordia. Alla misericordia di Dio che deve perdonarci, e anche ella misericordia che ciascuno di noi deve avere verso l’altro. Mai rigidezza, mai orgoglio.
La comunità si stabilisce, si crea attraverso questo esercizio di misericordia di Dio verso l’uomo e degli uomini verso i loro fratelli. Bontà, perdono, pazienza, accettazione degli altri. Ecco… così, si stabilisce il Regno, si compie la volontà divina.

Non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male

Il fare la volontà divina Che cosa implica? Non essere indotti in tentazione, essere liberati dal male perché il male vero è il non compimento di questa volontà. Sicché, in fondo le prime tre domande del Padre Nostro che chiedono la glorificazione di Dio possono essere realizzate solo nella misura che noi viviamo le altre tre domande.
Dio e l’uomo sono ineffabilmente congiunti, sicché è impossibile la glorificazione di Dio senza la liberazione umana dal peccato, dal male, dal poco amore verso i fratelli. Sono condizionate. Si discende, ma senza separarci dalla vetta, senza separarci da questo vertice in cui l’anima sempre riposa, sempre rimane.
Rimanendo in questo vertice della vita divina, della aspirazione al Padre, l’anima realizza la sua divinizzazione che investe anima e corpo.

Mirabile compendio

Nel Padre Nostro c’è tutto il programma della vita cristiana, e c’è tutta la vita divina vissuta dall’uomo.
La realizzazione della divina Volontà implica che noi siamo già un po’ nella vita divina, implica già un essere noi in Dio. Il Padre Nostro ci dice un po’ quello che ci dice San Paolo quando da una parte afferma che noi siamo rivestiti del Cristo e dall’altra ci dice che dobbiamo rivestirci del Cristo. Così nel Padre Nostro: nella prima parte viviamo tutta la vita di Dio, nel invocarloPadre, nel bisogno di esaltarne il Nome, di realizzare il Regno, di compiere la Sua volontà; e nella seconda parte chiediamo di essere liberati dal male, di esercitare la misericordia verso i fratelli, di ricevere l’alimento da parte di Dio per l’anima e per il corpo per potere realizzare il Suo Regno, santificare il Suo Nome, compiere la Sua Volontà.
Ecco in sintesi tutto il Padre Nostro. Deve essere il nostro programma di vita e la nostra tessera di riconoscimento, prima di tutto come cristiani e poi anche come membri della Comunità.
Ed è bello, mi sembra, che la Comunità dei Figli dì Dio non voglia realizzare altro che la vocazione propria del cristiano.
Non andiamo a cercare devozioncine qua e là: Padre Nostro! Ma come dobbiamo dirlo bene, come dobbiamo cercare di realizzare questa parola per vivere già quaggiù sulla terra la vita del cielo!

domingo, 21 de julho de 2019

MI ALZO – di don Divo Barsotti – Tratto da “ La mia giornata con Cristo”

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Gesù ha vissuto esattamente la nostra vita. Vi è un rapporto tra quello che egli ha compiuto e quello che noi compiamo, fra quello che ha sofferto e quello che noi soffriamo, fra quello che è stato il suo vivere fra gli uomini e quello che è il nostro vivere: un rapporto non soltanto fondato sulla comune natura umana che agisce abitualmente nel medesimo modo (infatti tutti gli uomini agiscono conformemente a natura: e questo vuol dire che tutti gli uomini mangiano, dormono, possono amare o possono odiare, conoscono la sofferenza e conoscono la gioia), ma un rapporto più profondo: egli è l’uomo che in sé, in qualche modo, tutti ci contiene.
La vita nostra di oggi non può dunque non avere un legame intimo e profondo con la sua vita di allora. La vita di Gesù, purcosì breve, è veramente una vita che abbraccia tutta la storia, che contiene tutti. Non soltanto siamo contenuti nel suo cuore perché Egli ci ama, e nella sua intelligenza perché ci conosce: siamo contenuti nella sua vita.
Si capisce bene allora come sia naturale, facile, il vivere con Gesù. Sarebbe stata una cosa impossibile, un'assurdità, pensare che noi potessimo vivere con Dio: quale rapporto vi è mai fra Dio e l’uomo, perché noi potessimo pensare alla possibilità di una comunione con la pura Divinità? La Divinità non mangia, non dorme, non ha i nostri sentimenti, non agisce come noi;  che cosa   vi è di comune perché noi potessimo vivere in una comunione con Dio? E pur tuttavia siamo stati chiamati a vivere una comunione con  Dio:  questo avviene attraverso la mediazione del Cristo,  "per ipsum", per la grazia che Lui ci ha meritato; «cum Ipso», in compagnia di Gesù, vivendo in una comunione intima con Lui fatto uomo, perché in Lui veramente anche l’uomo vive una comunione con Dio; in un’unione ineffabile, in una identificazione con Cristo, «in Ipso». «Et societas nostra sit cum Patre et cum Fílio eius»: «La nostra comunione sia con il Padre e con il Figlio suo» (1Gv 1,3). Così è possibile per noi vivere una comunione con Dio. Altrimenti l'abisso infinito che separa la creatura dal Creatore non può essere valicato: l’uomo rimane nella sua solitudine e Dio nella sua. Non c’è possibilità di contatto. Solo per Cristo, solo col Cristo. E noi dobbiamo vivere con Lui, con Gesù.
Come si vive con nostro Signore? Che cosa vuol dire vivere con Lui? Dobbiamo dare un certo ordine al nostro discorso: quale ordine? Quello che ci impone la stessa natura: dobbiamo accettare la vita così come la natura ce la dona, e viverla in unione con Lui. Ora, la natura ci fa vivere in tal modo che la nostra vita ha un senso compiuto, almeno nel disegno divino, anche se noi non riusciamo a vedere la sua compiutezza. Così ogni nostra giornata ha un senso compiuto, e ogni nostra giornata somiglia all’altra. Infatti, anche ieri abbiamo dormito e ci siamo alzati; così anche oggi e probabilmente, se non moriremo, anche domani ci alzeremo. Ogni giorno si ripete. È una misura completa, la giornata dell’uomo. Così la giornata dell’uomo in piccolo è tutta la vita e anche tutta la storia. Ha un inizio e una fine, un progresso e un declinare; e in questa parabola vi è tempo per mangiare e per dormire, per parlare e per lavorare, per amare, come dice il Qoelet, e per ricrearci. Per questo l'ordine che stabiliamo per le nostre meditazioni ci viene dato precisamente dalla giornata. Qual è il primo atto della giornata? 

L'alzarci.
Che cosa vuol dire alzarci se dobbiamo vivere questo atto in unione con Cristo? Prima di alzarci bisogna essere svegli. Il passaggio dal sonno all’essere desti è un atto fra i più importanti della giornata, perché è l'atto che la inizia. Fintanto che non sei sveglio, evidentemente tu dormi, ma che cosa vuol dire dormire? Vuol dire non esser capace di atti umani; vuol dire che tu non sei consapevole di quello che fai e che non sei responsabile, perciò, di quello che pensi, di quello che puoi sentire o volere nel sonno. Con lo svegliarsi comincia la vita umana. Lo svegliarsi vuol dire, per l’uomo, riprendere il pieno possesso di sé. Per che cosa? Lo dice il Salmo 104(103),23: per impegnarsi al lavoro. L'uomo può riprendere il suo compito umano, la sua missione, il suo lavoro, solo da sveglio. È nella misura in cui è sveglio, che veramente può uscire «ad opus suum». Il Salmo 104(103), 23 nell’Ora Sesta del Sabato dice: «Exit homo ad opus suum et ad operationem suam usque ad vesperum»: L'uomo esce al suo lavoro, per la sua fatica fino a sera. Il contenuto della giornata è massimamente il lavoro, la missione propria dell’uomo. -
Il primo atto è proprio lo svegliarci. Ora, che cos'è lo svegliarsi dal sonno, il passaggio dal sonno all’essere sveglio? Dobbiamo chiedercelo. Vi è indubbiamente sempre un rapporto fra la natura fisica e l’uomo, e poi fra l’uomo e Dio; Dio stesso l'ha stabilito prima di tutto nella nostra stessa natura, poi nella sua Incarnazione.
Che cos'è il sonno? È, in qualche modo, l'assenza della vita, almeno della vita umana: una sospensione di questa vita. Tu sei come inghiottito dal caos primigenio, precipiti come nella morte ogni qualvolta ti abbandoni al sonno. Di fatto, tu non vivi più una vita umana. Può continuare la vita puramente vegetativa, animale, ma non la vita umana: la vita umana è sospesa. Sul piano, dunque, della vita spirituale qualche cosa si è interrotto per te che cosa fa la tua intelligenza? Che cosa fa la tua volontà? Dal momento che sono potenze legate a un organo corporco e agiscono attraverso di esso, l’organo corporeo non è atto in quel momento a suscitare quelle potenze, a far sì he l'uomo posa veramente volere e pensare, in un modo libero e conciente. L'intelligenza e la volontà non trovano nel Corpo, che pure animano (l'anima durante il sonno continua ad animare il corpo umano) uno strumento che le faccia passare dalla potenza all'atto, che dia all'uomo la possibilità, cioè, di essere libero e cosciente di quello che fa, di esserne responabile. E' come morto. Questo sul piano puramente umano. Anche sul piano soprannaturale, in una sua trasposizione, il sonno è immagine della morte. Che cos'è il sonno dell’anima se non precisamente una morte? L'uomo vive, vegeta, ma non vive in Dio. E come chi dorme non vive una vita pienamente umana, così chi è nel peccato vive, vegeta come uomo, ma non vive come figlio di Dio. Tutta la Scrittura mette in rapporto il sonno con lo stato di peccato: non col peccato che compio hic et nunc ma con l’effetto che segue al peccato.
La nostra vita è talmente povera sul piano soprannaturale che la liturgia può sempre invitarci a svegliarci dal sonno, come a un risvegliarci dal peccato: non come avessimo commesso dei peccati nel sonno, ma nel senso che veramente il nostro torpore è uno stato che deriva dal peccato. L’incapacità per noi di usare immediatamente le nostre potenze per metterle a servizio di Dio, l’incapacità di applicarci immediatamente ad amare il Signore, sono reliquie del peccato. Appena vi svegliate potete avere anche il pensiero di Dio, ma prima di impegnare veramente tutte le vostre potenze nell'amore di Dio, quale fatica!
Lo svegliarsi deve essere precisamente l'atto dell'anima che si riprende tutta per rispondere a Dio che è la Luce. «Ego sum lux mundi: qui ambulat in taenebris, non habebit lumem vitae»: «Io sono la luce del mondo: chi cammina nelle tenebre non avrà la luce della vita». «Fintanto che avete la luce, camminate nella luce» dice Gesù nel Vangelo (cfr. Gv 8,12; 12,35).
Ogni qualvolta ci destiamo, la prima cosa che dobbiamo realizzare non è soltanto questo trasporci dal sonno alla realtà della vita umana; dal sonno, che non è soltanto fisico ma è anche l’espressione stessa di uno stato di peccato, di torpore, di pigrizia, di lentezza nel bene, di incapacità di amare. Dobbiamo realizzare immediatamente il trasferimento in un piano di comunione con Dio.
La luce del giorno che viene, ci fa alzare, ci risveglia, ci ridona una nuova capacità di applicarci al lavoro, di continuare la nostra vita, di impegnarci nei compiti che sono propri della nostra esistenza. Immediatamente lo svegliarmi dal sonno mi mette di nuovo in contatto con i miei doveri. Finora io non ero sollecitato da essi: dormivo! Anche una mamma che vuol bene al suo figliolo, fintanto che dorme non ci pensa; bisogna che il figliolo stesso, piagnucolando, la svegli: se poi, piagnucolando, la sveglia, allora ella è pronta a compiere il suo dovere di madre, ad allattare il piccino, a cullarlo.
Da questo torpore in cui l'anima vive, e di cui è espressione concreta il sonno fisico, l'anima si risveglia immediatamente per riprendere la sua missione di vita soprannaturale, vita divina di amore, di impegno per Dio. Immediatamente l’anima riprende tutte le sue potenze per metterle al servizio divino. Dice l’apostolo Paolo: «È ormai ora che vi svegliate dal sonno, perché la salvezza è a noi più vicina ora di quando abbiamo creduto. La notte è già inoltrata, il giorno si avvicina. Svestiamoci dunque delle opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce» (Rom 13,11-12). E dice ancora nella Lettera agli Efesini, probabilmente riportando l’inizio di un inno della liturgia cristiana primitiva: «Tutte le cose che sono confutate vengono rese manifeste dalla luce, perché tutto ciò che è reso manifesto è luce. Per questo è detto: “Svegliati, o tu che dormi, sorgi dai morti e su di te splenderà il Cristo”» (Ef 5,13-14).
Il primo atto della nostra vita umana è uno svegliarci, un riprendere pieno possesso di tutte le nostre potenze. Tante volte, è vero, lo svegliarci avviene così lentamente! Che questo non dipenda da un nostro rilassamento! Se veramente abbiamo dormito, è l’ora di svegliarci del tutto, di non stare a poltrire, ma di riprendere pieno possesso di tutte le nostre energie, per metterle a servizio di quello che è il dovere, il compito del giorno, il nostro lavoro.
Prima ancora del nostro lavoro, o – meglio – insieme al nostro lavoro perché è una cosa sola con esso, si impone per noi il metterci a servizio di Cristo. È il sole che fa il giorno, e Cristo è il sole che fa la giornata della tua vita, che illumina la tua vita: le dà un contenuto, le impone una missione. Via via che sorge il sole, cresce in te l’esigenza di un impegno anche religioso, perché via via che sorge il sole, anche la grazia si effonde in te: è quello che ci insegnano le Ore minori della liturgia. Non si prega sempre nello stesso modo: la preghiera del Breviario non è una preghiera uniforme. Non si può dire l'Ora di Prima la sera, quando si va a letto; non si può dire Sesta al mattino, perché sesta è la preghiera del mezzogiorno: vi si parla infatti del calore torrido che può essere nocivo allo spirito, dell’immobilità che nasce da una pienezza della luce. La nostra vita religiosa è legata al ritmo della giornata. Perché? Perché Dio non agisce sull’uomo indipendentemente dai segni, da quei mezzi che egli si è scelto e che sono i mezzi che offre la natura stessa dell’uomo, la natura delle cose. Proprio per il fatto che per noi la vita religiosa è divisa da quella della natura, la nostra vita soprannaturale è intermittente, si passa dal profano al sacro, si fa nella vita religiosa come nelle “montagne russe”: si va su e giù continuamente, senza mai rimanere fermi, stabili nel servizio di Dio. Tutto questo avviene perché, ad esempio, non viviamo a Sesta quello spirito religioso che il segno del sole, nella sua piena luce, ci fa vivere di Dio.
Così all’inizio vivi lo svegliarti dal sonno in un riprenderti totale, per metterti a servizio del Signore. Ti metterai a servizio di Dio in un risveglio totale, solo nella misura in cui avrai la percezione di una tua impotenza, di un torpore che ti lega, ti paralizza. Siamo come paralizzati quando ci destiamo, ci sentiamo come tutti legati e ci si stira. Ebbene, bisogna riprenderci con decisione e fermezza. Se destandoti tu veramente hai di nuovo il potere di agire sulla tua volontà e sulla tua intelligenza, e sei consapevole dei tuoi doveri, allora devi riprenderti totalmente e metterti fin dall'inizio a servizio di Dio, del Cristo.

 Svegliarci che cosa dunque vuol dire? Vuol dire sentire il bisogno di metterci a servizio di Dio, ma sentirci anche impotenti a farlo a causa di un torpore naturale che ci paralizza. Anche la liturgia parla di uno stato di peccato, di un sentimento di impotenza nel metterci a servizio di Dio, e ce ne parla con gli inni del Martutino e delle Lodi, con le preghiere cioè che si dovrebbero dire di notte – perché il Mattutino si dovrebbe dire di notte – e le Lodi al primo barlume del giorno. L’uomo, nelle ore di notte, svegliandosi dal sonno, si sente così intorpidito, così fiacco, che realizza la propria impotenza nei confronti di Dio, la propria debolezza, il proprio stato di umiliazione. Siamo davvero della materia grezza, siamo della mota: non riusciamo mai a prenderci totalmente in mano per metterci a servizio di Dio. L'anima lo sente e implora l’aiuto divino.
Come ci si sveglia? Ci si sveglia nella consapevolezza di doveri nuovi che s’impongono e nel sentimento della nostra impotenza ad adempierli. Ci si sveglia col desiderio o almeno con una certa visione di quelle che possono essere le esigenze di Dio sulla nostra vita, sul nostro spirito; ma anche col riconoscimento che non potremmo far nulla per amarlo veramente come Egli vuole essere amato da noi.
Quando sarai pienamente sveglio ti sembrerà di poter fare qualcosa per Lui. Appena desto, ti sembra invece che, se la grazia non ti soccorre, tu sia del tutto impotente a rispondere. E allora che cosa si impone? Che tu viva con Cristo questo bisogno perché Egli ti risani. Se destandoci ci alziamo, e lo svegliarci ci impone che ci alziamo, noi possiamo paragonare il nostro primo atto della giornata all'atto del paralitico, cui Gesù si rivolge. Non il letto deve dominare te, ma tu dominare il letto: «Prendi il tuo letto e cammina» (Lc 5,24).
Ecco come si vive in compagnia del Signore. Nel sentimento di un'impotenza assoluta, pure sveglio, pur destato dal sonno, ti senti come incapace di muoverti, di riprendere il tuo cammino. Sempre lo stesso: la stessa fatica, la noia, l’inefficacia del tuo lavoro... Perché riprendere questo cammino senza fine e senza perché? E tu staresti così volentieri a letto a lasciar passare tutto il tempo, senza più doverti risvegliare per riprendere il lavoro! E il lavoro è anche l'impegno di una tua santificazione, di una perfezione cristiana, che sembra sempre più allontanarsi da te quanto più veramente ti impegni. E allora perché riprendere la fatica, ricominciare il cammino? Sembra così inutile! Dopo tanti anni che si vive, sembra soltanto di Vegetare: siamo sempre allo stesso punto e ci verrebbe di dire: «Sì, sono sveglio, ma avrei voglia di riaddormentarmi; l'unica cosa buona è di addormentarmi e dormire».
In questo sentimento della tua povertà e della tua impotenza devi rivolgerti a Cristo. Anche il paralitico aspettava uno che lo calasse nell'acqua; e non c'era nessuno con lui. Credevi di essere solo nella tua impotenza? Credevi di essere solo nella tua fiacchezza, in questo tuo torpore? No, Gesù è accanto a te e ti dice: «che fai?»Tu devi sentirlo vicino, perché Egli è con te, tu sei con Lui. È con te anche allora, vicino al tuo letto e ti dice: «alzati!». È la sua parola che ti dice di alzarti. Prima che tu possa udire la sua voce sei fiacco, non riesci a muoverti. Ma se ascolti la sua voce, se veramente vivi con nostro Signore, allora ti sembra di essere rinato e ti riesce, prima un piede e poi l'altro, di metterti fuori. Il freddo poi che senti nell’uscire dal letto ha anch'esso la sua parte nello stimolarti e risvegliarti totalmente: «Alzati e cammina».
Proprio perché ci alziamo possiamo anche camminare; proprio perché ci liberiamo dal nostro torpore, possiamo subito metterci all’opera. Fintanto che rimani a letto sveglio, certo non puoi camminare e nemmeno lavorare. Ti riprende di nuovo il sonno, vivi nel dormiveglia, ti abbandoni al tuo torpore, alla fiacchezza, a un senso di impotenza. Basta che tu risponda alla parola di Dio che ti chiama e che ti getti fuori dal letto: allora per te si rende possibile subito pensare a una cosa e all’altra. Gettatevi fuori e vedrete. Urgono subito tanti doveri, tante necessità: bisogna far questo, quello... Bisogna andare a far la spesa, vedere la tale persona, scrivere la tale lettera, rimettere a posto la tale stanza. Subito, immediatamente!
«Cammina!», dice Gesù. Al primo atto dell’anima che risponde a Cristo che l’ha chiamata, segue poi tutta la giornata come frutto. Il primo atto della giornata è quello dal quale tutto dipende. Se si comincia col nicchiare, si nicchia poi tutto il giorno. Se non si nicchia nel lavoro perché c'è l’urgenza di quelli che ti vengono a richiedere quello che tu avevi promesso, si nicchia nella vita spirituale: si rimanda a domani, «tanto c'è sempre tempo» si dice. E allora si continua a dormicchiare anche se siamo svegli, si continua a rimanere nel dormiveglia anche se camminiamo, anche se lavoriamo. Si sta così bene in questo dormiveglia spirituale in cui non avvertiamo chiara, precisa, la parola di Gesù: «Alzati e cammina!». «E cammina!». E anche se portiamo il nostro corpo attraverso le strade, la nostra anima spesso continua a rimanere nella sua sonnolenza, perché fin dall’inizio non ha risposto, e non rispondendo subito non ha ottenuto il potere, la grazia di rispondere poi, Che cosa sarebbe successo al paralitico se non avesse risposto a Gesù? Sarebbe rimasto paralitico, Che cosa può succedere a noi se non rispondiamo alla parola del Cristo che ci chiama? Rimaniamo quelli che siamo. Continueremo a lavorare sul piano naturale ed umano, ma vivremo la nostra giornata priva di luce sul piano soprannaturale. Vivremo la nostra giornata non in compagnia di Gesù, «cum ipso», ma soli perché fin dall'inizio abbiamo rifiutato di ascoltarlo, per vivere con Lui.
Mi sembra che sia questo che ci dice lo svegliarci al mattino in compagnia del Cristo: nel torpore, nell'impotenza a muoverci, il bisogno che un altro ci chiami e ci dia il potere. Qualche cosa di simile avviene anche sul piano puramente umano e naturale. Quando noi, per esempio, siamo mezzi addormentati, può essere veramente che la parola di un altro ci aiuti a svegliarci. Non perché sia un taumaturgo: tutte le mamme non fanno miracoli quando fanno alzare i loro figlioli da letto perché vadano a scuola! Ma il fatto che la mamma chiami il figliolo, dà al figliolo il potere di rispondere, di gettarsi fuori.
Tanto più la parola del Cristo ha il potere di svegliarci, di richiamarci, di darci forza per cominciare la nostra giornata. E Cristo è con te: ascoltalo perché s'inizi bene la giornata, perché fin dal principio sia una risposta a Colui che chiama. Allora tutta la giornata sarà un seguire Lui, sarà un andar con Lui, sarà un vivere la sua medesima vita.
Infatti non si può vivere con Gesù pensando che Gesù voglia adattarsi alla nostra miseria: vivere con Lui imporrà sempre, più o meno, che noi ci adattiamo a vivere la sua medesima vita. «Exsurge a mortuis», come dice l'apostolo Paolo: «Svegliati, o tu che dormi, sorgi dai morti, e su di te splenderà il Cristo
(Ef 5,14).