quinta-feira, 31 de outubro de 2019

LA COMUNITÀ DEI FIGLI DI DIOLa Comunità fondata da don Divo Barsotti

 LA COMUNITÀ DEI FIGLI DI DIOLa Comunità fondata da don Divo Barsotti, presente in Italia e all'estero, è costituita da sacerdoti e laici che, in famiglia o in piccole case di vita comune, vivono in unione con Dio una presenza cristiana nel mondo. La Comunità dei Figli di Dio è una famiglia religiosa che vuole offrire la possibilità di vivere come veri figli della Chiesa e di realizzare quello che la Chiesa stessa realizza: l'universalità della sua missione. Vuole cioè realizzare l'unità fra tutti gli uomini, non escludendo nessuno, ma accettando tutte le anime di buona volontà senza fare difficoltà di condizione, di età, di stato di vita. La Comunità non vuole creare un élite in seno alla Chiesa, ma vuol far vivere veramente, nella Chiesa, la sua cattolicità. E vuole vivere nel mondo il mistero dell'adozione filiale basandosi su quelli che da sempre sono nella Chiesa i fondamenti della spiritualità monastica: preghiera, ascolto della Parola di Dio, contemplazione, vita liturgica e sacramentale. I membri della Comunità non si ritirano negli eremi, ma vivono da monaci nel mondo, in mezzo agli uomini e nelle strutture sociali. Lavorano negli uffici, nelle scuole, nelle fabbriche, nelle case; sono uomini e donne, sono giovani e anziani, sono sposati e sono non sposati: uniti in un'unica famiglia mediante una consacrazione grazie alla quale si donano e si consegnano al Verbo di Dio, alla Vergine Madre e alla Chiesa. Vogliono che ogni attività umana sia consacrata al Signore: sono al servizio di Dio per essere ovunque testimoni di Cristo con la loro vita. La Comunità non ha opere particolari: in qualunque stato sociale e dovunque si trovino i suoi membri, la loro vita vuole essere una testimonianza di Cristo, pura trasparenza di Dio. La Comunità è nata nel 1946, sotto la direzione di Don Divo Barsotti, sacerdote fiorentino, che indicò un preciso programma di vita: una vita vissuta interamente nella Divina Presenza e fondata soprattutto sulla preghiera. Infatti la vita della Comunità è prevalentemente impostata sulla lettura e meditazione della Sacra Scrittura, sull'esercizio delle virtù teologali, sul primato dei valori contemplativi. I capisaldi della spiritualità barsottiana sono, infatti, semplicità e libertà interiore, adesione alle varie realtà della vita, impegno totale, carità fraterna, rapporto di intimità con Dio. Un “monachesimo interiorizzato”, come amava definirlo Don Divo e fu per quei tempi una vera e propria novità: i valori della vita contemplativa non erano più un'esclusiva degli eremiti ritirati nelle clausure, perché le parole della Scrittura "occorre pregare sempre" in fondo sono rivolte a tutti. Pian piano la Comunità andò crescendo e il piccolo seme sta ora diventando un grande albero che vuol essere piantato nel cuore del mondo. La struttura della Comunità si andò delineando nel tempo fino ad essere quella di oggi, una famiglia aperta a tutti e che comprende vari stati di vita: • laici che vivono nel mondo, sposati o non sposati, e sacerdoti che, dopo un periodo di preparazione, si consacrano a Dio nella Comunità (primo ramo); • sposi che intendono impegnarsi a vivere il Vangelo nella famiglia, e fanno i voti di povertà, castità coniugale e obbedienza (secondo ramo); • laici non sposati che, vivendo nel mondo, intendono vivere la propria donazione a Dio professando i voti religiosi di povertà, castità perfetta e obbedienza (terzo ramo); • vita religiosa nelle Case di vita comune, con fratelli e sorelle che lasciano tutto per vivere la vita tipicamente monastica, basata sulla preghiera, sul silenzio, sul lavoro, sullo studio (quarto ramo). La Comunità dei Figli di Dio non chiede opere, ma il servizio ai fratelli come umile testimonianza di una carità semplice, pratica, fraterna nella consapevolezza che l’amore verso il prossimo non può avere un contenuto religioso se l'anima non s'impegna prima a fare di sé un'offerta al Padre celeste. Non dobbiamo fare, ma essere, era la raccomandazione che il Padre fondatore amava fare sempre ai suoi figli.
"FIGLI DI DIO": PERCHÉ QUESTO NOME?
Figli di Dio sono certamente tutti i cristiani. Con questo nome però la Comunità intende vivere in modo più diretto e profondo la filiazione divina, con una consacrazione che impegna a riscoprire il Battesimo in modo consapevole e responsabile. Il significato di questo nome sta dunque nell'impegno a vivere il mistero dell'adozione filiale nella carità, che è l'essenza del cristianesimo; a obbedire non più alla natura umana, ma soltanto all'azione di Dio che vive in ognuno. E poiché il processo della santificazione implica sempre più un'identificazione, un'unione sempre più intima con Cristo, vivere da "figli di Dio" impone l'ascolto della Parola per accogliere il Verbo, così che il Verbo faccia di ognuno il suo corpo: si è figli di Dio quando si è profeti che incarnano il Vangelo, testimoni di Cristo, che si incarna e vive nell'uomo e attraverso l'uomo si rivela al mondo.

VITA DELLA COMUNITÀ
 La Comunità ha un carattere contemplativo, ed è fondata sulla tradizione monastica. I cardini della vita della Comunità sono: la vita liturgica e sacramentale, la preghiera e l'ascolto della Parola di Dio. Secondo i programmi stabiliti, i membri della Comunità leggono e meditano ogni mese un Libro della Sacra Scrittura in modo da leggere la Bibbia in un ciclo quadriennale; pregano con la Liturgia delle Ore; frequentano la vita sacramentale e liturgica per quanto possibile. L'attività della Comunità tende tutta a realizzare nel consacrato, ovunque egli viva e in qualunque condizione, un vero figlio di Dio, con il cuore immerso nella Divina Presenza, luminoso testimone del Padre, dedito alla preghiera, amante del raccoglimento, che in ogni sua attività vive le virtù teologali della fede, speranza e carità. Ogni settimana i consacrati si incontrano in piccoli gruppi; sono incontri in cui si prega, si fa formazione biblica, ci si confronta e ci si aiuta, cercando di entrare sempre più nel cuore della vita spirituale. Ogni mese poi c'è un incontro allargato dei vari gruppi esistenti nella stessa zona per il Ritiro e per l’ Adunanza, occasioni per meditare la parola del Padre fondatore e per approfondire la spiritualità della comunità. Durante l'anno infine si organizzano corsi di Esercizi Spirituali, di cinque-sei giorni in varie parti d'Italia e un pellegrinaggio per la conoscenza e la scoperta dei luoghi della spiritualità.

STRUTTURA E REGOLE DELLA CFD

Superiore di tutta la Comunità è un sacerdote della vita comune (cd. Moderatore Generale), eletto ogni sei anni, che forma con due laici (un uomo e una donna, Assistenti Generali), la Presidenza. La casa madre è a Settignano dove riposano anche le spoglie del Padre, morto nel 2006, per il quale si è appena dato inizio al processo di beatificazione. La comunità ha una organizzazione capillare nel territorio nazionale costituita da “famiglie”. A capo di ogni Famiglia c’è l’ Assistente di Famiglia. La Comunità è presente in tutte le regioni d’italia. Da qualche anno è presente anche all’estero: Australia, Benin, Inghilterra, Sry Lanka, Colombia. In tutto il mondo ci sono circa due mila consacrati. Si entra nella Comunità dei Figli di Dio in seguito ad una consacrazione, grazie alla quale ci si dona interamente a Dio, impegnandosi a voler vivere la perfezione della carità secondo l'ideale e gli strumenti che la Chiesa ha consegnato alla Comunità: in pratica, si rinnovano le promesse battesimali. Al consacrato viene chiesto di recitare ogni giorno "le quattro preghiere" (Ascolta Israele, Padre nostro, le Lodi di Dio Altissimo e le Beatitudini); la preghiera liturgica, almeno in alcune delle sue parti; di meditare la Parola di Dio. Gli si raccomanda inoltre la frequenza all'incontro settimanale di gruppo e la partecipazione all'incontro mensile e agli esercizi annuali. A tutti è consigliato di darsi un proprio regolamento di vita, che, sottoposto ai superiori, definisca in particolare il tempo da destinare alla preghiera. Prima di entrare nella Comunità c'è un periodo di formazione durante il quale l’aspirante viene affidato ad un incaricato della formazione che gli farà conoscere la Comunità nei suoi intenti e nei suoi mezzi in modo che possa capire i anticipo se il cammino che propone la Comunità possa essere la giusta risposta giusta alle sue esigenze spirituali. La Comunità dei Figli di Dio è stata canonicamente riconosciuta dalla Chiesa come Associazione libera di fedeli, con decreto dell'Arcivescovo di Firenze, card. Silvano Piovanelli, in data 6 gennaio 1984 ed è in corso la pratica per il riconoscimento pontificio.

In molte pagine don Barsotti ci appare come un latitante della Chiesa, una Chiesa che non gli dà quel nutrimento di cui egli grida il bisogno

Il centenario della nascita di don Divo Barsotti

Don Divo Barsotti, del quale quest’anno si celebrano i cento anni dalla nascita (1914-2006), pur essendo stato prolifico pensatore e scrittore, non viene citato dalla maggioranza dei teologi. Per quale ragione?
Seppure apprezzato dalle più alte gerarchie ecclesiastiche a lui contemporanee, questo monaco mistico fu un “grillo parlante” che non ebbe paura di mettere, pubblicamente, il «dito nella piaga»: la volontà di molti uomini di Chiesa di abbracciare il mondo. Pietro Zovatto, autore dell’introduzione al libro del monaco toscano L’attesa. Diario: 1973-1975 (San Paolo, pp. 266, € 17.00) scrive:
«Anche il Concilio Vaticano II, e più precisamente nella costituzione Gaudium et spes, non sfugge all’ambiguità nel determinare il rapporto chiesa-mondo e si lascia sfuggire un’occasione unica, quella di portare la Croce al centro dell’assise conciliare. Forse i padri conciliari opinavano di non prendere di petto l’orientamento prevalente del “processo della storia” in corso verso la mondanità, mentre proprio questo “ipostatizzare la vita del mondo” (20.7.1974) è come legittimare il rifugio dell’uomo in un luogo dove non si trova che l’assenza di Dio, nella “vanità di ogni valore creatoLo Spirito Santo sempre ha assistito la sua Chiesa, e il Concilio Vaticano II nel cambiare tutto, a cominciare dalla pietas con il “culturalismo liturgico”, fa quasi un atto di accusa allo Spirito Santo che fino agli anni Sessanta non avrebbe assistito la sua Chiesa in modo adeguato» (pp. 15-16).
L’attesa è il quindicesimo Diario di don Barsotti, in esso emergono osservazioni, riflessioni, considerazioni schiette e genuine, chiare manifestazioni di un’anima che cerca la santità propria ed è assetato di santità altrui, alla quale attingere… ma l’orizzonte è alquanto spoglio. Infatti, il 14 maggio 1975 scrive: «Chiaravalle milanese. Ho ascoltato stasera P. Leclercq. Anche i più grandi uomini quando non sono dei santi non fanno che rivelare la loro povertà» (p. 228).
Jacques Leclercq (1891-1971), moralista e sociologo, canonico e professore all’Università di Lovanio, tese a una teorizzazione del diritto naturale che, pur ispirata al tomismo, soddisfacesse le istanze della cultura contemporanea; ma don Barsotti non ha mai desiderato soddisfare le necessità della filosofia, della teologia e della cultura contemporanee, bensì quelle dell’anima, centro della vita terrena ed eterna di ogni individuo.
I source: «Vuoto. Non si può costruire sull’acqua, né l’albero cresce e vive senza radici. Questo ci sembra oggi la Chiesa. (…) Sono legato da innumerevoli impegni che danno solo l’impressione della vita e non fanno in realtà che assicurare la morte. La scuola in seminario a giovani che non ascoltano e non si interessano; predicazione a sacerdoti, a religiosi, a suore che ascoltando hanno compiuto il loro dovere per poter continuare poi la loro vita, per mascherare così a loro stessi il deserto e il silenzio di Dio. Mio Dio, liberami da questo inganno; fammi vivere» (p. 223).
Egli si scaglia contro l’orgoglio e la superbia, contro l’antropocentrismo, contro tutto ciò che impedisce al Cristianesimo di esprimere la sua dirompente forza, ovvero la sua «passione»: senza passione, intesa sia come amore e sia come calvario, non si vive, ma si muore. «Come si salverà il mondo? Tutto sembra precipitare nel caos e nella morte. (…) La Chiesa si disfà. Che cosa ci chiede Dio per collaborare alla salvezza del mondo? Null’altro, ci sembra, che l’obbedienza e la fede, ma costano più di un martirio di sangue» (p. 221).
L’autore ci rivela tutto il suo dolore e questa sua immane angoscia, sia spirituale che intellettuale, è così alta da preferire ad essa un martirio di sangue. Eppure ci pare di intravvedere uno spiraglio di speranza: i grandi santi della Sposa di Cristo sono riusciti, da soli e con la Grazia del Signore, ad edificare la Città di Dio anche nel mondo: «Perché ci si agita tanto per quanto si fa, per come si governa la Chiesa, per quello che non si fa e si vorrebbe che fosse fatto?.. non solo i santi del medioevo potevano vivere la loro unione con Cristo e con la Chiesa senza occuparsene troppo, ma perfino i santi della Controriforma non erano, non sono stati mai eccessivamente turbati per quanto si faceva a Roma. Chi ne fu turbato non fu Ignazio ma Lutero» (p. 31). I santi, in fondo, non si preoccupano, ma si occupano di costruire là dove si distrugge.


(Fonte: Cristina Siccardi, Corrispondenza Romana, 28 maggio 2014)
http://www.corrispondenzaromana.it/il-centenario-della-nascita-di-don-divo-barsotti/

Testi di don Divo Barsotti

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La tua povertà è vivere nell'atto che vivi, la Presenza pura di Dio che è l'Eternità» (Divo Barsotti).

Un grande autore spirituale del nostro tempo ha così descritto il senso vero di povertà: «Finché l'uomo non svuota il suo cuore, Dio non può riempirlo di sé. Non appena e nella misura che di tutto vuoti il tuo cuore, il Signore lo riempie. La povertà è il vuoto non solo per quanto riguarda il futuro, ma anche per quanto riguarda il passato. Nessun rimpianto o ricordo, nessuna ansia o desiderio. Dio non è nel passato, Dio non è nel futuro: Egli è la presenza! Lascia a Dio il tuo passato, lascia a Dio il tuo futuro. La tua povertà è vivere nell'atto che vivi, la Presenza pura di Dio che è l'Eternità» (Divo Barsotti).


Carissimi fratelli e sorelle, un grande uomo di Dio, don Divo Barsotti, scrisse: “Nella vita spirituale cristiana i santi sono i fratelli maggiori che ci portano per mano, sono gli amici che ci accompagnano nel cammino. Non ci manca mai il loro amore. Conoscono le nostre debolezze, non si scandalizzano di noi, non si stancano, sono sempre pronti ad aiutarci, ci confortano, ci danno fiducia. Se li conosceremo, non potremo più dimenticarli”.

"Su ventiquattro ore quanto tempo stai alla presenza di Dio? Si parla di Dio come concetto, ma come si vive realmente alla presenza di Dio? Il problema è tutto qui. Infatti che cosa è la vita del cielo? In cielo non hai altro da fare che stare alla presenza di Dio e vivi questo tuo nulla e l'essere infinito di Dio. Per stare in Paradiso non dobbiamo fare altro che vivere nella Presenza. Ed è quello che dobbiamo vivere quaggiù" (don Divo Barsotti) source

Scriveva Don Divo Barsotti: Dio ti fa un grande onore non quando ti dà qualcosa, ma quando ti chiede qualcosa.

La Vita della Chiesa è la Vita di Cristo” Don Divo Barsotti


-La Vita della Chiesa è la Vita di Cristo-
Può sembrare che quello che ho detto sia molto semplice, molto facile, ma è grande: la vita della Chiesa è la vita stessa di Gesù; la Chiesa non vive che la sua vita, non vive che quello che Cristo ha vissuto.
La vita di Gesù si inizia nella tentazione del deserto e termina con la morte di croce: la vita della Chiesa si inizia con le persecuzioni di Roma e termina con la lotta furibonda di tutta quanta la creazione che è a servizio del maligno per opprimerla e soffocarla. Nella prima persecuzione la Chiesa vive nel deserto; al termine invece, conoscerà anche lei l’agonia dal Gethsemani, l’abbandono e la croce.
Ma sarà proprio l’atto della sua morte che la farà risorgere; sembrerà essa morire e invece, nella sua morte, si compirà l’atto di una glorificazione finale e definitiva, nella gloria del Cristo; perché essa non è che il suo medesimo Corpo.
(Don Divo Barsotti, Meditazioni sull’Apocalisse, pag. 251)

Scrive don Divo Barsotti: «La preghiera è possibile perché è Dio che ha preso l'iniziativa. Dunque, è Lui che prega. La nostra preghiera presuppone Lui. Non potremmo parlare a Dio senza che prima Lui parli a noi, e la nostra preghiera tanto più è vera quanto più noi sentiamo che è Lui il primo che parla, il primo che entra nella nostra vita, e ci dà speranza, ci viene in soccorso, ci conosce e ci ama. È la fede che ci dà la possibilità della preghiera».


Don Divo Barsotti (Fondatore della Comunità dei Figli di Dio) , VIVERE LE BEATITUDINI

"Vivere le Beatitudini è difficile, ma è la vita cristiana.
Le Beatitudini stanno al cristianesimo come i Comandamenti all’ebraismo. I Comandamenti sono supposti, perché si esige una base di vita morale, ma il cristianesimo esige l’incarnazione di questo ideale. Incarnare le Beatitudini vuol dire far presente Dio sulla terra.
I Comandamenti sono la volontà di Dio che aspetta da te un compimento: nelle Beatitudini il Regno di Dio è già presente.
Ecco perché la prima interpretazione importa una azione continuata : tu non ami che per l’amore onde sei amato. È l’amore di Dio che trabocca nell’uomo e si rivela nella misericordia dell’uomo verso l’altro uomo. "
Don Divo Barsotti , le Beatitudini 1961

DON DIVO BARSOTTI, C.F.D.: LA DOTTRINA E LA PRATICA: LA GLORIA DEL SIGNORE – 2Cor 3:18

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DON DIVO BARSOTTI, C.F.D.
LA DOTTRINA E LA PRATICA: LA GLORIA DEL SIGNORE – 2Cor 3:18
(Divo Barsotti lo leggevo, e meditavo i suoi scritti, più negli anni passati, ora le mie ricerche sono più « bibliche », ma per la Trasfigurazione del Signore il passaggio della « Cor 3,18 è più volte citato, ve lo propongo…per questo)
Uno dei testi più grandi di San Paolo è il capitolo dell’Ora di sesta, alla festa della Trasfigurazione: ‘Noi tutti a faccia scoperta contemplando la gloria del Signore siamo trasformati nella stessa immagine di chiarezza in chiarezza come dallo Spirito del Signore’. È uno dei testi più belli di tutto il Nuovo Testamento, è uno dei testi più densi di dottrina, e uno dei testi soprattutto più importanti per il cristiano. In questo testo di fatto vi è tutto il programma della sua vita, se la vita cristiana è vita di fede, è vita di preghiera e di contemplazione. E la contemplazione, nel Cristianesimo, è transformante.
Per questo, nella misura che noi contempliamo la luce ci trasformiamo nella luce, di gloria in gloria, in un processo che per la potenza dello Spirito sempre più ci assimila a Cristo e in Cristo a Dio.
Il testo richiama due volte la gloria: l’uomo contempla la gloria per irraggiarla da sè.
Prima di tutto l’anima vive nella presenza di Dio, vive nella sua luce, ma contemplando la gloria ineffabile di Dio diviene essa stessa luce, così, come un cristallo, illuminato dal sole, deviene egli stesso sorgente di luce.
Il primo dovere è quello di vivere in questa presenza, di vivere in questo visione, di contemplare Dio, di essere illuminati dalla luce del Signore.
Il secondo dovere che deriva necessariamente dal primo, è essere segno per gli altri: nella misura che contempliamo, noi stessi siamo illuminati, ed essendo illuminati diveniamo per li altri il segno della gloria.
Ogni cristiano deve essere rivelatore del Padre, come Cristo; segno di una presenza, come Gesù. Egli si è reso invisibile agli uomini, Lui che ha detto a Filippo: ‘Chi vede Me, vede il Padre’, perchè vuol rendersi visibile in ciascuno di noi. Il Cristo deve farsi presente nelle sue membre, in noi stessi.
Noi ci siamo chiesti quale rapporto hanno la festa dell’Epifania e la festa della Trasfigurazione in quanto feste della gloria?
La risposta a questa domanda implica una qualche nozione della gloria. Come si manifesta la gloria? Quale rapporto vi è fra la manifestazione delle gloria nell’Epifania e nella Trasfigurazione di Cristo?
Accenniamo che cosa dobbiamo intendere per la ‘gloria’.
Credo che lo intuiamo senza poterlo definire chiaramente, come avviene sempre nel Cristianesimo in cui la verità è posseduta prima di esser formulata. Ogni elaborazione teologica non è che la traduzione concettuale di una realtà vissuta, di un mistero presente al quale il fedele partecipa. Quello che un teologo insegna non è mai totalmente nuovo per coloro che ascoltano. Anche se coloro che ascoltano fino a quel momento non avrebbero mai saputo esprimere quanto il teologo insegna. All’infallibilità del magistero della Chiesa risponde l’infallibilità del popolo cristiano, il quale può assentire all’insegnamento proposto in quanto ‘sente’ in quello che gli è proposto la traduzione di quanto già confusamente possedeva. Egli infatti nel dono dello Spirito già confusamente possedeva. Egli infatti nel dono dello Spirito già aderisce misteriosamente ‘a tutta la verità’.
Definire che cos’è la gloria, in realtà è ben difficile. Intanto dobbiamo ricordare che quando si parlar di ‘gloria’ ci si riferisce a ‘qualcosa’ che appartiene esclusivamente al dominio della Rivelazione. Per i greci non esiste la realtà che questa parola esprime: ‘doxa’ in greco vuol dire opinione, e nella lingua del nuovo testamento ‘doxa’ vuol dire gloria. Il Cristianesimo e prima ancora l’Ebraismo, ha dato un contenuto nuovo a dei termini vecchi. Se per gloria, come dice San Tommaso, noi intendiamo soltanto ‘una chiara notizia’, lo splendore che porta con sè la bellezza, la potenza, la vita, questo concetto forse si potrebbe trovare anche nella lingua greca, ma non è esattamente questo il contenuto del termine biblico.
Nella rivelazione ebraico-cristiana ‘gloria’ ha prima di tutto un significato oggetivo: è il peso dell’essere, è l’essere trascendente di Dio che non ha alcuna proporzione con l’essere creato e che nella sua manifestazione, si direbbe, dissolve tutte le cose. Le creature non sopportano il peso di Dio.
La gloria è in rapporto col peso. Anche San Paolo nella lettera ai Corinzi parla del ‘pondus gloriae’. ‘Non vi è paragone, – egli dice, – fra le sofference del tempo presente e il peso di gloria che ci aspetta nella vita futura’.
La gloria è un ‘peso’. È la presenza di un Essere che pesa, che schiaccia. Dio ha tale forza, tale grandezza che nella sua presenza vien meno la creazione intera. La gloria di Dio, prima di tutto, si direbbe che uccide e distrugge tale è la sproporzione tra l’essere creato e il Creatore. La creazione stessa si dissolve come fumo alla presenza di Dio.
‘Nessuno può vedermi e vivere’, dice Dio stesso nell’Antico Testamento. Com’è possibile allora che questa gloria si manifesti, se la sua manifestazione di fatto distrugge le cose?
Il peso di Dio, in Sè medesimo, non è ancora la gloria. La gloria di Dio è ‘questo Essere divino’ che, facendosi presente dà alla creatura il senso della Sua pienezza, della Sua forza, della Sua trascendenza, del Suo peso. Distrugge la creatura ma perchè la trasforma.
La gloria di Dio implica una visione, una comunicazione di Dio….: la gloria è Dio che si dona ma proprio perchè il dono è reale e non vi è proporzione tra l’essere creato e Dio, l’essere creato non può sopportare il peso di Dio, non può accoglierlo che venendo meno in qualche modo a se stesso.
La creatura vien meno, per risorgere in Dio. Per la gloria la creazione entra nel mistero di Dio: Dio è incomunicabile, ma nella sua gloria Egli si comunica al mondo. E il mondo che entra in rapporto con Dio per la gloria, tanto più partecipa alla gloria di Dio quanto più entra nel suo mistero.
Proprio perchè DIO è un’altra Realtà nei confronti della realtà creata, nella misura che Dio si manifesta, coloro a cui si manifesta, entrano nella invisibilità di Dio, entrano nel segreto di Dio, scendono nel silenzio, precipitano e spariscono nella luce divina, affondano in Dio e sono sommersi.
Vi è un rapporto di continuità fra la grazia e la gloria – così tu, pur essendo già in Dio, continui a vivere anche quaggiù la grazia già ti trasferisce nel seno di Dio ma non totalmente; così tu, pur essendo già in Dio, continui a vivere quaggiù in una condizione ei esilio, di lontananza, di estraneità al mondo divino.
Ma già la grazia è la comunicazione che Dio fa di Se stesso, comunicazione per la quale Egli trae le creature, che aveva solevato dal nulla, nel suo stesso mistero. Dio l’ha stabilita nell’essere, ma per Iddio l’averla creata è soltanto condizione per poi trarla nel suo segreto, nel suo mistero, nel suo intimo Seno.
Questo processo onde la creature è tratta nel segreto di Dio è il cammino della vita religiosa, è il cammino stesso della rivelazione divina, il cammino perciò della gloria.
Questo processo termina con la morte, perciò con la morte l’uomo esce definitivemente da questa realtà creata e precipita nella Realtà divina: questo è l’ultimo atto di una comunicazione che Dio mi fa di Se stesso, comunicazione che esige precisamente la fine della condizione di vita che è propria della creatura come tale.
All’inizio Dio si rivela, si direbbe, nel modo più clamoroso. La trascendenza di Dio si svela agli uomini nei fenomeni più straordinari, negli avvenimenti cosmici, nella creazione intera.
Avanti di Abramo e anche dopo nelle religioni che non hanno acceduto alla rivelazione profetica, Dio è conosciuto attraverso i grandi avvenimenti del cosmo: le stagioni, l’uragano, il terramoto, l’immensità dei mari… sono manifestazioni di Dio. Dio esce nella sua gloria dal suo segreto: e attraverso questi avvenimenti l’uomo è chiamato a percipire un’altra Realtà, a rendersi conto del peso di un altro mistero di cui questi avvenimenti sono il segno soltanto.
Nella religione cosmica il rapporto con Dio si stabilisce attraverso questi avvenimenti straordinari di una imponenza magnifica che schiacciano l’uomo, lo atteriscono, tuttavia principalmente sul piano fisico. L’uomo si sente minacciato e sgomento. Dio non si fa vicino all’uomo che suscitando lo sgomento della morte.
Quando Dio si fa più vicino, la rivelazione si fa meno impressionante sul piano esterno e l’uomo è sollecitato ad entrare finalmente nel mistero di Dio.
Mentre nella rivelazione cosmica Dio rimane lontano, nella rivelazione profetica Egli si fa vicino all’uomo, entra nella sua storia. La manifestazione della gloria di Dio non ha più un legame soltanto con gli avvenimenti del cosmo, ha un legame con la storia dell’uomo. Dio si è fatto più vicino all’uomo e l’uomo Lo scopre, ora, nella sua medesima vita, nella sua medesima storia.
Ma la rivelazione ultima è quella del Cristo: Dio non soltanto si fa vicino ma veramente si dona e si comunica nell’umiltà più profonda di una vita comune.
Via via che Dio si avvicina all’uomo e la rivelazione divina si fa più piena, ma anche più intima all’uomo, anche l’uomo procede in un cammino di libertà e di responsabilità. All’inizio quando Dio gli parlava attraverso la natura era difficile e quasi impossibile per l’uomo poter sottrarsi alla sua luce, allora l’umanità poteva essere idolatra, ma era religiosa; oggi, al contrario, ci si domanda se è possibile che permanga la fede senza la religione. Sembra che l’umanità proceda verso una età che non avra più religione. Forse è esagerato, anzi forse è del tutto impossibile che l’umanità si incammini verso questa età. Tuttavia è vero che il processo della rivelazione divina terminando nel Cristo non riconosce più nella natura il ‘segno’ più alto di Dio. Il ‘segno’ più alto di Dio è l’uomo. Ma l’uomo può negarsi ad essere segno. Di qui il carattere di maggiore discontinuità che ha il fenomeno religioso per il mondo di oggi. La fede che l’uomo presta a Dio diviene sempre più un atto libero – non si fonda più sul rapporto necessario che l’uomo ha con una natura ancora sacra e rivelatrice di Dio. In questo cammino se Dio dunque si fa più intimo all’uomo, anche più si nasconde. La ‘secolarità’ del mondo moderno di cui spesso si parla, è ambigua – può essere la testimonianza più alta di un’esperienza di Dio non pero ‘altro’ dall’uomo ma divenuto veramente uno con lui nel primo fulgore della rivelazione cristiana, ma può essere anche l’essenza vera di Dio, può essere per l’uomo ‘la morte di Dio’.
È estremamente difficile vivere il Cristianesimo: noi siamo ancora dei primitivi, nella nostra religione ancora si avverte più Dio nel terremoto o nell’immensità del mare, di quanto non si avverta nel Cristo, di quanto non si avverta e non si comunichi con Lui nel Mistero eucaristico.
Siamo estranei ancora al mistero di Dio. In realtà la gloria più alta di cui l’uomo abbia mai avuto esperienza quaggiù è stata ed è la rivelazione che Dio ci ha fatto di Sè, nell’umiltà di Gesù. La rivelazione della gloria nell’umiltà di Gesù è veramente per l’uomo un discendere, un entrare proprio nell’intimo seno della divinità. In Cristo infatti veramente la natura umana è stata assunta da Dio. La gloria di Dio non più come nella rivelazione cosmica manifesta Dio nel peso di uno sgomento di morte, la gloria ha invece il peso di un amore che l’uomo non riesce a concepire e a contenere in sè. La creatura non saprà mai credere pienamente a questo amore.
Anche per i Santi la cosa più difficile è credere all’amore di Dio nel Cristo. Credere cioè che l’Infinito, l’Immenso in tal modo ci abbia amato da farsi davvero nostro fratello, da divenire veramente figlio dll’uomo così che l’uomo lo possa portare sulle braccia, lo possa stringere al cuore.
Altro il peso della grandezza divina che ti minaccia di morte nel terremoto, altra la rivelazione dell’amore di Dio nell’umiltà di Gesù! L’umiltà, la debolezza dell’infanzia del Cristo è qualche cosa che non ha proporzione assolutamente nè con tutta la creazione nè con tutta la storia del mondo. È un abisso, una immensità infinitamente più vasta di ogni tuo spirito. Come non vi è proporzione fra la materia e lo spirito, così non vi è proporzione fra una gloria che si manifesta nella potenza degli avvenimenti del cosmo e la rivelazione della gloria che si manifesta invece nella delicatezza, nell’umiltà di un amore che si spoglia di tutto per tutto donarsi.
La rivelazione suprema di Dio è questo ‘sparire’ di Dio nella umiltà del Cristo. E questo ‘sparire’ di Dio nell’umiltà del Cristo accenna e prepara il totale sparire di Dio come ‘altro da te’ nella vita futura. Nella vita futura la gloria è semplicemente il superamento della dualità: Dio non è più ‘altro da te’, rimane la distinzione della creatura da Dio, ma la distinzione sussiste nella unità: tu non dici che Dio, tu non sei più che Dio, tu sei la sua santità, la sua vita. Non puoi cercare al di fuori di te una visione di Dio: la visione beatifica si identifica al possesso di Dio, si identifica alla tua ‘Unità’ con Lui alla tua trasformazione in Dio stesso. Rimane la distinzione ma nella unità. In questa unità non è soltanto l’uomo che sparisce come altro da Dio, è anche Dio che ‘sparisce’ come altro dall’uomo. Sparisce come ‘altro’ da te.
Il cammino della gloria è precisamente un cammino di umiltà. È il cammino infatti onde l’uomo entra sempre più nell’abisso di Dio e sparisce e non rimane più che la luce divina. Dio si comunica in tal modo all’uomo che l’uomo non lo può trovare più al di fuori di sè. Prima lo vedeva nel cosmo, poi lo riconosceva nella sua medesima storia, poi Dio entrava nella sua medesima vita finchè Egli diveniva Uomo diveniva lui stesso. Di fatto, nella misura che Dio rimane ‘altro’ dall’uomo l’uomo è nell’inferno. L’inferno è la divisione. (Non la distinzione perchè la distinzione rimane eterna, ma la divisione).
È per noi estremamente difficile vivere la festa della gloria nel seno del Cristianesimo. Per noi Dio sembra manifestarsi di più nella luce di un tramonto o nella solennità del silenzio dei monti, che nella nostra umile vita, che nei nostri poveri sentimenti umani. Di fatto tuttavia, l’atto supremo di una comunicazione di Dio nella vita presente è la semplicità di una Comunione Eucaristica. L’atto supremo della gloria quaggiù è perciò una comunione onde Dio si dona a te ed entra in te e tu Lo possiedi nella umiltà di un suo nascondimento totale, che implica anche un tuo nascondimento in Lui. In tanto Egli di fatto si manifesta nel suo nascondimento e tu Lo ricevi in quanto tu stesso entri nel suo occultamento divino.
La rivelazione suprema della gloria non potrà mai avvenire, comunque, nella vita presente, ma avviene con la morte, perchè è precisamente con la morte che l’uomo precipita definitivamente nel silenzio di Dio. Così la gloria d’identifica al silenzio e alla morte.
Ma è nel Cristo ora che Dio si rivela (e non è detto che anche domani non debba essere il Cristo, ma domani in quanto in Lui io sono già trasformato, oggi in quanto il Cristo ancora mi parla come fosse altro da me) ‘Filippo chi vede me, vede il Padre’.
Proprio per questo la gloria di Dio è sollecitata oggi dell’uomo nel mistero della Epifania e della Trasfigurazione.
Nell’Epifania è Dio che si rivela al ‘mondo’. L’accento vien posto su Dio. Nella Trasfigurazione è l’uomo ‘il mondo di quiaggiù’, che sia pur furtivamente, entra nella gloria divina. L’accento vien posto sull’uomo.
È la medesima gloria, ma noi la contempliamo in due misteri distinti: nell’atto onde Dio si rivela agli uomini, nell’atto onde gli uomini entrano in questa gloria. Nella prima festa la Chiesa celebra l’Epifania di Dio nella debolezza e nella impotenza di Gesù Bambino, nella seconda, al contrario, celebra la Trasfigurazione dell’Uomo Gesù investito della gloria di Dio.
La gloria di Dio si manifesta nella debolezza dell’infanzia perchè questa debolezza non suppone alcuna collaborazione dell’Umanità di Gesù alla manifestazione della gloria: nella sua debolezza, nella sua impotenza Egli è la Gloria. Il Vangelo insiste in modo particolarissimo nel farci riconoscere nei misteri dell’infanzia la manifestazione della gloria. Il Verbo non ha bisogno di particolari atti compiuti dalla sua Umanità per riverlarsi al mondo: nel suo stato di debolezza, di umana impotenza, di umiltà, Egli è la Gloria. ‘Gloria a Dio nell’alto dei cieli’, hanno cantato gli Angeli sopra la grotta di Betlem.
Da adulto la gloria si rivela in Cristo attraverso una collaborazione della sua Umanità all’azione di Dio che si comunica al mondo. Così il mistero della Trasfigurazione è legato, nei Vangeli sinottici, alla Passione. Nella Trasfigurazione è veramente l’Umanità che entra nella gloria ed è trasfigurata da Dio, ma vi entra attraverso una partecipazione, una collaborazione, consapevole, libera e piena di amore.
Nella misura che l’uomo è quello che è, povero, debole, impotente, Dio già lo fa segno della sua presenza, perchè Egli l’ha assunto e ne ha fatto lo strumento e il sacramento della sua gloria immensa.
Ma l’uomo deve anche entrare progressivamente in questa luce collaborando all’azione stessa di Dio. Così il mistero dell’Epifania e quello della Trasfigurazione sono celebrati proprio perchè la celebrazione è anche partecipazione al mistero.
Ognuno di noi è segno già di una presenza di Dio, lo è non nella misura che è grande, che è potente, ma nella misura della sua impotenza, della sua debolezza, della sua umiltà. Dio che ha assunto la natura umana in Cristo per rivelarsi in questa natura, in atto primo ha assunto anche ogni uomo.
E tu devi riconoscere il segno di Dio nella umiliazione dell’uomo, nella sua povertà. Così insegna giustamente la spiritualità ortodossa e specialmente russa. Ecco come noi dovremmo avvicinarci (perchè altrimenti non sapremmo riconoscere in Gesù bambino il Figlio di Dio) ai poveri, ai sofferenti, agli umili; a questi uomini che sembrano non valere, non essere nulla agli occhi del mondo: essi sono il segno di Dio.
Dio non si rivela più tanto negli avvenimenti cosmici e nemmeno negli avvenimenti storici, ma nella debolezza di un Bambino che non sa parlare, si rivela nell’impotenza di un Bambino che ha bisogno di difesa, si revala null’umiltà di un Bambino deposto su una mangiatoia. La gloria di Dio non si rivela nei miracoli del Cristo come si rivela in questa sua debolezza ed impotenza.
Proprio nella misura che Dio si fa presente, riduce l’apparato della sua grandezza. E ogni uomo participa del mistero della gloria di Dio che si rivela nell’impotenza, nell’umiltà di Gesù bambino, nella misura che ogni uomo è povero, debole come Lui, nella misura che è quello che è, una povera creature. Non potremo avere una rivelazione più alta della gloria divina che di saperci, di sentirci il termine di un Amore immenso.
E la nostra povertà che potrebbe sembrarci un ostacolo insuperabile è il segno precisamente della più meravigliosa rivelazione dell’amore divino; proprio perchè siamo poveri si manifesta più grande l’amore di Dio in noi. Noi non possiamo che aprirci a uno stupore senza fine nel saperci amati, nel sentirci amati per nulla.
È proprio la povertà dell’uomo che dice l’incommensurabilità dell’amore divino; è proprio la nostra debolezza che dice l’insondabile ricchezza della misericordia infinita. Dio si rivela precisamente in questo come Dio, per il fatto che ci ama, per il fatto che si dona a noi, per il fatto che Egli ha voluto esser una cosa sola con noi, non scegliendo la grandezza umana, ma scegliendo la nature umana spoglia di qualsiasi valore che non fosse la sua debolezza e la povertà di creatura.
Realizzare tutto questo vuol dire vivere veramente il nostro cristianesimo nel senso più pieno e più vero.
Per il mistero della Trasfigurazione l’uomo partecipa alla gloria attraverso una sua collaborazione umana. Ma la collaborazione è sempre ben povera cosa.
Se l’atto supremo onde l’uomo entra nella gloria è la morte, il sottrarsi definitivo dell’uomo alla vita presente, tuttavia la morte non può mai che essere accettata dall’uomo. La collaborazione che Dio chiede all’uomo non sarà che l’impegno di una volontà che si libera, si scioglie da ogni legame e si offre puramente a Dio. Non si vuole appartenere più, si lascia investire da Dio, si lascia possedere da Lui, si strappa a se stessa per abbandonarsi all’amore di Dio come alla morte.
* * *
Per noi cristiani, la gloria di Dio dunque non è più (anche se non è esclusa) la rivelazione che Dio fa di Se stesso attraverso la creazione e non nemmeno più la rivelazione che Dio fa di Se stesso attraverso una storia in cui Egli stesso interviene: è l’uomo che Egli ha assunto in unità di persona.
A una prima visione sembrerebbe che la gloria di Dio, nella sua manifestazione, vada diminuendo. Da una manifestazione di avvenimenti cosmici a una manifestazione di umiltà; da una manifestazione di potenza ad una manifestazione che si riduce quasi al nulla. In realtà se noi siamo scandalizzati da questo processo, lo siamo perchè noi rimaniamo estranei al processo stesso, non abbiamo cioè camminato con Dio.
Se tu rimani estraneo a Dio, Dio, per te, si occulta sempre di più. Se invece ti lasci prendere da Lui, tu stesso entri nel segreto divino, tu stesso entri in Dio.
L’occultamento di Dio allora è il to stesso occultamento in Lui. Non è perchè Egli ti è estraneo che rimane nascosto, è al contrario perchè tu stesso ti assimili a Lui e quasi in Lui stesso ti perdi.
Per chi rimane al di fuori di Dio, certo, il Bambino Gesù non sembra più nulla. Mentre nessuno può rimanere indifferente a uno sconvolgimento cosmico, molti possono rimanere indifferenti di fronte al sorriso di un bambino. Se noi non rimaniamo indifferenti ad una rivelazione che ci colpisce dall’esterno (appunto perchè viviamo all’esterno) possiamo rimanere invece indifferenti ad un rivelazione che si fa soltanto nell’intimo.
Proprio perchè Dio si è comunicato più intensamente, più personalmente, questa comunicazione di Dio non avviene più in tal modo da colpirti dall’esterno: deve invece realizzarsi nel più intimo del cuore. Se tu rimani fuori di te, nessuna rivelazione si compie per te: Dio si fa vicino ma tu non ti incontri con Lui. È proprio avvicinandosi all’uomo che Dio gli diviene sempre più estraneo se l’uomo non entra in se stesso, non lo cerca nel suo intimo cuore.
La maggior parte, anche degli uomini sente ancora la presenza di Dio più dinanzi all’immensità dei mari che in una piccola cappella odorante di incenso.
Così avenne anche fra i popoli in mezzo ai quali viveva Israele: Israele sapeva riconoscere Dio nella sua storia, gli altri popoli no. Ma soprattutto, così è avvenuto per la maggior parte degli uomini quando Dio si è fatto uomo: pochissimi seppero riconoscerlo. Perfino agli Apostoli, che erano vissuti con Lui per tanto tempo, Gesù deve dire: ‘Filippo, da tanto tempo io sono con voi e ancora non me avete conosciuto. Filippo, chi vede me, vede il Padre’.
L rivelazione suprema implica l’occultamento più grande. Quanto più la nostra vita religiosa diviene profonda, tanto più, non solo diviene segreta, ma divience semplice, perde ogni apparato esterno, si spoglia, si fa pura come la luce. Non è’ così la vita di Maria SS? Forse la stessa Annunciazione si è compiuta in una ispirazione interiore (e san Luca, forse, ha dovuto descriverla in termini di visione, perchè altrimenti noi non avremmo capito): Maria SS. che viveva nell’intimità più profonda sapeva discernere la venuta di Dio, anzi viveva più grandemente la visione della gloria quanto più la visione era intima e segreta.
Veramente quanto più Dio si comunica all’uomo e l’uomo entra nella gloria divina, tanto più rimane nascosto da questa medesima luce. La realtà dello spirito è più proporzionata a Dio della realtà fisica. È questa realtà che perciò è maggiormente significativa di Dio. La visione della gloria è più pura e più grande quanto più è spirituale. Più che nei grandi avvenimenti, è nel piano personale di una comunione di amore che si manifesta la gloria di Dio.
La suprema manifestazione della gloria è l’amore di un Dio che muore per l’uomo. È il dono dello Spirito onde Dio si fa intimo all’uomo. Mai nessuna filosofia, nessuna religione avrebbe potuto immaginare una cosa simile. La fede cristiana veramente sconcerta, scandalizza e sgomenta. E se noi non siamo sgomenti e sconcertati è perchè noi ripetiamo sì le formule del catechismo, ma non ci preoccupiamo di realizzare quello che esse vogliono dire per noi.
Vorrei dirvi quello che ho provato ieri, per due minuti, forse anche meno, durante la mia adorazione della sera: sentivo che il mio atto era tutta la vita, tutta la realtà: Dio si comunicava a me nella umiltà di quella mia esperienza umana, di quel mio vivere l’istante: Cristo era in me. E non esisteva più nulla al di fuori di me. Come potrei di fatto ricevere il Cristo, come potrebbe il Cristo communicarsi a me, se io non vivessi in quell’atto tutta la vita? Non è il Cristo tutto Dio e tutto l’uomo? Così al di fuori di quell’atto non c’era più nulla, e io vivevo in quell’atto la mia comunione col Cristo.
Eppure com’è difficile per noi vivere questo! Come pochi sono sensibili a Dio nella rivelazione cristiana! La rivelazione suprema di Dio si realizza per l’uomo quando egli si sottrae a tutto il visibile e precipita per sempre nella luce infinita: la morte. Allora davvero non rimane più che Dio. Dio si è comunicato finalmente all’uomo, così da divenire per l’uomo tutta la vita e tutta la realtà, così da non esistere più per l’uomo che Dio.
Parliamo con un linguaggio più semplice e più diretto: in che modo noi viviamo il nostro rapporto con Dio? sappiamo riconoscere Dio nella nostra umile vita, nella nostra esistenza reale? Come viviamo la nostra comunione con Lui?
Dobbiamo essere sensibili ad una divina presenza, ad una presenza che dà al minimo atto dell’uomo una grandezza che ha le misure stesse di Dio, perchè nell’atto dell’uomo, se l’uomo ha fede, confluisce nell’istante tutto il bene divino.
S’impone per me, non soltanto vivere nella presenza di Dio, come comunemente s’intende, quasi nel sentimento di una infinità nella quale sono sommerso, si tratta di vivere l’imensità di un amore che ha per termine me! che ha per termine questo mio istante di vita sul quale pesa l’immenso peso di gloria e di amore: Dio che mi ama!
La testimonianze che sembrano anche le più alte di una mistica religiosa non cristiana, sono ben povera cosa nei confronti di una vita cristiana. Fuori del Cristianesimo non è mai realizzata da impazzire di gioia se noi veramente vivessimo questa esperienza: Dio, cioè, che si comunica a ciascuno e tanto più si manifesta quanto più si manifesta come Amore che ha per termine nessun altro che l’uomo, ogni uomo cui totalmente Egli si dona.
Ma noi siamo come ciechi, viviamo immersi in questa luce, siamo l’oggetto di questa tenerezza infinita e ne rimaniamo come estranei, come estranei erano alla presenza del Cristo coloro che vivevano con Lui, i suoi ‘fratelli’; i suoi discepoli stessi durante la sua vita mortale.
A noi, ora, si dona anche di più di quando Egli viveva nella sua vita mortale. Nel dono del suo Spirito ora Egli è veramente presente a ciascuno, ora veramente Egli si è fatto cibo dell’uomo per vivere in lui e per assumerlo in Sè. Veramente nel dono del suo Spirito Dio si comunica intimamente agli uomini e fa sì che gli uomini che lo ricevono, oggi e qui, possano vivere una vita divina!
È proprio per questo che il mistero dell’Epifania non è soltanto il mistero di una manifestazione della gloria di Dio nell’umanità di Gesù. È anche il mistero della manifestazione della presenza di Dio nell’umiltà del Cristo. E Cristo siamo tutti noi che siamo le sue membra. E Dio si rivela proprio nelle nostra povertà, e Dio vuole veramente esser presente e vive nella nostra umiltà; si rivela ed è presente, non a noi ma in noi e per noi al mondo.
Ognuno di noi, se è cristiano, è epifania del Signore. Essere cristiani vuol dire così essere della famiglia di Dio, vuol dire esser già entrati nel segreto di Dio, perchè, se Dio ci ha donato il suo Spirito, Dio in qualche modo ma realmente non è più senza di noi nè noi siamo senza di Lui. E noi siamo nella gloria; non vediamo semplicemente la gloria, in questa gloria già siamo in qualche modo trasformati.
Di qui nasce l’obbligo fondamentale della vita cristiana: la glorificazione di Dio. È il dovere che praticamente riassume tutta la legge del cristiano: essere la lode, essere la gloria di Dio.
E vuol dire lasciarsi investire, lasciarsi possedere da Dio. Altra gloria non puoi dare a Lui che quella di manifestarLo in te, che quella onde Lo riveli.
Il Verbo di Dio è la gloria sostanziale del Padre precisamente perchè il Padre tutto si comunica al Figlio e, nel Figlio, tutto Egli possiede. Così il cristiano tanto glorifica Dio quanto si lascia investire da Dio finchè egli non riveli più se non Dio solo. La glorificazione dell’uomo non è l’atto dell’uomo ma di Dio, è come un essere consumati dal fuoco della Divinità, così che nell’uomo non viva più che la Sua luce, non si faccia presente che la sua volontà. Certo, l’uomo rimane, ma rimane per attestare Dio. L’uomo rimane ma non dice più che Lui.
La vocazione dell’uomo è quella di essere Dio. L’uomo realizza se stesso soltanto se muore a una sua indipendenza, a una sua autonomoia nei confronti del Creatore e, lasciandosi investire dalla sua presenza, fa sì che Dio vive attraverso di lui, Dio si esprima, Dio si manifesti, Dio si riveli, Dio dica Se stesso attrverso l’essere creato.
Questo avviene nel Cristo.
La natura umana in tal modo è stata assunta dal Verbo che il Verbo ora ‘si esprime’ attraverso questa natura creata che è l’uomo.
L’uomo singolo che nacque dalla Vergine e tuttavia ogni uomo in cui in qualche modo si estende l’incarnazione divina. Quello che è avvenuto nell’uomo Gesù, questo deve avvenire così in ciascuno di noi. È vero che noi siamo persone distinte dalla Persona del Verbo, ma è anche vero che noi viviamo la nostra vocazione personale in quanto ci doniamo al Cristo e siamo posseduti da Lui sì da divenire con Lui un solo corpo, uno spirito solo.
Che cosa vuol dire glorificare Dio? Vuol dire lasciarsi investire da questa presenza in tal modo che tutto quello che in noi è ‘proprio’ sia consumato come ruggine dal fuoco e non rimanga che l’amore onde Egli ci ama e ci fa suoi.
Questa è la gloria che l’uomo deve dare a Dio: un lasciarsi possedere, investire, trasformare da Lui così che al termine Lui solo rimanga.
Ricordo che un amico mi fece leggere alcune pagine di un romanzo di cui non ricordo più il titolo. L’autore americano, Huxley mi sembra, imposta il suo romanzo a Firenze. Il suo protagonista è un libertino che, quando muore precipita nella Realtà. L’autore ci descrive l’esperienze di quest’anima che vuole difendersi dall’invasione della luce divina. Quest’anima sfugge a questa luce, ma pian piano questa luce (l’autore pensa che l’inferno non c’è) nonostante la resistenza dell’uomo, lo invade, lo trasforma e lo assimila a sè. Secondo l’autore la vita del cielo è questa luce pura, senza ombra alla quale domani ogni anima si dovrà identificare. Non possiamo dire che ogni anima si identifica a Dio, questa identificazione sarebbe un processo che dovrebbe escludere la responsabilità personale dell’uomo ed escluderebbe anche l’amore personale di Dio. Una concezione come quella di Huxley più che cristiana è gnostica. Tuttavia c’è qualcosa di vero in quello che egli dice. Mantenendo fermo che l’amore dell’uomo a Dio è un amore personale, libero, che implica una nostra responsibilità (Dio aspetta da noi una risposta); mantenendo fermo che l’amore di Dio ugualmente è un amore personale e non è una necessità di natura, possiamo accettarlo veramente: non vi è possibilità di un incontro fra l’uomo e Dio che se cessa il senso della dualità: Dio è l’Unico.
L »Advaita’ degli indù non è ancora per sè il monismo assoluto: la ‘non dualità’ non è ancora l’unità in qui scompare ogni distinzione di Dio e della creatura ma è il riconoscimento dell’unità nella loro distinzione eterna.
Dio non più comunicarsi a te e divenire una ‘tua’ richezza, una ‘tua’ vita (sarebbe un negare Dio che Egli possa essere qualcosa e non tutto, possa essere qualcosa e non l’unico). Se Dio è Egli è tutto. Tu non puoi riceverlo che in quanto in Lui ti trasformi.
Qual è la gloria che tu puoi dare a Dio? Lasciarti possedere da Lui. Che Lui sia.
Che Dio sia Dio. In queste parole è la nostra risposta.
Che Dio sia Dio, è già ora la nostra preghiera. Perchè questo avvenga, si direbbe, che Dio nell’avvicinarsi all’uomo debba in qualche modo sparire, perchè anche l’uomo sparisca in Dio. È veramente un processo di amore. Nell’amore ognuno che ama vuole l’altro prima di sè. Dio, che ama, tanto più si avvicina tanto più si fa povero, diviene quasi nulla: il Dio creatore ‘diviene’ il Dio creature, il Dio Bambino. Ma anche l’uomo, nella misura che ama, l’uomo peccatore, che contro la volontà di Dio difende una sua libertà e vuole affermare se stesso anche contro Dio, rinunzia a ogni ‘suo’ volere, a ogni ‘sua proprietà’ per abbandonarsi come la Vergine Maria e si lascia possedere e non vive più una sua vita finchè non vive più che la sua morte. Non vivendo più che l’amore non vive più di fatto che la morte, perchè l’amore è la morte, è la morte di sè.
Tanto da una parte che dall’altra è un processo di umiltà e di morte. Ma Dio muore per vivere in te, e tu muori per vivere in Lui. Ed ecco che Dio, ora, non è più in Se stesso ma in te e tu, non vivi più in te stesso ma in Lui. Così come il Padre vive nel Figlio e il Figlio vive nel Padre. Non cercare più Dio fuori di te, Egli ora è soltanto in te, perchè Egli ti ama. Se fosse al di fuori di te non sarebbe l’Amore. Ma anche tu, se tu ami, non puoi trovarti più in te stesso, non ti ritrovi più che in Dio, non vivi più che in Lui solo.

Sul Padre Nostro. Divo Barsotti.


(Giotto di Bondone, Lavanda dei piedi, 1300-1305,  Cappella degli Scrovegni, Padova)

Trascrivo la meditazione di don Divo Barsotti (1914-2006), scritta per un ritiro del 16 giugno 1966. Teologo, fondatore della “Comunità dei figli di Dio”, nel 1972 ha seguito gli Esercizi Spirituali di papa Paolo VI

Formula e distintivo dei discepoli di Gesù

Se Ascolta Israele è la formula che distingue l’Ebraismo (e può essere nostra perché noi siamo il nuovo Israele) ed è la formula che distingue essenzialmente tutto il popolo eletto tanto dell’Antico come del Nuovo Testamento, il Padre Nostro invece è la formula che distingue solo il Nuovo Israele, i discepoli di Gesù.
Per chiarire queste concetto rifacciamoci alla Sacra Scrittura. Come Ascolta Israele è un testo fondamentale del Deuteronomio, così il Padre Nostro è un testo del Vangelo.
Come il Deuteronomio, richiamando l’Alleanza del Sinai, vuole anche essere come il vademecum del pio Israelita più di qualsiasi altro libro della Sacra Scrittura ed è proprio nel Deuteronomio che già troviamo, si direbbe, i testi fondamentali e primitivi della liturgia ebraica (proprio per questo il Deuteronomio, a differenza di tutti gli altri libri dell’Antico Testamento, è quello che comporta di più formule già fatte e testi che saranno all’origine di tutta la produzione liturgica israelitica) così all’inizio di tutta la produzione liturgica propria del Cristianesimo, rimane il Padre Nostro. E questo mi sembra bene sottolinearlo proprio per chiarire precisamente l’importanza che deve avere per la nostra vita di preghiera, sia pubblica che privata, il Padre Nostro
Ma dobbiamo dire di più, cioè, Nostro Signore medesimo ha voluto dare, secondo i Vangeli Sinottici e in particolare seconde il Vangelo di Luca, il Padre Nostro come tessera di riconoscimento per i suoi discepoli.
Nel quarto Vangelo la tessera di riconoscimento per i discepoli dì Gesù è l’amore fraterno: “Da questo conosceranno che siete miei discepoli”, ma i Vangeli Sinottici riportano il Padre Nostrocome tessera e distintivo dei disecepoli di Gesù. Infatti il dono del Padre Nostro ai discepoli, Gesù lo fa stimolato da loro, i quali si rivolgono a Lui per averlo visto pregare: “Insegnaci a pregare”. Gli chiedono che come Giovanni Battista ha dato ai suoi discepoli una formula di preghiera, così anche Lui dia loro una formula. E il Padre Nostro diviene il segno distintivo dei discepoli di Gesù e Gesù lo dà proprio come segno della fede che essi hanno nel Cristo.

L’amore fraterno è pure il distintivo del cristiano

L’amore fraterno, secondo l’evangelista Giovanni, e il Padre Nostro, secondo sopratutto San Luca, sono i due segni distintivi dei discepoli di Gesù.
Quello che distingue Israele è l’ascoltare Dio, perché ancora l’uomo non può parlare a Dio, non è entrato in vera comunione con Lui. L’Israelita dirà i Salmi, è vero, ma quello che lo distingue è l’ascoltare Dio che gli dona una Legge. Quello che distingue invece il cristiano, che è redento ed è entrato nella vita divina, è il colloquio, il dialogo, il rapporto vicendevole: Dio ti ascolta, tu gli puoi parlare, tu sei figlio.
Lo schiavo non può parlare, può accettare soltanto una legge e obbedire e deve stare zitto. Ora invece l’uomo è figlio e non solo ascolta Dio ma anche gli parla.
Ecco quello che distingue veramente il Cristianesimo: l’uomo è entrato veramente in comunione con l’Eterno, può rivolgersi a Lui e stabilire con Lui il rapporto più intimo: Padre. L’uomo quando si rivolge a Dio con le preghiera del Padre Nostro riconosce un legame ontologico, una unione, una comunione di sangue.
Padre Nostro… tessera di riconoscimento perché dice una redenzione avvenuta, perché dice l’unità di una vita, perché assicura e garantisce una vera comunione di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio.
Ma perché tessera di riconoscimento dei cristiani sarà anche l’amore fraterno? L’amore fraterno viene dopo aver riconosciuto un padre. Noi siamo fratelli soltanto se Dio è Padre, perché altrimenti, sul piano umano, nulla ci fa fratelli essendo stata la natura umana divisa e disgregata col peccato.
Dopo il peccato che cosa vi è di comune fra uomo e uomo? Il rapporto dell’uomo con l’uomo, dopo il peccato, non è tanto la comunione, quanto la guerra. Praticamente la storia di questo mondo è storia soltanto di guerre.
Ma se tu hai ritrovato il Padre, Dio, in Dio anche hai ritrovato gli uomini come tuoi fratelli. La paternità divina ristabilisce un’unione fra gli uomini che è ben altrimenti profonda di quella soltanto di natura. Ed è per questo che altra tessera di riconoscimento, allora, sarà l’amore fraterno.

L’uomo può raggiungere Dio?

Un’altra cosa che vorrei notare a proposito del Padre Nostro ed è il modo veramente strano della sua composizione. Sembra che tutto sia fatto a rovescio. Effettivamente sembra più logico terminare con la parola “Padre” che è certamente il vertice di ogni cosa. Dopo aver detto questa parola il resto è tutto compreso. Allora Nostro Signore ha sbagliato questa preghiera?
Vorrei dirvi una cosa: effettivamente sarebbe sbagliata soltanto se noi potessimo giungere a questo vertice, che è Dio, partendoci del basso, salendo. Ma vi è strada fra l’uomo e Dio? Non vi è strada. Hai voglia di camminare o di salire, non raggiungi mai Dio. Bisogna che Dio ti ponga sul vertice e di là discendi fino ad abbracciare ogni cosa.
In fondo il processo cristiano è questo: Dio ti stabilisce in Sé, poi una volta che ti ha stabilito in Sé, che ti ha portato come aquila sulle altezze, allora di là domini tutto e puoi scendere anche nella valle. Ma dalla valle tu non sali al cielo. Sarebbe, mi sembra, la presunzione degli antichi giganti quella di scalare il cielo, pretendendo con le nostro forze, attraverso l’ascesi i Comandamenti, l’amore del prossimo di arrivare fino a Dio. Che pensi di poter fare con le tue forze?

La mistica precede l’ascesi

Quello che io ho sempre detto, anche il Padre Nostro lo giustifica. Si è sempre sentito dire che prima viene l’ascetica e poi la mistica. È il contrario che è vero! Che vuoi fare con l’ascetica? È la mistica che determina il grado di ascesi. È nella misura che Dio si fa presente che tu puoi fare il vuoto di tutto; altrimenti come fai a fare il vuoto se non sei riempito di nulla?

Che bello, però, tutto questo! Pensando di fare noi ci si accorge poi che in fondo, dopo esserci tanto arrabattati, siamo al medesimo punto di prima. Ed è giusto; perché fin tanto che non perdiamo la presunzione di poter fare senza Dio, non combiniamo nulla. È la forza della grazia che determina in noi e l’esperienza di Dio e la santità della condotta.
Molto spesso l’esperienza più alta di Dio, almeno la più sicura non sono tanto le estasi, ma il fatto che noi siamo fedeli, Dio vive in te nella misura che ti rende capace di conformare la tua volontà alla Sua. Non cercare altro, perché, in fondo, se tu cerchi altro, l’altro è molto meno sicuro, molto meno ti garantisce una presenza divina, di questa tua fedeltà.

Ecco perché la suprema mistica è sempre la conformità della propria alla volontà di Dio e l’esperienza più alta della nostra vita divina è la fedeltà ai divini Comandamenti. È questo bisogno, questa facilità che proviamo nel compiere quello che interiormente sentiamo più perfetto e che più può piacere a Dio. Tutto questo ci assicura più di qualsiasi altra cosa. Se poi sentiamo non soltanto docilità, facilità al compimento di quello che è il piacere di Dio, ma sentiamo che, in fondo, tutta la nostra vita non è che un atto solo, tutti i nostri atti pian piano si riducono all’atto onde l’anima consente a Dio di essere, che Egli sia, la volontà essenziale,basta! che volete cercare di più? Non c’è nulla di più alto di questo!
Se tu consenti che Dio sia mentre hai un cancro, la lebbra, mentre sei battuto, o buttato fuori dalla finestra, che vai a cercare le estasi? Basta questo.
Ecco, Dio precede, dunque, l’atto umano, perciò anche l’ascesi, Per questo Padre nostro che sei nei celi.
L’anima ai porta d’impeto sulle altezze vertiginose della vita divina.

Dire Padre è già entrare nella vita trinitaria

Che cosa vuoi dire Padre. È il richiamo alla vita trinitaria, perché non si dice Padre al Dio Unico, si dice Padre alla Persona del Padre. È alla Persona del Padre che si rivolge la mia preghiera.
Allora, vedete Padre nostro implica veramente un volo che ci porta al di là di tutti i termini, più in là non si va. È la vita Trinitaria pura, semplice, assoluta.
Dire Padre vuol dire vivere la vita del Figlio di Dio, perché la vita del Figlio di Dio non è altro che dire Padre come la vita del Padre non è che dire Figlio – Tu sei mio Figlio, la generazione dei Figlio, dire la Parola. Questa è la vita del Padre. Anche la vita dei Figlio è dire la Parola, ma la Parola rivolta verso di Lui è la Parola che nuovamente a Lui si volge: Padre!
Cosa più alta di questa non può esistere, non dico in questa vita, ma nemmeno nell’altra. Non dico per gli uomini, ma nemmeno per Iddio, perché la vita stessa di Dio consuma in questa aspirazione dei Figlio: Padre! come la vita dei Padre consuma in questa aspirazione: Tu sei mio Figlio! Figlio!

Dice il Beato Contardo Ferrini che se l’anima ascolta Dio che lo chiama figlio, anche l’anima non vive più che una risposta di amore a Dio chiamandolo Padre e l’anima esala tutta la vita dicendo Padre!
Pensate, dire questa parola sarà tutto il Paradiso, sarà tutta l’eternità, tutta la nostra vita, tutta la vita degli uomini, tutta la vita di Dio, la vita del Figlio di Dio: Padre!
Non siamo già agli estremi limiti? E di lì poi si passa: Non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male.
Giusto, perché l’anima una volta salita lassù, deve ora vivere in tutte le sue potenze questa vita divina. E questa vita divina non la può vivere in tutte le sue potenze e in tutte le espressioni della vita umana, che, prima di tutto, in una realizzazione del Regno.

Sia santificato il Tuo Nome

Il commento al Padre Nostro si può compiere precisamente attraverso il Vangelo. Ricordate le ultime parole della preghiera sacerdotale di Gesù? Io ho fatto conoscere il Tuo nome e lo farò conoscere ancora. La conoscenza del Nome è la santificazione anche del Nome. Dio è glorificato nella misura che tu lo conosci come Padre, nella misura che tu lo riconosci e vivi il tuo rapporto con Lui come Padre. Dio si fa presente nella Sua intima vita, proprio nella tua vita in quanto Egli ti genera come figlio nel Figlio, e in quanto tu, come figlio, a Lui ti rivolgi. Ecco la santificazione del NomeHo fatto conoscere il Tuo nome e lo farò conoscere ancora. Ecco l’estrema glorificazione.
Ecco la vita intima di ciascuno. Però questo non e tutta la vita. Da questa nostra. santificazione, glorificazione in Dio, divinizzazione dell’essere creato, procede la comunità ecclesiale, il Regno di Dio.

Venga il Tuo Regno

Dopo il singolo, la comunità, Così come già è implicito nella invocazione iniziale: Padre nostro. Queste due paroline si allargano, si esemplificano, si spiegano, si direbbe, nelle prime due domande. La santificazione del Nome in quanto sono figlio e Lo glorifico come Padre; l’avvento del Regno in quanto questa santificazione non riguarda più il singolo soltanto, riguarda la comunità come tale.
Il Regno implica un popolo, una nazione, una comunità, L’avvento di questo Regno è il termine ultimo.
Ma come si giunge a questo?

Sia fatta la Tua Volontà

Nel compiere la volontà divina, nel far sì che si realizzi il piano di Dio. Venga il Tuo Regno è la presa di posizione da parte di Dio di tutta la comunità umana, di tutta la creazione. Il modo di avvenire è nel compimento della volontà divina. E questa deificazione implica una trasfigurazione di tutto l’essere umano.
La grazia divina non porta alla contemplazione di Dio soltanto l’intimo vertice dell’anima, ma investe tutta la natura dell’uomo, e questa grazia implica che nessuna attività umana si sottragga alla divinizzazione stessa.

Dacci oggi…

Di qui la richiesta del pane. Perché prima di tutto il Dacci oggi il nostro pane quotidiano vuol dire immediatamente il pane corporale; vorrà anche dire il cibo spirituale, ma prima di tutto, letteralmente vuol dire “pane”.
È l’uomo totale che è santificato da Dio, è l’uomo totale che è investito dalla grazia di Dio. Dal vertice dell’anima la grazia giunge anche alla natura fisica e a tutto provvede, tutto santifica, tutto investe di sé.

Rimetti a noi… come noi…

Poi si passa di nuovo dall’individuo alla comunità, ai rapporti con gli altri. L’unione con Dio implica l’unione con gli uomini.
Il perdono che Dio dona all’uomo e che tu implori, esige da te, come sua contropartita, il perdono che tu devi dare agli altri: la comunità che si realizza attraverso un perdono reciproco.
E a questo proposito faccio notare che anche l’unione fra noi non è mai possibile senza un vicendevole perdono, Dobbiamo rendercene conto. Come non è possibile l’unione con Dio – non siamo il Figlio Unigenito – senza un perdono implorato e ottenuto da Lui, così non potrà mai sussistere una unione fra gli uomini se non attraverso una vicendevole pazienza, che è anche un vicendevole perdono.
La Chiesa ha bisogno di chiedere perdono ai comunisti oltre che ai cristiani separati, la Chiesa come comunità e ciascuno di noi, perché certamente anche verso i comunisti abbiamo delle colpe noi singoli cristiani. Anche loro le hanno verso di noi, è sempre vicendevole. E quale è la misura del più e del meno? Lo sa Dio, noi sappiamo soltanto che siamo manchevoli e perciò il nostre onore deve essere essenzialmente legato alla misericordia. Alla misericordia di Dio che deve perdonarci, e anche ella misericordia che ciascuno di noi deve avere verso l’altro. Mai rigidezza, mai orgoglio.
La comunità si stabilisce, si crea attraverso questo esercizio di misericordia di Dio verso l’uomo e degli uomini verso i loro fratelli. Bontà, perdono, pazienza, accettazione degli altri. Ecco… così, si stabilisce il Regno, si compie la volontà divina.

Non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male

Il fare la volontà divina Che cosa implica? Non essere indotti in tentazione, essere liberati dal male perché il male vero è il non compimento di questa volontà. Sicché, in fondo le prime tre domande del Padre Nostro che chiedono la glorificazione di Dio possono essere realizzate solo nella misura che noi viviamo le altre tre domande.
Dio e l’uomo sono ineffabilmente congiunti, sicché è impossibile la glorificazione di Dio senza la liberazione umana dal peccato, dal male, dal poco amore verso i fratelli. Sono condizionate. Si discende, ma senza separarci dalla vetta, senza separarci da questo vertice in cui l’anima sempre riposa, sempre rimane.
Rimanendo in questo vertice della vita divina, della aspirazione al Padre, l’anima realizza la sua divinizzazione che investe anima e corpo.

Mirabile compendio

Nel Padre Nostro c’è tutto il programma della vita cristiana, e c’è tutta la vita divina vissuta dall’uomo.
La realizzazione della divina Volontà implica che noi siamo già un po’ nella vita divina, implica già un essere noi in Dio. Il Padre Nostro ci dice un po’ quello che ci dice San Paolo quando da una parte afferma che noi siamo rivestiti del Cristo e dall’altra ci dice che dobbiamo rivestirci del Cristo. Così nel Padre Nostro: nella prima parte viviamo tutta la vita di Dio, nel invocarlo Padre, nel bisogno di esaltarne il Nome, di realizzare il Regno, di compiere la Sua volontà; e nella seconda parte chiediamo di essere liberati dal male, di esercitare la misericordia verso i fratelli, di ricevere l’alimento da parte di Dio per l’anima e per il corpo per potere realizzare il Suo Regno, santificare il Suo Nome, compiere la Sua Volontà.
Ecco in sintesi tutto il Padre Nostro. Deve essere il nostro programma di vita e la nostra tessera di riconoscimento, prima di tutto come cristiani e poi anche come membri della Comunità.
Ed è bello, mi sembra, che la Comunità dei Figli dì Dio non voglia realizzare altro che la vocazione propria del cristiano.
Non andiamo a cercare devozioncine qua e là: Padre Nostro! Ma come dobbiamo dirlo bene, come dobbiamo cercare di realizzare questa parola per vivere già quaggiù sulla terra la vita del cielo