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LA SANTITA' E' LA VITA
Solo la santità rende possibile la vita (D. Barsotti)
di
Francesco Lamendola
Don divo Barsotti! Ne avessimo ancora di sacerdoti e di teologi come lui; ne avessimo qualcuno del suo stampo, e avessimo meno Vito Mancuso ed Enzo Bianchi, quanto giovamento ne trarrebbero le anime. Perché quando si leggono o si ascoltano gli ultimi che abbiamo nominato, l’anima vola bassa, tocca terra, sfiora il fango, s’imbratta e non si rialza più; ma quando si ascoltano le parole di un Divo Barsotti, quando si apre a caso un suo libro e si butto l’occhio sulla prima pagina che capita, ecco che la realtà si trasfigura, lo spirito respira e l’anima vola in alto, o, quanto meno, si sente spronata a volare in alto, si sente presa e afferrata da una forza immensa, una forza che non è di origine umana, perché Barsotti lo diceva sempre: se l’anima cerca Dio, è perché Dio la sta chiamando; se aspira alla santità, solo con l’aiuto di Dio può trovarla. Così parla un vero sacerdote, così parla un vero teologo: ci apre uno squarcio d’infinito davanti agli occhi della mente, ci fa respirare a fondo il profumo del divino, c’innalza da questo basso mondo materiale, senza perciò disprezzarlo, ma anzi, cogliendone la bellezza, e tuttavia usando proprio essa per farci desiderare una bellezza ancor più grande, più pura, più assoluta… che l’anima può trovare solamente in Dio. Questa è stata la sua lezione. In fondo, la stessa che generazioni di sacerdoti hanno predicato dai loro pulpiti ai fedeli, e generazioni di teologi hanno rivolto, attraverso i loro libri, alle persone colte, ma anch’esse animate dalla stessa fede, nello stesso Dio, delle persone semplici. Perché il cattolicesimo non è una gnosi, e la fede è la stessa per tutti, colti e incolti.
Oggi i neopreti e i neoteologi, credendo di aver scoperto l’acqua calda, ci parlano sempre e solo del mondo di quaggiù; ci parlano dell’amore al prossimo, e questo va bene: ma dimenticano che non si può amare il prossimo se non si ama Dio, che non lo si può amare nella maniera giusta, nella maniera veramente umana, quella che fa bene sia a lui che a noi stessi… Amare, amare, che parola abusata! L’adoperano tutti, i cantanti di musica rap, i bigliettini dei Baci Perugina; ora l’adoperano anche i seguaci della neochiesa, gonfi di falsa umiltà e di reale superbia. Guardateli bene, quando parlano in televisione, quando si pavoneggiano davanti alle telecamere: come posano a uomini ispirati, a uomini superiori: parlano di Dio, ma è del loro io che sono gonfi; si sbrodolano a ripetere, come un mantra, la parola “prossimo”, ma la realtà è che non sanno uscire da se stessi, la loro vera religione è il proprio io, non desiderano altro che di essere lodati, di piacere, di occupare uno spazio – pubblico, s’intende -, di sentirsi importanti agli occhi del mondo…. Leggendo una pagina qualsiasi di don Divo Barsotti, invece, ci si sente trasportati in un mondo in penombra, schivo, silenzioso, bruciante solo del desiderio d’incontrare Dio; una dimensione dove gli onori del mondo contano meno di nulla, dove la celebrità è roba da cestino dei rifiuti, e dove l’anima vibra all’unisono con la creazione che, come dice san Paolo, soffre e geme nelle doglie del parto, in attesa del suo Redentore, del ritorno del suo Signore, come la sposa in attesa dello sposo, come il padre in attesa del ritorno di suo figlio, come la madre che va in cerca del suo bambino, e tende le braccia verso di lui, con un sorriso d’ineffabile felicità.
Uno dei concetti-chiave della spiritualità di Divo Barsotti – spiritualità: ecco una parola che sembra improvvisamente passata di moda nella neochiesa, tutta presa soltanto da questioni materiali e da rivendicazioni di giustizia sociale – è che la santità, per l’uomo, non è un lusso, una cosa riservata a poche anime elette, ma una necessità, un autentico bisogno dell’anima, di tutte le anime, affinché la vita diventi sopportabile, affinché sia possibile viverla. Senza la santità, vivere diventa impossibile. E la santità, l’uomo non può raggiungerla da solo, non può darsela da se stesso: la deve chiedere a Dio. La relazione dell’uomo con Dio è questa: l’uomo ha bisogno di Dio, per essere santo; e ha bisogno di essere santo, per poter vivere da uomo e non da bestia, o da disperato. Ci piace riportare questo pensiero nel testo originale (da: D. Barsotti, La fuga immobile. Diario spirituale, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2004, p. 117):
13 luglio 1945.
Soltanto la santità rende possibile la vita – ma la santità è un miracolo che può compiere Dio solo.
La vita umana spiega la ribellione dell’uomo; le rivoluzioni paurose, nelle quali la società è sempre in procinto di cadere, sono giustificate dalla pena insopportabile e dal peso del nostro destino: SOLTANTO UNA FEDE EROICA PUÒ SUPERARE, NEL SUO VOLO, L’ABISSO DELLA DISPERAZIONE UMANA. La ribellione è impotente, ma è pur sempre un segno di vita – l’uomo non può accettare la morte.
Nella ribellione l’uomo afferma la sua vita dandosi da se stesso la morte – e nella rivoluzione tutta l’umanità è presa dalla follia di un’autodistruzione. Nei movimenti politici di oggi è più forte forse questa volontà di autodistruzione che qualunque desiderio di vita: il comunismo è per questo assai più fedele a se stesso e logico del socialismo e per questo il socialismo tende necessariamente al comunismo. – Il comunismo è essenzialmente prima di tutto volontà di rivolta, di violento e generale sconquasso. E non illudiamoci che il comunismo debba passar domani dalla rivoluzione mondiale all’ordine nuovo – non c’è un ordine nuovo se non per opera di altri principi, per il comunismo il nuovo ordine non potrebbe essere che la morte. Ma il comunismo non potrà mai annientare del tutto la vita personale dell’uomo, perché l’uomo, nonostante tutto, rimane immortale. Così il comunismo non potrà mai passare dallo stato di rivoluzione allo stato di pace, non potrà mai dire di aver vinto, ma rimarrà necessariamente sul piede di guerra, di lotta: rivoluzione continua per la morte, come il cristianesimo è rivoluzione permanente per la vita.
Intanto questa rimane la verità: non è possibile vivere se non è possibile la santità: l’unica vita che sia possibile all’uomo è la santità, e la santità non è possibile senza un dono di Dio.
Quale intensità e quale profondità in queste scarne, lucide, spietatamente sincere riflessioni, dove l’uomo si guarda senza veli, dove giudica la propria vita senza finizioni e senza orpelli, spogliata dalle mascherate ideologiche. Il comunismo? Una rivoluzione permanente per la morte, una ricerca continua di auto-annientamento. Come si vede, su Barsotti il vento del Nord del ’45 e il cosiddetto fascino dell’ideale comunista non esercitano la minima presa o seduzione; ben diversamente da tutti i preti, i pretini, i vescovi e i cardinali che da allora, e per quasi mezzo secolo, finché il comunismo stesso è caduto, hanno continuato a civettare con esso, fino al punto di svendere la propria identità e di corteggiare i nemici dichiarati della Chiesa; fino al punto di chiudersi gli orecchi se qualcuno faceva il nome di monsignor Stepinac o di monsignor Mindszenty, perché non bisognava ostacolare il ”dialogo” della Santa Sede con il comunismo. Il quale, in fondo, delle bune ragioni le aveva: era l’espressione di una nobile aspirazione verso la giustizia sociale; e, in questo senso, i cattolici potevano prendere i comunisti quali rispettabili compagni di strada, almeno per un certo tratto. I Illusione che non è tramontata neppure adesso che il comunismo è finito, anzi, si è ancor più rafforzata nella neochiesa: fino al punto che il papa Francesco non è arrossito e non ha rifiutato con sdegno, come avrebbe dovuto, quando il presidente boliviano Morales gli ha fatto dono, per la gioia dei fotografi e dei giornalisti, di un ”crocifisso” confezionato con la falce e il martello, come a dichiarare che non v’è differenza fra comunismo e cristianesimo; anzi lo ha accettato con un bellissimo sorriso, lo ha preso e se lo è tenuto, come avesse ricevuto un dono prezioso e degno della massima cura. Mentre don Barsotti annota lucidamente: se il cristianesimo è una rivoluzione permanente per la vita, il comunismo è una rivoluzione per la morte; come possono esser apparentati, o anche solo come possono essere compagni di viaggio, il comunismo e il cristianesimo? Non è affatto vero che essi vogliono, almeno fino a un certo punto, le stesse cose: perché la dignità dell’uomo e la libertà di cui parlavano i comunisti, e la giustizia sociale, che era il loro cavallo di battaglia, non avevano e non hanno nulla a che vedere con la dignità, con la libertà e con la giustizia, così come le intende il cristianesimo. E se don Barsotti aveva perfettamente capito queste cose nel 1945, con l‘Europa ancora cosparsa di macerie fumanti e con Stalin al culmine della sua gloria, come va che il papa Francesco e tutti i preti e vescovi di sinistra non l’hanno compreso nemmeno oggi, a più di settant’anni di distanza?
Ma non c’è solo questo, nella pagina di Barsotti; c’è di più, molto di più. C’è il soffio della vera spiritualità, uno scorcio sulle profondità infinite del soprannaturale. L’uomo, per poter vivere, ha bisogno di Dio, del suo aiuto, della sua santità: perché? Perché la vita, senza Dio, diventa insopportabile. L’uomo, infatti, è fatto per la vita; nondimeno, deve morire. E questo pensiero lo angustia, lo angoscia, lo fa impazzire. Le rivoluzioni, sempre accompagnate dal mito della giovinezza, sono un inconscio tentativo di esorcizzare la paura della morte e, nello stesso tempo, un modo per rompere le sbarre della solitudine, per gettare un ponte ideale fra gli uomini. Ma un ponte per fare che cosa, se non per alimentare funeste illusioni e per inseguire ingannevoli ideali di giustizia, dietro il cui paravento ci celano la rabbia e il desiderio di sfogare la voglia di distruzione e di autodistruzione? La rivoluzione comunista è un sogno di morte; e se mai la pace, ipoteticamente, arrivasse, sarebbe la pace della morte, cioè un incubo. No: per sentirsi vivi, i comunisti hanno bisogno di fare le rivoluzioni. Una società pacifica e armoniosa li getterebbe in un’ansia ancor maggiore, perché li metterebbe di fronte all’inevitabilità della morte. E tuttavia, il destino dell’uomo non è la morte, ma la vita. E dove trovare la vita, dove trovare l’amore per la vita e la fora di viverla, nonostante tutto, nonostante le delusioni, le amarezze, le sconfitte, e la stessa prospettiva della morte fisica, la propria e quella delle persone care? Dove, se non al di fuori e al di sopra dell’uomo, cioè in Dio? Solo da Dio può venire all’uomo il senso profondo della sua vita e della sua morte; e solo da Dio egli può ricevere l’aiuto necessario a viverla santamente. Qualunque altra maniera di vivere la vita, infatti, risulta, alla fine dei conti, impossibile.
Ma perché la santità è necessaria? Se la vita fosse bella in se stessa, così com’è, chiusa nei propri confini; se potesse realmente appagare l’uomo sino in fondo, non vi sarebbe bisogno della santità, perché non vi sarebbe bisogno di qualcosa che aiuti a viverla e a sopportarla. Ma la vita, in se stessa, non è bella. Bisogna essere onesti su questo punto; e, anche se si appartiene alla esigua schiera dei fortunati e dei privilegiati, bisogna riconoscere che, per la maggioranza degli esseri umani, la vita non è bella. Poco importa che non lo sia per cause esterne o per una incapacità interna: se non sono le malattie, le guerre, le ingiustizie, lo sfruttamento, le violenze indiscriminate, sono le gelosie individuali e familiari, l’invidia, l’amaro rancore e la depressione, lo scoraggiamento e l’infelicità, la solitudine e il terrore di ciò che non possiamo controllare, che è più forte di noi: la morte, appunto. Bisogna essere ben induriti nel proprio egoismo per non vedere che non solo gli umani, ma tutte le creature esistenti soffrono: soffre l’usignolo cui hanno rubato i pulcini (ricordate Virgilio?) e soffrono i piccoli della rondine che è stata uccisa da una mano crudele (Pascoli); soffre il fiore prostrato dalla siccità, soffre la foresta bruciata dal fuoco, e soffrono tutti gli abitanti dell’isola, grandi e piccoli, squassata dal terremoto, o dall’eruzione vulcanica. L’animale più grosso divora quello più piccolo; l’animale ormai vecchio si arrende ai competitori più giovani – e nessuno è mai stabile nel proprio bisogno di pace, di sicurezza. Ma non è questo il nostro destino. Noi sentiamo, in qualche parte di noi, che non per questo siamo stato creati; e che deve esserci stato un tempo remoto nel quale le miserie presenti non esistevano, e i nostri primi progenitori vivevano in pace, amici di Dio. Quando l’amicizia con Dio si è infranta, il dolore e la morte sono entrati nel mondo; e gli uomini, da allora, non fanno altro che tormentarsi a vicenda, e tormentare se stessi, perché non riescono ad accettare l’idea della malattia, della vecchiaia, della povertà e della morte. Soprattutto della morte. Sentono che la morte è, contro tutte le apparenze, una anomalia, il frutto di un evento scellerato, che ha turbato l’ordine cosmico; e anelano con tutta l’anima a ritrovare quella pace ancestrale, a rientrare nell’amicizia di Dio. Ma prima, però, devono imparare a vivere; a vivere la vita così come essa è attualmente, per essere degni vivere l’altra, dove le contraddizioni e le aporie che ci fanno soffrire non saranno più nemmeno un ricordo. Ed è per questo che essi hanno bisogno dell’aiuto di Dio; perché, da soli, non vanno lontano.
Noi vorremmo la pace, ma la vita è lotta, perché la vita è disordine. Dunque, per lottare abbiamo bisogno di essere santi; altrimenti, nella lotta soccomberemmo al male, diventeremmo peggiori, e già adesso non possiamo andare fieri di noi stessi: scivoleremmo al rango delle bestie. Solo la santità ci può salvare; e solo Dio ci può aiutare a divenire santi. Dio è la nostra sola salvezza, e la preghiera è il solo modo che abbiamo di domandargli quel che ci serve per vivere. Ma Lui lo sa già...
Del 21 Dicembre 2017
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