sábado, 19 de julho de 2014

Karl Rahner presentava il Vaticano II come l’inizio di una nuova epoca nella storia della Chiesa

Il Conciliatore

scheda_immagine_id218Riportiamo un articolo di Roberto de Mattei uscito su “Il Foglio”del 12 luglio 2014 con il titolo
Il Concilio Vaticano II è stato un Concilio “tradito”? E da chi? La domanda è pertinente, all’indomani della pubblicazione dell’Instrumentum Laboris, il documento vaticano che avvia la discussione del prossimo Sinodo sulla famiglia. I testi citati dall‘Instrumentum Laboris sono infatti solo conciliari e postconciliari, come se sul tema, oggi cruciale, della famiglia, ci sia stata una radicale svolta del Magistero della Chiesa dopo gli anni Sessanta. leggi tutto

LA SANTA MESSA di Don Vincenzo Cuomo . «La comunión en la mano no tiene nada que ver con la Iglesia primitiva, es de origen calvinista» .Cardeal Ranjith: Comunhão deve ser recebida de joelhos




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    Athanasius Schneider, experto en Patrística y obispo auxiliar en Kazajistán, explicó en una emisora de Radio María cómo se comulgaba entonces.


    In Religión en Libertad

    Athanasius Schneider tiene 50 años, es ucraniano y desde 2006 ha ejercido como obispo auxiliar en dos diócesis de Kazajistán, una ex república soviética con un 26% de población cristiana, mayoritariamente ortodoxa pero con una pujante comunidad católica.

    Recientemente, monseñor Schneider, que es experto en Patrística e Iglesia primitiva, explicó en la emisora de Radio María en el sur del Tirol las diferencias entre la forma de comulgar en la Iglesia primitiva y la actual práctica de la comunión en la mano.

    Según afirmó, esta costumbre es "completamente nueva" tras el Concilio Vaticano II y no hunde sus raíces en los tiempos de los primeros cristianos, como se ha sostenido con frecuencia.

    En la Iglesia primitiva había que purificar las manos antes y después del rito, y la mano estaba cubierta con un corporal, de donde se tomaba la forma directamente con la lengua: "Era más una comunión en la boca que en la mano", afirmó Schneider. De hecho, tras sumir la Sagrada Hostia el fiel debía recoger de la mano con la lengua cualquier mínima partícula consagrada. Un diácono supervisaba esta operación.

    Jamás se tocaba con los dedos: "El gesto de la comunión en la mano tal como lo conocemos hoy era completamente desconocido" entre los primeros cristianos.

    Origen calvinista
    Aun así, se abandonó aquel rito por la administración directa del sacerdote en la boca, un cambio que tuvo lugar "instintiva y pacíficamente" en toda la Iglesia. A partir del siglo V, en Oriente, y en Occidente un poco después. El Papa San Gregorio Magno en el siglo VII ya lo hacía así, y los sínodos franceses y españoles de los siglos VIII y IX sancionaban a quien tocase la Sagrada Forma.

    Según monseñor Schneider, la práctica que hoy conocemos de la comunión en la mano nació en el siglo XVII entre los calvinistas, que no creían en la presencia real de Jesucristo en la eucaristía. "Ni Lutero", que sí creía en ella aunque no en la transustanciación, "lo habría hecho", dijo el obispo kazajo: "De hecho, hasta hace relativamente poco los luteranos comulgaban de rodillas y en la boca, y todavía hoy algunos lo hacen así en los países escandinavos".

    http://jesus-logos.blogspot.com/

    LA SANTA MESSA di Don Vincenzo Cuomo

    LA SANTA MESSA
    di Don Vincenzo Cuomo - Casa Mariana Editrice
    Mi accingo a spiegare ai fedeli il mistero della Santa Messa.
    Immaginate che, terminata la Santa Messa, un fedele venga avvicinato da un musulmano che gli chiede: «Che cosa è questa Santa Messa?».
    Quanti cattolici sarebbero in grado di dare delle spiegazioni sufficienti?
    Dobbiamo prendere atto che tanta gente che va a Messa non è cosciente del mistero che vi è na­scosto.
    Perciò avviene che sono molti quelli che vi assistono (come ad uno spettacolo...) pochi quelli che vi partecipano attivamente.
    Dico una ... impertinenza! Probabilmente an­che qualche sacro Ministro celebra la Santa Messa senza approfondire il Mistero di cui lui stesso è protagonista. Questo potrebbe spiegare il fatto che qualche Messa dura ... un quarto d'ora!

    LA SANTA MESSA MISTERO DELLA PRESENZA DI GESÙ TRA GLI UOMINI
    La parola Mistero non vuol dire qualcosa di fantasioso, di astratto, frutto di finzione della mente ma praticamente inconsistente, nulla di concreto e reale! Questo è un tragico errore!
    Mistero è un fatto, una realtà sia spirituale sia materiale la cui natura sfugge alla capacità della mente umana.
    Altro è sapere che una cosa c'è, altro è com­prendere la natura della cosa. Il non comprendere dipende dal mistero in se stesso e dai nostri limiti.
    Chi può mettere in dubbio i nostri limiti sia sul piano fisico sia sul piano spirituale?
    Abbiamo la... vista, ma non vediamo i micro­bi, non possiamo fissare il sole perché la sua luce è superiore alla nostra capacità visiva... così vi sono delle realtà spirituali di cui possiamo conoscere la esistenza ma non la natura. Questo vale in modo particolare per le realtà che sono al di sopra o al di fuori della natura che noi conosciamo. Tale è il Mistero della Unità e Trinità di Dio e tutte le altre verità della Fede che noi crediamo perché Dio stesso le ha rivelate.
    I fenomeni che riguardano gli Angeli - buoni o cattivi - e la loro natura si chiamano preternaturali, cioè al di fuori o al di là della natura; si chiamano soprannaturali quelli che riguardano Dio stesso e che solo Dio può realizzare.
    La Messa entra nel novero dei fenomeni so­prannaturali.
    Con la Santa Messa Gesù ha voluto assicurare la sua presenza tra gli uomini sino alla fine del mondo. Diciamo, perciò, che la Santa Messa è Mi­stero di presenza.
    In tal modo si realizza nel tempo e nello spa­zio il desiderio di Dio di entrare e rimanere in co­munione di amore con la creatura umana e realizza anche la comunione della creatura umana con Dio. È una iniziativa presa da Gesù stesso alla fine della sua vita tra noi quando aveva 33 anni e in prossimità della sua Passione e Morte. Questo de­siderio Gesù lo ha espresso chiaramente: «Io non vi lascerò orfani... », «Ecco, io sono con voi sino alla fine del mondo». Questo avviene per mezzo del Sacrificio Eucaristico che noi chiamiamo anche «la Santa Messa», Sacrificio del Nuovo Testamen­to o della Nuova Alleanza.
    Esso ha avuto inizio nell'ultima Cena in modo incruento (cioè senza effusione esterna di sangue), si è consumato sul Calvario prolungandosi sempre come unico e perfetto Sacrificio nella celebrazione della Santa Messa.
    Il Sacrificio eucaristico realizza la Nuova Al­leanza prefigurata dal Sacrificio dell'Antica Al­leanza-Nuovo Testamento-Vecchio Testamento.
    Spieghiamo il significato della parola Testa­mento.
    La parola Alleanza rende meglio il significato di Testamento. Nella nostra lingua «Testamento» vuol significare un atto giuridico unilaterale col quale chi possiede qualcosa la lascia in eredità ad una persona fisica o morale. Invece nel linguaggio biblico la parola Testamento va presa nel significa­to di «alleanza», di un patto stipulato tra due perso­ne con clausole su cui s'accordano ambedue.
    Nel Vecchio Testamento (V.T.) il patto di al­leanza era stipulato e ratificato nel contesto di un'azione sacrificale, di un sacrificio; quindi un atto religioso. leggere...

    Mass offered in the usus antiquior at the Monastère Sainte Marie de Lagarde


    I came across the following images of Mass offered in the usus antiquior at the Monastère Sainte Marie de Lagarde which is located a few kilometers outside the French city of Agen.

    The monastery of Sainte Marie de Lagarde was founded by eight Benedictine monks from the Abbey of Sainte-Madeleine du Barroux in 2002 with the assistance of Dom Gérard Calvet.

    LA MESSE : PRÉSENCE DU SACRIFICE DE LA CROIX. St. Leonard of Port Maurice: The Hidden Treasue of the Holy Mass. EL INFINITO VALOR DE LA SANTA MISA R. Garrigou-Lagrange.IL SANTO SACRIFICIO DELLA SANTA MESSA P. Mateo Crawley

    LA MESSE : PRÉSENCE DU SACRIFICE DE LA CROIX 





  • LA MESSE : PRÉSENCE DU SACRIFICE DE LA CROIX par C...
  • St. Leonard of Port Maurice: The Hidden Treasue of theHoly Mass
  • Parte medular de la encíclica MEDIATOR DEI de S.S....
  • EL INFINITO VALOR DE LA SANTA MISA R. Garrigou-Lagrange
  • Sobre el Sacrificio de la Misa y su Rito 

  • IL SANTO SACRIFICIO DELLA SANTA MESSA P. Mateo Crawley

    La tradition orientale, la divine liturgie, par le Père Petar Ljubas

                  
     
    Ceci est mon témoignage personnel concernant la Tradition Orientale dans laquelle je suis entré, dans laquelle je suis né depuis 15 ans en tant que religieux assomptionniste[1] . 
    Cet article porte le titre de « la Tradition Orientale ». Mais qu’est-ce que cela comprend ? La frontière de cette tradition n’est pas tout à fait claire. Que veut-on dire par « Tradition Orientale » ?
    En gros, on peut dire qu’il s’agit de la Tradition Byzantine. Il s’agit des pays où cette tradition a été vécue pendant des siècles – depuis presque les origines du christianisme
    La divine liturgie

    L’Esprit Saint dans la tradition orientale

    Ce qu’il faut souligner, c’est le rôle très important de l’Esprit Saint dans la Tradition Orientale. En ne connaissant que la Tradition Latine, jusqu’à mon arrivée dans la Tradition Orientale, le rôle de l’Esprit Saint ne me paraissait pas très évident. Je dirais même que j’oubliais facilement son rôle dans la Sainte Trinité et son agir dans le monde, et cela sans m’en rendre compte. C’est seulement en rentrant dans la Tradition Orientale que j’ai découvert l’Esprit Saint et son rôle très important, son influence. On peut peut-être se demander pourquoi dans la Tradition Latine son rôle reste un peu dans l’ombre ? D’où cela provient-il ? Pourquoi a-t-on facilement oublié son action dans le monde et dans l’Église ?

    Dans la Tradition Orientale, la Divine Liturgie, la prière des heures et d’autres prières commencent toujours par la prière à l’Esprit Saint. Voici cette prière :
    « Roi céleste, Consolateur, Esprit de vérité, partout présent et remplissant l’univers, trésor de grâce et donateur de vie, viens et demeure en nous, purifie-nous de tout péché, et sauve nos âmes, ô Dieu de bonté. »
    La nourriture de notre vie spirituelle est la prière : personnelle et communautaire. Et le fondement de la prière est la liturgie, la Divine Liturgie, comme on dit en Orient. Ceci veut dire que la vie spirituelle ne peut se développer qu’à partir de la Divine Liturgie, suivie de la prière personnelle et communautaire, et cela va transformer notre vie quotidienne et lui donner un nouveau sens.
    Ceci veut dire que la Divine Liturgie doit être au centre de notre attention, de notre vie. Elle doit devenir la nourriture de notre esprit, de l’esprit qui nous inspire, qui nous garde dans la vie. Elle doit être au centre de nos relations et de nos rapports, et nous guider dans tout ce que nous vivons.
    On voit beaucoup de gens de la Tradition Latine qui disent en rentrant dans une église de rite oriental : pourquoi toutes ces images ? Pourquoi ces liturgies qui ne finissent pas ? Pourquoi y-a-t-il ce mur entre le prêtre et les fidèles ? Notre liturgie latine est plus simple et proche des gens. Certainement, il y aura encore beaucoup d’autres remarques. Peut-être que vous vous êtes aussi posé les mêmes questions. Mais pourquoi, dans les pays de la Tradition Latine, parler de la Tradition Orientale ? Est-ce que cela nous concerne ?
    Tout cela témoigne qu’on reste toujours à l’extérieur. ¬¬Il est toujours difficile de faire ce passage de l’extérieur vers l’intérieur. L’intérieur reste un inconnu. Comme notre propre intérieur nous reste inconnu. Et souvent nous avons peur d’y entrer, n’est-ce pas? Pourquoi cela? Pourquoi ce sentiment ? Pourquoi cette crainte ?

    Ma découverte de la tradition orientale

    Si je dis tout cela c’est que c’était aussi ma vision des choses avant de venir en Bulgarie, avant de m’ouvrir à cette autre spiritualité. Et je vois maintenant combien elle m’a ouvert les yeux, combien elle a ouvert un grand horizon devant moi. En découvrant cette spiritualité orientale, que je continue à découvrir, je peux dire que j’ai compris ce que veut dire « respirer avec les deux poumons » dont nous parlait le pape Jean-Paul II. En rentrant dans cette Tradition je n’ai pas trahi la mienne, mais au contraire, j’ai approfondi la Tradition dans laquelle je vivais jusqu’à présent.
    Ce qui compte en premier, c'est d'avoir un esprit bien disposé, de s'ouvrir sans préjugés ni comparaisons, et de se laisser prendre par elle. Lorsqu'on se laisse prendre par quelque chose on oublie le temps, on ne regarde plus sa montre. Et lorsqu'on est devant Dieu, lorsqu'on est pris par l'Esprit Saint, la notion du temps est en retrait. Il est intéressant de remarquer que dans l'Orient on dit de la liturgie qu'elle est Divine: la Divine Liturgie.
    Cela voudrait dire, peut-être, que le principal acteur dans la liturgie est Dieu, Lui-même. C'est Lui qui fait tout pour nous à travers son Fils et son Esprit Saint.
    Dans les Eglises orientales il y a une iconostase. Vous avez déjà vu peut-être cela dans une église orientale ou bien dans un film. Cette iconostase crée une séparation. Séparation, entre quoi et quoi, entre qui et qui?
    L'iconostase est-elle vraiment une séparation? Peut-être que cela dépend du regard que l'on porte sur elle.

    Sur cette iconostase il y a des visages. Mais le visage peut-il faire une séparation? Bien sûr, lorsque nous n’aimons pas quelqu’un nous supportons difficilement son visage. Regarder un visage dépend de ce que l’on cherche, de ce que l’on voit derrière lui. A première vue ces visages d’iconostase ont des visages humains. Mais il y a plus. Ce sont des visages humains illuminés par le divin. Ils ne bloquent pas notre regard, n’attirent pas l’attention sur eux-mêmes, mais prolongent notre regard. A travers eux nous devinons une vie du ciel, une vie avec Dieu. Ce sont donc des visages humains qui nous rapprochent de la vie de Dieu.
    Il y a aussi une porte au centre de l'iconostase. Cette porte est le lieu de communication. Si elle est fermée, elle coupe la communication ; si elle est ouverte, elle permet un échange, on peut passer à travers, rejoindre l'autre côté.
    Cette porte par laquelle seul le prêtre passe s’appelle, dans la Tradition Orientale, la « porte royale » et représente le lieu de communication entre le ciel et la terre. D'un côté de l'iconostase est le ciel et de l'autre la terre. Peut-être cela voudrait dire d'une part que la communication entre les deux existe parce qu'il y a une porte, un passage, mais d'autre part cela voudrait dire, qu'on ne peut pas avoir la mainmise sur l'Autre ni exercer sa domination sur Lui. L'Autre, c'est-à-dire Dieu, nous échappe. Il est près de nous, on peut communiquer avec Lui, mais en même temps Il est à distance de nous, Il nous échappe, Il nous dépasse.
    Il me semble que c'est autour de cette question que se situe la compréhension de la liturgie orientale. Dieu est grand, et si je pe
    ux dire, « incompréhensiblement » grand. Alors, quelle est la conséquence de cette situation pour l'homme?
    Si l'homme accepte l'incompréhensibilité de Dieu, cela suppose qu'il reconnaît sa petitesse, qu'il n'est pas tout-puissant, qu'il dépend d'un Autre, qu'il est pécheur. Mais l'homme d'aujourd'hui peut-il reconnaître sa petitesse ? Peut-il accepter qu'il soit pécheur? Ne se sent-il pas très grand et très puissant? Sa raison ne veut-elle pas tout dominer, tout expliquer? Même Dieu est explicable.
    Il me semble que le cœur de la liturgie orientale se situe justement là. Elle nous découvre la grandeur de Dieu et l'état pécheur de l'homme. Dieu seul, en s'abaissant, peut nous sauver. C'est pourquoi pendant cette liturgie on se sent dans la proximité de Dieu, près de Sa Sainteté ; on est dans la Divine Liturgie.

    Liturgie de la Parole de Dieu

    Maintenant, on peut entrer dans la liturgie même. Elle a la même structure que la liturgie latine. Mais peut-être avec certains accents plus forts.
    La première partie est considérée comme la liturgie des catéchumènes. Ici l'accent est mis sur la Parole de Dieu. Elle ressemble dans sa structure à la liturgie des fidèles qui forme la seconde partie. Avec la Parole de Dieu se déroule le même processus qu'avec le Pain et le Vin de la liturgie des fidèles. Les fidèles vont communier au Corps et au Sang du Christ, les catéchumènes communient à la Parole du Dieu.
    La Parole de Dieu (Evangéliaire) va être portée par le prêtre dans la Petite Entrée. (il faut dire aussi que l'Evangéliaire reste toujours sur l'autel; il ne le quitte jamais, comme le Corps du Christ dans le tabernacle). Devant cette Parole de Dieu, au prêtre qui dit : « Sagesse. Debout », l'assistance répond : « Venez, adorons, prosternons-nous devant le Christ; Fils de Dieu, admirable dans les saints, sauve-nous qui Te chantons : Alléluia! »

    Pour se préparer à entendre la Parole de Dieu l'assistance chante le Trisagion, c'est-à-dire la Sainteté de Dieu en disant: « Dieu Saint, Saint Fort, Saint Immortel, prends pitié de nous ». Après cela, avec l'écoute de l'Evangile, les catéchumènes vont communier à la Parole de Dieu. Dieu se donne dans la Parole. Jésus Christ, dans l'Evangile de Jean, ne dit pas seulement : « Celui qui mange ma chair et boit mon sang a la vie éternelle… » (Jn 6,34) mais aussi : « Celui qui écoute ma parole et croit en Celui qui m'a envoyé, a la vie éternelle… » (Jn 5,24).

    Dans notre église de Plovdiv, il y a toujours quelques fidèles qui viennent devant le prêtre qui lit l’Evangile, ils ont la tête courbée pendant la lecture. A la fin, lorsque le prêtre a terminé la lecture, ils baisent l’Evangéliaire. Cela représente aussi cette communion à la Parole de Dieu. Ce qui veut dire que l’écoute de la Parole de Dieu est une sorte de communion.

    L’offrande du Pain et du Vin

    La deuxième partie de la liturgie commence, après une prière de préparation, avec ce qu'on appelle la Grande Entrée. C'est le moment où le prêtre porte le pain et le vin à travers l'assemblée et les présente à l'évêque qui les pose sur la sainte Table. Dans cette « montée » vers le Sanctuaire il y a les offrandes de tout le peuple. Le Pain et le Vin, offerts au nom de tout le peuple, signes du Corps et du Sang du Christ, présentent la montée de Celui-ci au Golgotha. C'est là qu'on évoque les paroles du Bon Larron : « Souviens-toi de moi Seigneur quand tu entreras dans Ton Royaume ». A travers ces dons tous les fidèles s'offrent « en offrandes vivantes, saintes et agréables à Dieu » (Rm. 12,1).
    Il faut dire que dans la Tradition Orientale, l’autel présente le tombeau du Christ. Lorsque le prêtre dépose les dons, il les couvre avec une petite nappe qui présente le suaire (linceul). On y dépose le Christ, et avec l’action de l’Esprit Saint, lorsque le prêtre, pendant le Credo, va prendre en main ce suaire et le lever en l’air, il présente la descente de l’Esprit Saint qui donne la vie à ces dons.
    Maintenant, tout est prêt pour l'anaphore (c’est un mot grec qui veut dire: offrande, présentation vers le haut). C'est la prière centrale de la Divine Liturgie, prière de « remerciement » (en grec, « eucharistia »).

    Elle est faite en trois parties. La première partie est une prière de remerciement pour la création s'adressant au Père (elle correspond, si l'on peut dire, à la préface dans la liturgie latine). La deuxième partie est un mémorial reconnaissant (« anamnèse ») de l'œuvre libératrice du Fils (elle correspond aux paroles de consécration). Et troisième partie une invocation (« épiclèse ») pour la descente de l'Esprit Saint. Tous ces remerciements font que la Divine Liturgie est une eucharistie: un merci adressé à la Sainte Trinité. (A ce propos, vous allez remarquer que pendant toute la liturgie les prières se terminent par une louange à la Sainte Trinité.
    Chaque fois qu’un membre de la Sainte Trinité est nommé, il y a derrière lui, ou avec lui l'action des deux autres). Il faut souligner aussi l'importance de l'Esprit Saint dans la liturgie orientale. C'est dans l'épiclèse que se termine la consécration. C'est l'Esprit Saint qui rend effectives les paroles du Christ: ceci est Mon Corps, ceci est Mon Sang. Comme dit la catéchèse orthodoxe intitulée « Dieu est Vivant » :
    « Il faut que ce même Esprit qui rendit la Parole présente dans le sein de Marie le jour de l'Annonciation et dans le sein de l'Eglise le jour de la Pentecôte la rende présente dans le sein de l'Assemblée eucharistique aujourd'hui. C'est par cette présence du Verbe que cette assemblée devient Corps du Christ, Eglise. » (page 325).
    Ensuite vient la Fraction du Pain qui imite le geste du Christ. Cette fraction est précédée par le Notre Père qui dit l'unité de tous autour du même Père. Et avant de rompre le pain, le prêtre dit : Aux saints les choses saintes. C'est la communion: l'aboutissement, l'accomplissement et la raison d'être de toute la célébration. La catéchèse orthodoxe Dieu est Vivant dit à ce propos:
    « Le Dieu fait chair va diviniser leur chair; le Feu immatériel de la divinité – qui, jadis, enflammait le Buisson ardent et qui était descendu sous l'aspect de langues de feu sur l'assemblée des Apôtres – le Feu qui tout à l'heure s'était emparé du Pain et du Vin, va maintenant s'étendre et enflammer les communiants, leurs corps et leurs cœurs, et tous ensemble ils vont chanter : Nous avons vu la vraie Lumière, nous avons reçu l'Esprit céleste, nous avons trouvé la foi véritable; adorons l’indivisible Trinité, car c’est Elle qui nous a sauvés. » (page 329-330)
    Suivent, après la communion, quelques prières de remerciement pour cette transformation opérée dans les fidèles:
    « Que nos lèvres soient remplies de Ta louange, Seigneur, pour que nous chantions Ta gloire, car Tu nous as jugés dignes de participer à Tes saints, divins, immaculés et vivifiants mystères; confirme-nous dans Ta sainteté pour que, tout le jour, nous méditions Ta vérité: Alléluia, Alléluia, Alléluia. »
    Comme on peut le constater, toute la liturgie est débordante du Mystère de Dieu, de la Sainte Trinité et de son action. Elle nous déborde de tous les côtés, nous dépasse. Alors que faut-il faire? Il suffit de se laisser prendre par elle.

    Et pour terminer, on peut dire que la Tradition Latine met l’accent sur l’humanité du Christ, et la Tradition Orientale sur sa divinité. Est-ce que à cause de cela que l’on a fait la division ? Peut-on rester fidèle à un Christ déchiré ? Et dans ces conditions peut-on s’appeler encore « chrétiens » ?
    Petar LJUBAS
    Augustin de l’Assomption
    Plovdiv (Bulgarie)
    [1] Le Père Petar Ljubas est assomptionniste, de la communauté de Plovdiv (Bulgarie). Il est depuis 15 ans au service de l’Eglise catholique de rite byzantin.
      source-

    Grande successo del convegno sui Francescani dell’Immacolata - di Vinicio Catturelli

    Firenze, 16 luglio.

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    quinta-feira, 17 de julho de 2014

    Le Christ et moi sommes en présence l’un de l’autre.

    Préparation à la Divine Liturgie : « Je suis Christ »

    par l’archimandrite Aimilianos de Simonos Petra





    Enseignement au monastère de Simonos Petra
    du Mont Athos, le 16 septembre 1976. Nos sous-titres.

    Notre rencontre de ce jour aura pour thème principal la Divine Liturgie. Cela ne veut pas dire que nous n’aborderons pas l’ensemble des offices, puisque la Liturgie en constitue une partie ; elle est le noyau, le cœur du culte. C’est la partie la plus accessible de nos offices. Nous y porterons une attention toute particulière car elle est nourriture, communion, action de grâces, fête commémorative, que nous célébrons unis mystiquement avec le Christ, avec la sainte Trinité. Tout le monde peut trouver sa joie dans la Liturgie, y communier et l’assimiler tout entière, non seulement sous la forme du pain et du vin. Cependant, bien qu’elle nous soit familière, la Divine Liturgie nous semble parfois difficile à comprendre. Nous allons donc tenter d’expliquer quelques-uns de ses éléments.


    1. Écouter la parole de Dieu

    .

    Que pouvons-nous faire pour vivre réellement la Divine Liturgie ? La condition fondamentale à sa compréhension est le travail préparatoire, qui s’effectue par la lecture préalable de l’Évangile du jour. Maintes fois je suis obligé de me battre pour convaincre les prêtres et les diacres de lire l’Évangile avant la Liturgie. Et si je leur demande s’ils l’ont lu, leur réponse est un " oui ", qui signifie : " Je l’ai regardé ; il se trouve à telle page. " Ce n’est pas du tout ce que j’entends lorsque je dis de se préparer avec la lecture de l’Évangile.

    Le prêtre et le diacre ont toute possibilité d’ouvrir la sainte Écriture soit après l’Hexapsalme, soit après le " kairos ", alors qu’ils sont seuls dans le sanctuaire. Plaçant le Christ devant eux, ils seront à même de recevoir ce que celui-ci veut leur dire : " Voici, le Christ m’appelle " (cf. Mc 10, 49 ; Jn 11, 28) ; il veut me parler. Le Christ et moi sommes en présence l’un de l’autre. Ne considérons jamais l’Évangile comme une simple péricope du jour, qu’il nous faut lire pour la forme. Car, en agissant ainsi, avant même que la Liturgie ait lieu, nous signons son échec. Si l’Évangile ne nous parle pas, la Liturgie nous laissera totalement insensible.

    Qu’est-ce que l’Évangile ? C’est la sainte Écriture dans sa totalité, c’est la révélation de Dieu. Dieu s’est manifesté à des hommes revêtus de l’Esprit Saint, lesquels, poussés par l’Esprit, écrivirent ce que Dieu leur révélait, et que les Évangélistes ont transmis à travers les siècles. L’événement que décrit l’Évangéliste, devient pour moi un événement personnel : j’ai maintenant, en le lisant, une révélation ; le texte est une parole révélatrice. La révélation n’est pas ce que je lis, c’est ce que le Christ lui-même me dit quand je lis la parole.

    L’Écriture, le Psautier, tous les livres saints accentuent le fait que les idoles n’ont pas d’oreilles, ni de bouche, ni d’yeux (cf. Ps 113, 12-14 ; 134, 15-17 ; Sg 15, 15). Le Christ, lui, possède une bouche, des oreilles et des yeux. Par conséquent, il voit, il entend, il répond à mon attente.

    Lire l’Évangile équivaut à placer le Christ devant soi, à lui demander quelque chose de nouveau, une parole pour le jour présent, une parole dont le contenu sera pour moi une révélation personnelle, laquelle remplira mon esprit, ma pensée. Comme vous le concevez, notre esprit doit rester vide et sans distraction, pour être sensible au souffle divin et accueillir le Saint-Esprit. En quelque sorte, l’Évangile du jour deviendra mon propre évangile. C’est très facile. Tout dépend de ma préparation et de ma réceptivité.

    Par conséquent, quand je dis : " Je vais lire l’Évangile ", cela signifie : Qu’est-ce que j’ai à entendre de Dieu aujourd’hui ? Que va-t-il me dire ? Alors mon cœur se remplit, premièrement, des sentiments qui sont en rapport avec le mystère révélé par la Parole, car l’Évangile rend présent le Dieu qui s’y manifeste. Ou bien j’obtiens que le Christ se révèle maintenant à moi, et me communique, aujourd’hui, un message nouveau, qui deviendra le contenu de mon cœur, de mes sentiments, lequel constituera ma douceur.

    Deuxièmement, l’Évangile donne un contenu à mes décisions. Chaque Liturgie est un martyre, une mort, une participation à la vie du Christ. Nous touchons donc les franges du vêtement du Christ. Si une hémorroïsse (Mt. 9, 20-22), un publicain (Lc 5, 27-28) ont pu, en touchant le manteau de notre Seigneur, en recevoir la force, il est impensable que nous, nous ne puissions la recevoir, parce qu’elle signifie pour nous de nouvelles décisions. Ces décisions ne se prennent pas intellectuellement, elles germent dans le cœur, dans les profondeurs de notre conscience. Ce sont elles qui m’amènent à " oser, en toute assurance et sans encourir la condamnation, t’appeler Père ". Sans cette assurance, personne ne peut adorer Dieu. J’acquiers de l’assurance équivaut à dire " Je suis pécheur, je suis un être coupable. "

    En prenant une nouvelle décision, immédiatement, je sépare mon mauvais moi de celui que je présente à l’instant devant Dieu, c’est-à-dire mon moi renouvelé par la grâce divine, celui qui prie, qui élève les mains ; j’acquiers assurance et familiarité auprès du Christ. Cette décision est ensuite une puissance régénératrice dans ma vie après la Liturgie.

    Troisièmement, l’Évangile clarifie le contenu de mon intelligence (diania), dans laquelle circulent désormais toutes ces connaissances révélatrices acquises au cours de ma lecture – car le Royaume des Cieux est avant tout une connaissance. L’Évangile purifie tout ce qui s’est introduit dans mon intelligence pensées : réflexions profondes, offensives et agressions contre mon mauvais moi, mais aussi les joies et les délices que j’éprouverai devant ces révélations. L’Évangile est la parole de ma révélation personnelle ; c’est mon contact aujourd’hui avec le Christ.

    La lecture préalable de l’Évangile n’est pas réservée exclusivement aux prêtres. Tous les laïcs peuvent facilement connaître les références de l’Évangile du jour, et posséder une Bible. Ils peuvent se préparer à sa méditation en lisant l’office avant le déroulement de la Liturgie ; c’est une aide efficace. Si nous insistons tant sur l’Évangile, c’est parce que nous parlons tout spécialement de la Divine Liturgie.

    Pour ma part, quand je célèbre, j’ai besoin auparavant d’un temps suffisant pour converser avec " mon Évangile ". Puisque je crois fermement que mon Christ est ici – je le crois ; ce n’est pas une réalité intellectuelle, c’est la sensation de tout mon être, de mon âme, de mon corps et de mon esprit –, pourquoi ne pas parler avec lui ? Le contraire serait l’isolation totale de mon moi d’avec Dieu.

    Je vis donc Dieu, caché et révélé dans l’Évangile, je jouis réellement de sa présence, je le prends dans ma main. Je le laisse me parler. Je peux vous certifier que jamais Dieu ne m’a laissé pendant la Liturgie, ne serait-ce qu’une fois, sans me révéler un contenu nouveau du texte.

    Mon dialogue avec l’Évangile aura lieu dans l’église, quand je célèbre, ou lorsque je suis seul dans ma chapelle. C’est tellement facile ! On rencontre le Christ, après on le conduit devant l’autel, puis à gauche pour la proscomidie, ensuite à droite. Il est avec nous quand nous sortons du sanctuaire pour la petite et pour la grande entrée, il nous y accompagne de nouveau lorsque nous y pénétrons ; il nous suit partout ! Si nous ne pouvons vivre aussi facilement la présence du Christ, il nous faut alors examiner notre état spirituel.

    2. Se concentrer pendant la préparation
    à la Divine Liturgie.


    Autre point fondamental, auquel je voudrais que nous prêtions attention : celui de notre concentration au cours de notre préparation à l’office. Je ne parle pas d’une autocritique : " Qui suis-je ? Qu’ai-je fait ? ", car une telle concentration se réduit finalement à une action humaine. Je pense davantage au blâme de soi, comme une plongée dans notre moi pour nous vider de nous-mêmes, comme une offrande de notre être. Il faut que nous disparaissions devant Dieu, pour que Dieu devienne tout.

    Quand nous allons à la Liturgie, nous entrons dans le Royaume des Cieux. Cela veut dire que nous entrons en communion directe avec Dieu ; nous participons à Dieu. Mais Dieu est incompréhensible. S’il a quelque chose de compréhensible, c’est son incompréhensibilité. Cette incompréhensibilité, cet " au-delà de tout ", nous pouvons merveilleusement les rendre par le mot " sainteté ". La sainteté de Dieu a aussi un sens moral. Mais elle est avant tout la transcendance absolue de Dieu, c’est l’absolu de la Divinité. " Saint " signifie totalement séparé, absolument seul, radicalement consacré. Dieu est exclusivement consacré à lui-même. Dieu est le seul qui " ne participe à rien et ne soit participé par aucun être dans son essence ". Bien sûr il en est tout autrement de " l’extension " et de " la projection " de Dieu dans son économie de salut.

    Lorsque nous communions à la sainteté de Dieu, c’est comme si nous participions à sa vie, nous approchons, nous touchons le mystère du Dieu au-delà de tout, du Dieu transcendant. Nous vivons désormais comme il vit lui et, alors, nous lui donnons la possibilité de nous combler de ses rayons et de nous faire participer, par économie, à sa sainteté. Quoi qu’il en soit, nous entrons dans un lieu qui nous est totalement étranger. Si l’Incarnation du Verbe est un " mystère étrange ", pensez combien plus étrange, plus mystérieux et inaccessible est le mystère de l’Être divin, celui de la sainteté de Dieu.

    La sainteté de Dieu est donc un lieu dont nous devons nous approcher. La sainteté de Dieu est absolue, tellement visible, si glorieuse, qu’elle remplit l’univers. Elle se transmet sur-le-champ telle une lumière, tel un resplendissement de la Divinité au triple éclat. Ainsi nous pénétrons, nous aussi, obligatoirement dans cette gloire de la Divinité et, puisque nous vivons la présence du Christ, nous entrons dans sa gloire.

    La gloire du Christ n’est pas celle que nous obtenons par une préoccupation éthique, avec une notion de grandeur ou de magnificence, c’est désormais une participation à la vie de Dieu, qu’il nous transmet par son énergie incréée. C’est pourquoi notre participation à la gloire de Dieu est un acte que lui-même accomplit. Nous, nous ne pouvons rien faire, sinon nous tenir avec une connaissance majestueuse devant sa sainteté et recevoir sa gloire. Ainsi nous participons au noyau de sa vie et nous entrons dans l’amour de la Trinité.

    Qui suis-je, moi qui entre dans la gloire et la sainteté de Dieu ? Puisque lui est saint, puisqu’il est l’Absolu, cela signifie que moi, je ne suis rien. En dehors de lui, je ne suis que ténèbres, je suis le " non existant ". Si aujourd’hui j’ai un certain rayonnement, c’est uniquement par grâce divine, car personnellement je n’en suis pas digne. Je m’éteindrai dès qu’il cessera de jeter sur moi sa lumière. Puisque Dieu demeure " Celui qui est ", moi aussi je dois me tenir devant lui comme je suis, et mon essence est le non-être, c’est mon absence d’existence propre.

    Pendant la Liturgie, je dois donc découvrir mon moi réel, savoir qui je suis et en face de qui je me tiens ; je dois découvrir qui est ce Dieu que je cherche à rencontrer. Il faut donc que je découvre mon néant, ma nullité.

    Vous comprenez maintenant que cela n’est pas l’effet d’une autocritique, qui consisterait à se dire : "J’ai fait ceci, j’ai fait cela, mon Dieu, pardonne-moi ", laquelle peut finalement signifier : " je suis un saint ". La reconnaissance de mon néant advient seulement après la connaissance de Dieu, c’est-à-dire de sa sainteté, de sa grandeur inaccessible. Elle se fait aussi par mon entrée dans la gloire de la Divinité. Lorsque je pénètre dans ces ténèbres de l’ignorance, dans l’obscurité de la connaissance comme inconnaissance de Dieu – connaissance de Dieu ténébreuse pour moi qui me trouve dans la pénombre, mais en réalité glorieuse et grandiose –, je peux avoir une faible idée de ma nullité. Plus je me dépossède de moi-même pendant ma préparation à la Liturgie, plus la sensation de mon néant grandit.

    Il faut donc que je me vide de tout ce que je crois être, même de ce que Dieu m’a donné : " Qu’as-tu que tu n’aies reçu ? Et si tu l’as reçu, pourquoi te glorifier comme si tu ne l’avais pas reçu ? " (1 Co 4, 7). Ce que Dieu m’a donné je l’abandonne à cet instant pour rester écartelé, nu tel que ma mère m’a mis au monde, pour pouvoir me tenir devant ce Dieu redoutable, qui doit se pencher sur moi, me recouvrir et donner une forme à l’embryon que je suis, le modeler à son image. Alors je découvrirai mon être réel et, en même temps, je trouverai assurance devant Dieu.

    Pendant la Liturgie, nous prononçons les paroles suivantes : " Accorde-nous de t’offrir les dons et des sacrifices spirituels ". Les dons et les sacrifices se rapportent au Christ que nous offrons. Mais, si vous le voulez, offrons-nous d’abord nous-mêmes comme don à Dieu. Offrons aussi des sacrifices ; toutefois le seul sacrifice, le seul holocauste, le parfait sacrifice qui plaise à Dieu, c’est de nous offrir nous-mêmes. Ce que nous donnons ne nous appartient plus, ce " moi " que nous estimons tant a désormais disparu, et il ne reste que ce " rien ".

    Pour vivre la Divine Liturgie, le blâme de soi, vécu comme une expérience existentielle, est la condition préalable, mais non comme un cri de colère envers nous-mêmes, duquel rien d’essentiel ne sortirait. Comme le dit Nicolas Cabasilas : " Nous sommes portés à lui confier nos âmes ". Abandonnons nos âmes à Dieu pour qu’il en fasse ce qu’il veut. Même l’âme que Dieu nous a donnée, nous la lui rendons ! Nous renonçons à tout ce qui a de l’importance pour nous, à tout ce que nous avons vécu, à ce que nous vivrons ; nous remettons toutes choses à Dieu. Nous pourrons alors lui parler en toute assurance et intimité et " prendre contact avec le brasier des saints mystères ". Nous acquérons désormais une pleine intimité avec Dieu, qui se produit par l’enlacement de Dieu, lorsque nous avons rejeté notre moi. Dieu nous prend avec lui, Dieu nous comble. Par conséquent, nous avons la certitude que nous ne célébrons pas en vain la Liturgie ; notre Liturgie sera une Liturgie parfaite et porteuse de fruits.

    3. La prière pour autrui

    .

    Un troisième élément peut nous aider à nous préparer pour la Liturgie, ou pendant celle-ci, c’est la prière. Cependant notre prière ne doit pas être associée aux divers problèmes qui se bousculent dans notre cœur, dans notre esprit, ni avec l’objet de nos désirs que nous voulons, à l’instant, présenter à Dieu afin d’obtenir une réponse. Notre prière ne doit pas être l’étalage de ce que nous avons déjà abandonné à Dieu pour le reprendre ensuite. Le plus souvent notre prière est l’expression de notre égoïsme. Elle est rarement spirituelle. Elle est, la plupart du temps, corporelle, malade, car elle est à notre mesure. C’est une prière pleine de présomption, une recherche de notre moi.

    Que notre prière ne soit pas ainsi ! Qu’elle soit faite avec plus d’attention. Je pourrai prier pour moi, lorsque j’aurai découvert ce que je suis : un embryon gisant dans les entrailles du péché, vivant dans les entrailles du monde et non dans le Royaume des Cieux. Je dois prier pour mon moi réel, afin que Dieu l’assume, le ressuscite au cours de la résurrection (c’est-à-dire la consécration des oblats), qui aura lieu pendant la Liturgie, pour m’élever ensuite avec lui vers les cieux, pour que je puisse accueillir l’Esprit Saint et vivre dorénavant avec lui.

    Je peux prier pour moi, quand je vais à l’office uni à tous les fidèles, aux vivants et aux morts, à la Divinité en sa plénitude, à l’Église entière. Je prierai également pour l’Église, pour les autres personnes qui sont aussi moi-même, puisque je forme avec elles un corps unique, le Corps spirituel du Christ : " Nous ne formons qu’un seul corps dans le Christ " (Rm 12, 4-5 ; 1 Co 12, 12).

    Je prierai pour ce peuple, mais sans entrer dans les détails. Je peux prier tout spécialement pour la communauté à laquelle j’appartiens, dont je suis un membre inséparable, et qui m’a donné le droit de participer à cette assemblée cultuelle. Je peux prier pour telle ou telle personne. Je peux aussi mentionner les problèmes de telle autre, sachant que ses problèmes ne me regardent pas, car ils concernent strictement sa vie personnelle et non celle du Corps du Christ ; je ne dois pas entrer dans les problèmes d’autrui, mais les laisser à Dieu, sinon je chasserai Dieu.

    Une telle prière sera pour moi une nouvelle kénose et en même temps une attente du Christ, une disposition à communier à son amour, à sa sainteté et à sa gloire.

    Une question se pose : Puisque l’office est commun et ne concerne pas chacun séparément, comment pouvons-nous prier en particulier pour quelqu’un ? Notre office est si long qu’il nous laisse toutes possibilités de le faire. Pendant qu’on lit les cathismes du Psautier ou lorsque l’on chante le Canon, les prêtres lisent les prières préparant à la communion, ou bien ils se vêtent en disant : " Mon âme se réjouira dans le Seigneur, car il m’a couvert d’un vêtement de salut ". Il n’y a donc pas de problèmes. L’Église elle-même nous concède ce droit. Une chose est l’assemblée qui prie avec les paroles de l’office, autre chose, moi qui, en tant que prêtre, me présente devant Dieu.

    N’oublions pas que pendant la Liturgie, nous intercédons pour de nombreuses personnes. Il est bon que chaque prêtre et chaque diacre ait ses diptyques, dans lesquels seront inscrits le plus grand nombre possible de noms. Et vous devez trouver un moyen de les lire tous. Les lirez-vous dans votre cellule ou pendant que vous vous préparez ? Les lirez-vous pendant l’office ? C’est votre droit. Dans la tradition russe, tout prêtre s’apprêtant à entrer dans l’église, revêt son étole, prend un petit plateau et une prosphore et il fait mémoire des noms inscrits dans ses diptyques. Ensuite, ces plateaux sont rassemblés et les noms sont versés ensemble sur un autre plateau. C’est une très belle tradition. Je ne dis pas qu’il nous faille agir de même, cependant le prêtre peut et doit commémorer de nombreuses personnes, parce que le peuple l’attend de nous, parce qu’il le veut. Et le vouloir des hommes est une obligation pour nous. Plus les prêtres sont des hommes simples, plus ils commémorent de personnes. Les plus instruits n’ont pas cette habitude.

    4. Vider l’esprit

    .

    Nous arrivons au quatrième élément de notre préparation. Nous l’avons déjà effleuré et je ne voudrais pas le développer à présent, car c’est un sujet des plus difficiles de la vie spirituelle : nous devons essayer d’habituer notre intellect (noûs) à rester vide et sans concepts. L’homme a d’étonnantes ressources en lui ; son cerveau à la possibilité de faire de nombreuses choses à la fois. Vous pouvez, par exemple, penser à votre higoumène qui ne vous a pas répondu, vous souvenir de votre mère qui est malade, et en même temps suivre l’office. Mais quand notre intellect s’éparpille ou se remplit de toutes sortes de pensées, il ne peut contenir autre chose.

    L’intellect est absolu, il est passionné. Quand il s’attache à quelque chose, il ne peut s’en séparer. L’intellect veut quelque chose d’entier. Mais Dieu veut aussi notre intellect tout entier ; il ne supporte pas qu’il soit partagé. L’union avec Dieu est de l’ordre de l’intellect et, dès lors que la Divine Liturgie est une action de grâces commémorative, il est naturel que l’union s’accomplisse dans notre intellect. Notre intellect doit donc être entièrement libre pour être envahi par le Christ au cours de l’Eucharistie. Et cet envahissement sera d’autant plus grand que nous nous efforcerons de vider notre intellect de toute idée et de toute conception. Alors, vivant la plénitude de la présence du Christ, nous sommes remplis de joie.

    Nous nous plaignons, en général, de ne pouvoir prier ou de ne rien comprendre de ce qui se passe pendant la Liturgie, ou bien que nous ne recevons rien d’elle. Comment peut-on prier ? Que peut-on comprendre ? Que recevoir quand notre intellect est surpeuplé ? De même que vous laissez votre filet vide s’enfoncer dans la mer pour attraper du poisson, laissez votre intellect, vide, attraper le Christ.

    Vous devez aussi contrôler vos paroles, vos pensées, votre intelligence (diania), de façon à les canaliser ; elles n’ont pas le droit d’aller là où bon leur semble ; elles n’ont pas le droit de souiller l’intellect, ni de remplir l’âme.

    Par conséquent, l’intelligence doit être vide, " notamment dans une prière intense " ; elle ne doit pas s’éparpiller. Nous ne parlons pas de la prière intérieure, mais de l’office. Notre intelligence (diania) doit avoir son propre contenu, elle doit être indépendante de l’intellect (noûs). Toutefois elle ne doit pas comprimer celui-ci. Tout comme l’araignée lance un fil que le vent accroche où il veut pour qu’elle puisse tisser sa toile, ainsi notre intelligence doit rester souple, mais contrôlée, afin que n’y entre aucun problème, aucune anxiété, aucune contrariété. Car si je me réjouis, ce sera parce que j’ai résolu mon problème. Si je suis triste, je le serai parce qu’une peine m’oppresse. Si je suis gai, je le serai parce qu’on m’a écouté, parce qu’on a fait attention à moi, parce qu’on m’aime, mais non à cause de la présence de Dieu.

    Notre volonté doit être orientée vers le Dieu présent et se révélant à travers l’Évangile, pour être remplie par ce qui devient pour chacun de nous, aujourd’hui, un évangile personnel, qui sera le contenu de notre cœur, comme je vous l’ai dit au début de notre entretien. Il formera le contenu de nos décisions, de nos paroles, de notre intelligence. Nous possédons notre propre parole révélatrice. Notre intelligence rationnelle – et non notre intellect –, comme le fil de l’araignée, va s’accrocher à notre nullité, à notre péché, à notre inattention, à la gloire de Dieu, à sa sainteté, aux saints de l’Église, et ainsi Dieu est maintes fois pris au filet. L’indépendance de l’intelligence n’empêche pas l’intellect de s’unir à Dieu.

    Cette mobilité de l’intelligence est tout à fait naturelle dans la vie humaine. Elle se produit chaque jour en nous, dans ses manifestations diverses, et nous ne le faisons pas dans notre vie spirituelle, d’où la tragédie de notre vie. Néanmoins, le contrôle de l’intellect et de l’intelligence est nécessaire au débutant. Si vous allez pour la première fois dans un monastère, par exemple, il faut qu’on vous conduise jusqu’à votre chambre, ensuite vous vous y dirigez tout seul, même en discutant. Il en est ainsi pour l’intellect et l’intelligence : ils apprennent à cheminer tout seuls. L’intellect et l’intelligence doivent se vider, ou bien l’intelligence doit se diriger librement là où se trouve l’intellect.

    5. « Je suis Christ. »



    Nous arrivons ainsi au cinquième et dernier élément .de notre préparation. Il s’agit d’une perception, d’une compréhension, d’une connaissance, d’une certitude jusque dans la moindre parcelle de mon âme et de ma conscience, que je suis Christ, ainsi que le disent de nombreux textes patristiques. Je suis Christ, parce que je suis entré en communion avec le Christ, je suis incorporé à lui, comme ce qui entre dans le feu devient feu. Je suis Christ, parce que je suis son temple (cf. 1 Co 3, 16 ; 2 Co 6, 16), parce que j’appartiens à l’assemblée ecclésiale. Je suis Christ, parce que je suis prêtre donc figure du Christ et non son représentant. Je suis Christ, parce que je suis baptisé, parce que je suis disciple, et disciple signifie Christ ; chrétien signifie " chrismé ", qui a été oint par Celui qui est l’onction. Nos lectures, nos conversations, nos réunions, nos veilles, nos métanies et le souffle du Saint Esprit dans nos cœurs peuvent nous aider à devenir Christs. Il est tellement facile de comprendre que je suis Christ !

    J’ai donc devant moi le Christ révélé et, à cause de cela, il se manifeste personnellement à moi, qui suis une nullité, qui ne suis rien. Et malgré tout, ce " rien " est devenu Christ. Savez-vous de quelle magnificence se remplira votre âme, si vous le comprenez ? Savez-vous que votre attitude, votre regard, votre cœur changeront immédiatement ? Que votre attention aux offices et plus encore à la Liturgie, sera plénitude si vous comprenez le " je suis Christ " ?

    Le Christ est tout entier dans le pain, mais il est aussi tout entier dans le pain de chaque église. Je suis Christ ne signifie donc pas que mon voisin n’est pas Christ. Chacun de nous peut dire : " Je suis Christ ". Si je vis le " je suis Christ ", je suis immédiatement rempli d’une allégresse sans fin, de la joie du Saint Esprit qui est la plénitude de la joie du Christ, la conséquence de sa présence. Là où est le Christ, là sont la joie et l’allégresse.

    Le sentiment d’être Christ m’amène à toucher le Christ. Une chose est la perception d’être Christ, une autre est le sentiment de la révélation du Christ en moi, laquelle est un accroissement de la vision de Dieu, de sa compréhension. Le Christ et moi luttons, dansons, jouons, nous enlaçons. Au cours de la Divine Liturgie, le Christ révèle son Père à " celui à qui le Fils veut bien le révéler " (Lc 10, 22), et en eux l’Esprit Saint se manifeste.

    6. Présence à la Liturgie avant la Liturgie

    .

    Hier soir, un des Pères est venu dans ma cellule et nous nous sommes entendus pour célébrer la Liturgie pendant la nuit. Je peux vous certifier qu’à partir de cet instant, je suis entré dans l’atmosphère de la Divine Liturgie, de laquelle je ne suis absolument pas sorti, que je sois éveillé ou pendant mon sommeil. Après ce moine, j’ai reçu deux autres moines. J’ai félicité l’un et j’ai blâmé le second, sans que mon intellect n’ait cessé d’être présent à la Liturgie que j’allais célébrer. À aucun moment mon intelligence n’a délaissé la Liturgie – puisque je sentais que j’y étais déjà entré – et ma conscience n’a cessé de sentir la responsabilité de sa présence devant Dieu.

    Jusqu’à deux heures trente environ, j’ai écrit. Vers quatre heures trente, je me suis allongé et j’ai réussi à m’endormir. À six heures trente, quelqu’un a frappé à ma porte pour me réveiller. Certes, il m’a réveillé, mais je continuais, dans mon sommeil, à vivre cette expérience. Je lui ai répondu, mais lui, à ce qu’il paraît, douta que j’aie compris, et il attendait de voir si j’allais ou non me rendre à l’église. Cependant, j’y étais déjà car l’atmosphère de la Liturgie dans laquelle j’étais entré depuis la veille ne s’était nullement dissipée. C’est pourquoi, sans comprendre comment, je suis allé à l’église et je me suis préparé à célébrer. J’ai eu besoin d’une heure environ pour effectuer cette préparation avant de commencer la Divine Liturgie. Après la consécration des saints Dons, le cataclysme de la joie, de l’allégresse – qui n’est pas toujours le même, car il dépend de nous et de l’économie dont Dieu fait preuve à notre égard –, était tel qu’alors seulement j’ai compris que je célébrais, qu’à cet instant j’étais devenu Christ.

    Ceci peut être – et doit être – un fait quotidien. Ainsi notre journée sera la continuité de la Liturgie et une préparation pour la Liturgie suivante. Saisissez-vous quel privilège unique est le nôtre, pour nous qui célébrons les Divins Mystères chaque jour ? Seulement, il faut que nous vivions ce que dit Nicolas Cabasilas : " Dieu nous donne en dot toutes les choses saintes ". Qu’est-ce qu’une dot ? Un don gratuit ! Ce sont " des grâces qui viennent d’elles-mêmes ". Ceux qui se crispent dans la prière, ceux qui s’exténuent dans le combat ascétique pour voir Dieu ou pour acquérir la grâce de la concentration, par exemple, n’obtiendront jamais rien. Tout ce que vous gagnez, tout ce qui vous comble, provient des projections de la sainteté de Dieu, de sa gloire, des énergies divines incréées.

    Chaque semaine vous préparez le pain que les ascètes viendront solliciter ; s’ils ne viennent pas, ils n’auront rien. Ainsi Dieu, chaque jour et pour chacun de nous, prépare ses Grâces. Et il nous suffit d’élever les yeux de notre cœur, de notre intellect, de notre esprit pour les recevoir. Mais si nous ne le faisons pas... Pourquoi nous priverions-nous de cette grâce quotidienne ?

    Une préparation à la Divine Liturgie telle que nous venons de la décrire, nous rend réellement, et sans artifice, participants de Dieu.

    Extrait de : Archimandrite Aimilianos,
    Catéchèse et discours 4 : Le Culte divin,
    Attente et vision de Dieu
    , Éditions Ormylia,
    Chalcidique, Grèce, 2004.












    Questa la nota di "smentita" e di "correzione" di P. Lombardi sulla seconda intervista di Scalfari al Papa.


    Eh, ma allora, Santità... non le è servita la volta scorsa?


    E vabbè, Santità, ma allora lo fa apposta?
    Non le era bastata l'imprudenza dello scorso 1° ottobre 2013? Eh!
    Era successo un putiferio curiale e dottrinale a seguito della sua prima intervista a quel simpaticone mangiapreti di Scalfari (che non vedeva l'ora!)
    - Alcuni commenti sulla prima interivista di Scalfari al Papa qui e qui

    E ora che cosa fa, la Santità Vostra? Ci ricade? ...

    Santità, mai più senza registratore!
    di Marco Tosatti, da La Stampa, del 13.07.2014



    Qualche riflessione sull’ultimo caso giornalistico, e cioè il colloquio/intervista di papa Francesco a Eugenio Scalfari. Il genere letterario del colloquio ha una sua nobiltà. Si incontra un grande personaggio, non si vuole svilire la grandezza del momento con taccuini e registratori (ma perché no?) e poi si riporta il senso di quanto detto il meglio possibile con parole nostre. Benissimo. Ma nel momento in cui si virgolettano lunghi brani di conversazione, il genere cambia, e si entra nell’intervista. E allora i casi sono due: o si sono riportati correttamente i brani, oppure si viene smentiti. Il che è successo.

    Come dice il Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, "Il colloquio è cordiale e molto interessante e tocca principalmente i temi della piaga degli abusi sessuali su minori e dell'atteggiamento della Chiesa verso la mafia. Tuttavia, come già in precedenza in una circostanza analoga, bisogna far notare che ciò che Scalfari attribuisce al Papa, riferendo 'fra virgolette' le sue parole, è frutto della sua memoria di esperto giornalista, ma non di trascrizione precisa di una registrazione e tantomeno di revisione da parte dell'interessato, a cui le affermazioni vengono attribuite".

    Ancora padre Federico Lombardi: "Non si può e non si deve quindi parlare in alcun modo di un'intervista nel senso abituale del termine, come se si riportasse una serie di domande e di risposte che rispecchiano con fedeltà e certezza il pensiero preciso dell'interlocutore", chiarisce padre Lombardi. Secondo Lombardi, "se quindi si può ritenere che nell'insieme l'articolo riporti il senso e lo spirito del colloquio fra il Santo Padre e Scalfari, occorre ribadire con forza quanto già si era detto in occasione di una precedente 'intervista' apparsa su Repubblica, cioè che le singole espressioni riferite, nella formulazione riportata, non possono essere attribuite con sicurezza al Papa".

    Padre Lombardi sottolinea che "in particolare, ciò vale per due affermazioni che hanno attirato molta attenzione e che invece non sono attribuibili al Papa: cioè che fra i pedofili vi siano dei 'cardinali', e che il Papa abbia affermato con sicurezza, a proposito del celibato, 'le soluzioni le troverò'. "Nell'articolo pubblicato su Repubblica queste due affermazioni vengono chiaramente attribuite al Papa, ma, curiosamente, le virgolette vengono aperte prima, ma poi non vengono chiuse. Semplicemente mancano le virgolette di chiusura: dimenticanza o esplicito riconoscimento che si sta facendo una manipolazione per i lettori ingenui?", si chiede Lombardi.

    Purtroppo restano tante domande. La prima: dal momento che l’episodio non è nuovo (è la seconda volta che ciò accade) perché permetterlo? Un miliardo e duecento milioni di cattolici hanno il diritto di sapere con precisione quello che ha detto il Papa. Specialmente su temi così delicati e interessanti. Se l’interlocutore, per motivi suoi, disdegna l’uso del registratore, e dal momento che già nel primo incontro ci sono stati problemi, forse sarebbe opportuno che la Santa Sede ne comprasse uno. Per difendere “i lettori ingenui”, e per non sembrare – la seconda volta che succede – di passare per ingenui. A meno che, e anche questa è una possibilità, che il tutto faccia parte di una strategia. Lanciare frasi o mezze frasi, che vengono ghermite avidamente, e lasciare alla volenterosa responsabilità dell’interlocutore il compito di renderle più clamorose di quanto esse fossero all’inizio, per poi smentirle. Forse anche, come cantava l'indimenticabile Jannacci, "per vedere l'effetto che fa". Nell’incertezza generale, può anche essere così.

    Ma di incertezza, e non solo, nel mondo dei credenti ce n’è già abbastanza.

    Noi tifiamo per il registratore.


    ***

    Questa la nota di "smentita" e di "correzione" di P. Lombardi sulla seconda intervista di Scalfari al Papa.


    Su “la Repubblica” di questa domenica mattina [13 ottobre 2014, n.d.r.] viene pubblicato con grande evidenza il resoconto, firmato da Eugenio Scalfari, di un suo nuovo colloquio con il Santo Padre Francesco. Il colloquio è cordiale e molto interessante e tocca principalmente i temi della piaga degli abusi sessuali su minori e dell’atteggiamento della Chiesa verso la mafia.
    Tuttavia, come già in precedenza in una circostanza analoga, bisogna far notare che ciò che Scalfari attribuisce al Papa, riferendo “fra virgolette” le sue parole, è frutto della sua memoria di esperto giornalista, ma non di trascrizione precisa di una registrazione e tantomeno di revisione da parte dell’interessato, a cui le affermazioni vengono attribuite. Non si può e non si deve quindi parlare in alcun modo di un’intervista nel senso abituale del termine, come se si riportasse una serie di domande e di risposte che rispecchiano con fedeltà e certezza il pensiero preciso dell’interlocutore.
    Se quindi si può ritenere che nell’insieme l’articolo riporti il senso e lo spirito del colloquio fra il Santo Padre e Scalfari, occorre ribadire con forza quanto già si era detto in occasione di una precedente “intervista” apparsa su Repubblica, cioè che le singole espressioni riferite, nella formulazione riportata, non possono essere attribuite con sicurezza al Papa.
    Ad esempio e in particolare, ciò vale per due affermazioni che hanno attirato molta attenzione e che invece non sono attribuibili al Papa. Cioè che fra i pedofili vi siano dei “cardinali”, e che il Papa abbia affermato con sicurezza, a proposito del celibato, “le soluzioni le troverò”.
    Nell’articolo pubblicato su Repubblica queste due affermazioni vengono chiaramente attribuite al Papa, ma – curiosamente - le virgolette vengono aperte prima, ma poi non vengono chiuse. Semplicemente mancano le virgolette di chiusura…Dimenticanza o esplicito riconoscimento che si sta facendo una manipolazione per i lettori ingenui?
    (Tratto dall'archivio della Radio Vaticana)
    http://blog.messainlatino.it/