sábado, 12 de agosto de 2017

UFFICIO DIVINO


 Nella Regola di S. Benedetto la preghiera è strutturata in due momenti in stretta dipendenza l’uno dall’altro: la preghiera personale e quella comunitaria o “Opus Dei”. Per quanto importante e indispensabile, la preghiera personale viene fatta dipendere per tempi e contenuti dal culto comunitario reso a Dio. A questo, all’Opus Dei <<il monaco nulla deve preferire>> (RB, 42). L’opera di Dio è opera ecclesiale: il monaco prega nella Chiesa. E prega nella comunità: si inserisce nella Chiesa entro la sua comunità monastica. Il monaco dedica corpo e anima all’opera santa per eccellenza, la preghiera della Chiesa, la Liturgia. Questa preghiera è tutta la sua vita, e tutta la sua vita è questa preghiera: giorno e notte, fuori o dentro il monastero, dovunque lo pone l’obbedienza, il monaco in tutta la sua attività o prepara o compie o commenta la Liturgia. La vita del monaco vuole essere nella sua totalità un culto reso a Dio, un omaggio di glorificazione: la vocazione del monaco è nel cuore della Chiesa, là dove la Sposa parla allo Sposo, gli dice tutto il suo amore, e l’ama nel segreto. Il monaco è consacrato al servizio di questo amore. Così egli sente di vivere al centro del mondo, nella realtà essenziale dell’Amore, incaricato di mantenere vivo e attuale a nome di tutti il colloquio fondamentale della Chiesa col suo Cristo e del Cristo con la sua Chiesa. Il monaco sa che, nella Chiesa, primo fra tutti gli è affidato questo scambio costante dell’amore fra il cielo e la terra: egli fa professione di amare. È questa la sua missione.
 La preghiera corale è il momento culminante di questo amore. Prima di ogni cosa e più di ogni uomo il monaco è responsabile della sua preghiera. La preghiera è il suo dovere, è la sua vera occupazione. Nel Cristo che prega, il monaco è presente al tempo stesso al mondo e a Dio. Colui che prega sale sulla Croce; affronta con il Cristo tutte le forze attuali del male. Oppone alla miseria del mondo il Volto radioso del Cristo che prega ad ogni istante nella sua Chiesa.
Il motto “ora et labora” (prega e lavora) non è di Benedetto, ma la tradizione ha ben sintetizzato in esso l’attività della comunità monastica: la preghiera comune è investita di un primato che le proviene dal primato stesso di Dio. È certo che S. Benedetto ha rivestito l’Opus Dei di tale onore: il che spiega il tradizionale amore dei suoi figli per il culto liturgico e per lo splendore della casa di Dio. Così la vita di fede e la fedeltà alla preghiera portano con sé il frutto previsto nel Prologo della Regola: la continua e proficua ricerca della pace, il suo possesso, con la pienezza della gioia. San Benedetto desidera vedere tutti i suoi figli felici; vuole che nella <<casa di Dio nessuno sia turbato e triste>> (RB, 31). Per lui solo Dio conta: e Dio è la fonte della felicità, il supremo segreto della gioia e il datore della pace. Benedetto ci insegna che la pace è il primo bene da conquistare, se si vogliono instaurare rapporti umani veri e duraturi. È quello che fanno i monaci con la preghiera liturgica, ed è quello che cerchiamo di fare nel nostro Monastero.

COS'È LA VITA MONASTICA? di Thomas Merton

Monachesimo oggi

La vita monastica è una vita di rinuncia e di servizio totale e diretto nei confronti di Dio, per amor suo. Può essere considerata ancora come qualcosa che un uomo del XX secolo può ragionevolmente intraprendere? E solo una fuga? E rifiuto della compagnia degli altri uomini, misantropia, evasione, delusione?

Un monaco deve comprendere le ragioni che lo hanno portato in monastero e riesaminarle di tanto in tanto nel suo cammino vocazionale. Ma un atteggiamento difensivo, apologetico non si accorda con la vita monastica. Non è del monaco tentare di convincere tutti affinché giustifichino la sua vita. Egli si aspetta soltanto di essere preso per quello che è, di essere giudicato per quello che è e non perde tempo nel cercare di convincere gli altri, o anche se stesso, di essere qualcosa di speciale.

Il monaco si occupa più di Dio e di coloro che da Dio sono amati, che non di se stesso. Non cerca di giustificarsi a proprio vantaggio confrontandosi con altre persone: piuttosto osserva con un unico sguardo se stesso e tutti gli uomini, alla luce dei grandi e importanti fatti che nessuno può fuggire: il fatto di una morte inevitabile che pone fine alle battaglie e alle gioie della vita, il fatto che il significato della vita sia solitamente oscuro e appaia talvolta impenetrabile, il fatto che la felicità sembri allontanarsi da un numero sempre maggiore di persone mentre il mondo in se stesso diviene più prospero, più confortevole, più sicuro delle proprie capacità, leggere...

INTERPRETACIÓN DEL CONCILIO VATICANO II Y SU RELACIÓN CON LA CRISIS ACTUAL DE LA IGLESIA

100 ANIVERSARIO
CENTENARIO APARICIONES DE FÁTIMA


INTERPRETACIÓN DEL CONCILIO VATICANO II Y SU RELACIÓN CON LA CRISIS ACTUAL DE LA IGLESIA


La crisis sin precedentes que atraviesa actualmente la Iglesia se puede comparar con la crisis general del siglo IV, cuando el arrianismo había contaminado a la abrumadora mayoría del episcopado y asumido una posición dominante en la vida de la Iglesia. Por un lado, debemos procurar ver la presente situación con realismo, y, por otra parte, con espíritu sobrenatural, con profundo amor por la nuestra Santa Madre Iglesia, que está sufriendo la Pasión de Cristo a causa de esta tremenda y general confusión doctrinal, litúrgica y pastoral.
Tenemos que renovar nuestra fe para creer que la Iglesia está en las seguras manos de Cristo, y que Él siempre intervendrá para renovarla en los momentos en que parece que la barca de la Iglesia está a punto de zozobrar, como resulta patente en nuestros días.
Por lo que respecta a nuestra actitud con relación al Concilio Vaticano Segundo, hay que evitar dos extremos: rechazarlo totalmente (como hacen los sedevacantistas y un sector de la Fraternidad San Pío X (FSSPX), o atribuir un carácter infalible a todo lo que dijo el Concilio.
El Concilio Vaticano II fue una asamblea legítima presidida por los pontífices, y tenemos que mantener una actitud respetuosa hacia el mismo. Ahora bien, eso no quiere decir que nos esté vedado expresar dudas razonablemente fundadas o proponer con respeto mejoras con respecto a determinadas cuestiones, en tanto que lo hagamos basados en la totalidad de la Tradición de la Iglesia y su Magisterio perenne.
Las tradicionales y constantes afirmaciones del Magisterio a lo largo de un los siglos tienen precedencia y constituyen un criterio para verificar la exactitud de las afirmaciones magisteriales posteriores. Toda nueva declaración del Magisterio debe ser de por sí más precisa y más clara, pero nunca ambiguas ni parecer que contradiga previos pronunciamientos constantes del Magisterio.
Las afirmaciones del Concilio Vaticano II que son ambiguas deben ser leídas e interpretadas según las de la totalidad de la Tradición y del Magisterio constante de la Iglesia.
En caso de duda, las afirmaciones del Magisterio constante (es decir, los concilios y documentos pontificios cuyo contenido ha demostrado ser una tradición segura y constante durante siglos en un mismo sentido) se imponen sobre las que son objetivamente ambiguas o las afirmaciones novedosas del Concilio Vaticano II que, con toda objetividad, difícilmente concuerdan con las afirmaciones del Magisterio constante anterior (v.g., el deber del Estado de venerar públicamente a Cristo, Rey de toda sociedad humana, el verdadero sentido de la colegialidad episcopal con relación al primado petrino y al gobierno universal de la Iglesia, el carácter nocivo de las religiones no católicas y el peligro que suponen para la salvación eterna de las almas).
Hay que ver y aceptar el Concilio Vaticano II como tenía por objeto ser y como lo que fue en realidad: un concilio ante todo pastoral. Es decir, que la intención de dicho concilio no era proponer nuevas doctrinas ni hacerlo de forma definitiva. La mayor parte de sus afirmaciones confirmaban la doctrina tradicional y perenne de la Iglesia.
Algunas de las nuevas afirmaciones del Concilio (v.g. la colegialidad, la libertad religiosa, el diálogo ecuménico e interreligioso, la actitud para con el mundo) carecen de carácter definitivo, y por ello aparentemente o en realidad, no se ajustan a las afirmaciones tradicionales y constantes del Magisterio, y es necesario complementarlas con explicaciones más exactas y suplementos doctrinales más precisos. Una aplicación ciega del principio de la “hermenéutica de la continuidad” tampoco ayuda, porque de ese modo se crean interpretaciones forzadas que no convencen ni ayudan a llegar a un conocimiento más claro de las verdades inmutables de la fe católica y su aplicación concreta.
A lo largo de la historia se han dado casos de afirmaciones no definitivas de concilios ecuménicos que más tarde, gracias a un sereno debate teológico, fueron matizadas o tácitamente corregidas (por ejemplo, las afirmaciones del Concilio de Florencia con relación al sacramento del Orden, según lo cual la materia la constituía la entrega de instrumentos, cuando la más cierta y constante tradición afirmaba que bastaba con la imposición de manos por parte del obispo; esto fue confirmado por Pío XII en 1947). Si después del Concilio de Florencia los teólogos hubieran aplicado ciegamente el principio de la “hermenéutica de la continuidad”, a dicha declaración del Concilio de Florencia (que es objetivamente errónea), defendiendo la tesis de que la entrega de instrumentos como materia del sacramento del Orden se ajustaba al Magisterio constante, probablemente no se habría llegado a un consenso general de los teólogos con respecto a la verdad que afirma que sólo la imposición de manos por el obispo constituye la verdadera materia del sacramento del Orden.
Es necesario fomentar en la Iglesia un clima sereno de debate doctrinal en relación con aquellas declaraciones del Concilio Vaticano II que son ambiguas o han dado lugar a interpretaciones erróneas. No hay nada de escandaloso en tal debate doctrinal; todo lo contrario, contribuirá a mantener y explicar de un modo más seguro e integral el depósito de la fe inmutable de la Iglesia.
No se debe hacer excesivo hincapié en un concilio determinado, otorgándole un carácter absoluto o equiparándolo a la Palabra de Dios oralmente transmitida (Sagrada Tradición) o por escrito (Sagradas Escrituras). El propio Concilio Vaticano II afirmó correctamente (cf. Dei Verbum, 10), que el Magisterio (el Papa, los concilios y el magisterio ordinario y universal) no están por encima de la Palabra de Dios, sino por debajo, supeditados a ella, y es solamente su siervo (de la Palabra de Dios transmitida oralmente = Sagrada Tradición, y de la Palabra de Dios escrita = Sagradas Escrituras)
Desde un punto de vista objetivo, las afirmaciones magisteriales (del Papa y de los concilios) con carácter definitivo tienen más valor y más peso comparados con las de naturaleza pastoral, que son de por sí mudables y temporales en función de las circunstancias históricas o de situaciones pastorales circunscritas a un momento determinado, como sucede con la mayoría de las declaraciones del Concilio Vaticano II.
El aporte original y valioso del Concilio Vaticano II radica en la llamada a la santidad de todos los miembros de la Iglesia (cap. 5 de Lumen gentium), en la doctrina sobre el papel central de Nuestra Señora en la vida de la Iglesia (cap. 8 de Lumen gentium), en la importancia de los fieles laicos para mantener, defender y promover la fe católica y en el deber de éstos de evangelizar y santificar las realidades temporales con arreglo al sentido perenne de la Iglesia (cap. 4 de Lumen gentium), y en la primacía de la adoración de Dios en la vida de la Iglesia y la celebración litúrgica (Sacrosanctum Concilium, nn. 2; 5-10). El resto se podría considerar hasta cierto punto secundario, provisional, y probablemente en un futuro hasta olvidables, como ha sucedido con algunas afirmaciones no definitivas, pastorales o disciplinarias de diversos concilios ecuménicos del pasado.
Las cuatro cuestiones siguientes -Nuestra Señora, la santificación de la vida personal, la defensa de la fe con la santificación del mundo según el espíritu perenne de la Iglesia y el carácter prioritario de la adoración de Dios- son los que con más urgencia se tienen que vivir y aplicar hoy en día. En esto, el Concilio Vaticano II tiene un papel profética que, desgraciadamente, no se ha cumplido todavía de modo satisfactorio.
En vez de vivir estos cuatro aspectos, un sector numeroso de la nomenclatura teológica y administrativa de la Iglesia lleva medio siglo promoviendo cuestiones doctrinales, pastorales y litúrgicas ambiguas, distorsionando con ello la intención original del Concilio o abusando de afirmaciones doctrinales ambiguas o poco claras con miras a crear una iglesia diferente, de tipo relativista o protestante. Hoy en día asistimos a la culminación de este proceso.
La crisis actual de la Iglesia consiste en parte en que a algunas declaraciones del Concilio Vaticano II que son objetivamente ambiguas, o en que a esas pocas afirmaciones que difícilmente se ajustan a la tradición magisterial constante de la Iglesia, se las ha llegado a considerar infalibles. Y así se ha llegado a bloquear un sano debate con las respectivas correcciones necesarias, implícitas o tácitas. Al mismo tiempo, se ha fomentado el surgimiento de afirmación teológicas en conflicto con la tradición perenne (v.g. con relación a la nueva teoría del llamado doble sujeto supremo ordinario del gobierno de la Iglesia, es decir, el Papa por sí solo y todo el colegio episcopal junto con el Papa, la doctrina de la neutralidad del Estado hacia el culto público que debe rendir al Dios verdadero, que es Jesucristo, Rey también de toda sociedad humana y política, y la relativización de la verdad de que la Iglesia Católica es la única vía de salvación querida y ordenada por Dios).
Tenemos que liberarnos de las cadenas que imponen un carácter absoluto e infalible al Concilio Vaticano II y pedir un clima de debate sereno y respetuoso motivado por un amor sincero a la Iglesia y a la fe inmutable de la Iglesia.
Podemos ver una señal positiva de ello en que el 2 de agosto de 2012 Benedicto XVI escribió un prefacio al volumen relativo al Concilio Vaticano II en la edición de sus obras completas, en el cual manifiesta sus reservas con respecto a contenidos concretos de Gaudium et spes y Nostra aetate. Del tenor de dichas palabras de Benedicto XVI se deduce que los defectos concretos de determinadas partes de los documentos no se pueden mejorar con la “hermenéutica de la continuidad”.
Una FSSPX canónica y plenamente integrada en la vida de la Iglesia podría hacer un aporte muy valioso a dicho debate, como deseaba también el arzobispo Marcel Lefebvre. La presencia canónica plena de la FSSPX en la vida de la Iglesia actual contribuiría también a suscitar un clima general de debate constructivo a fin de que lo que siempre creyeron todos los católicos en todas partes durante dos mil años se crea de un modo más claro y seguro también en nuestros tiempos, realizando así la verdadera intención pastoral de los padres del Concilio Vaticano Segundo.
La auténtica finalidad pastoral apunta a la salvación eterna de las almas, la cual sólo se puede alcanzar anunciando toda la voluntad de Dios (Hch.20, 27). Una ambigüedad en la doctrina de la fe y en su aplicación concreta (en la liturgia y en la pastoral) supondría un peligro para la salvación eterna de las almas y sería por consiguiente antipastoral, dado que la proclamación de la claridad y de la integridad de la fe católica y de su fiel aplicación es voluntad explícita de Dios. Únicamente la obediencia perfecta a esta voluntad de Dios, que nos reveló la verdadera fe por medio de Cristo, Verbo Encarnado, y de los apóstoles, la fe interpretada y practicada constantemente en el mismo sentido por el Magisterio de la Iglesia, lleva la salvación a las almas.
+ Athanasius Schneider,
Obispo auxiliar de la arquidiócesis de María Santísima de Astaná, Kazajistán
Fuente: adelante la fe.com

sexta-feira, 11 de agosto de 2017

Un monasterio benedictino es, fundamentalmente, una escuela de vida contemplativa.

 

http://www.monasteriodeleyre.com/entorno/medio_natural
Un monasterio benedictino es, fundamentalmente, una escuela de vida contemplativa.

Para el monje es vida contemplativa aquélla en la que se da prioridad y preferencia al ejercicio de la oración.

La oración, porque es el modo más adecuado de llegar al conocimiento y a la unión con Dios.

Un conocimiento en fe y por obra del amor, con todo el fervor de una vivísima esperanza.

El ideal monástico está, pues, en la búsqueda de Dios y de solo Dios. Directamente.

A Dios en sí mismo y por Cristo Jesús, que es el mediador entre Dios y los hombres.

Un ideal puro de vida cristiana.

Esto se llama vivir hondamente el propio bautismo.




 

¿Qué es un monje benedictino?

Es un cristiano que se siente llamado a seguir más de cerca a Cristo y a vivir en una mayor intimidad con Dios.
Y para eso abraza una particular forma de vida en el ámbito de un monasterio, en hermandad con otros monjes, bajo la guía de un abad y de una regla de vida: la Regla de San Benito. 

¿Y qué es la Regla de San Benito?

San Benito (480-547) escribió un documento para «regular» la vida de sus monjes, de ahí el nombre de Regla. Viene ser como una aplicación práctica del Evangelio.
Pretende organizar la vida del monasterio y hacer de él un lugar donde se busque a Dios, una casa de silencio y de paz, un taller para ejercitarse en la vida espiritual, donde la alabanza a Dios sea un trabajo y el trabajo se pueda realizar en clima de oración.

¿Cómo transcurre el día en Leyre?

Al compás del ora et labora –«reza y trabaja»– sin que tampoco falten momentos para cultivar la vida fraterna en comunidad ni el necesario tiempo libre.
A nivel comunitario, nos reunimos para orar siete veces al día, celebrando la Eucaristía y la Liturgia de las Horas, el Oficio Divino, que jalona la jornada desde la madrugada hasta la noche. En Leyre, tanto la Misa como los principales oficios del día son cantados en gregoriano.
También dedicamos otro espacio de tiempo importante a la lectio divina (lectura orante de la Palabra de Dios) y a la oración personal. Intercalándose con la oración, se distribuyen los tiempos de trabajo. Mediante el trabajo –intelectual o manual– el monje desarrolla sus capacidades humanas, las consagra a Dios y sirve a sus hermanos.

¿Es posible pasar unos días en el Monasterio de Leyre?

Si, claro. En Leyre existen dos hospederías: la exterior y la interior. La exterior, el Hotel-Hospedería, funciona como un pequeño y acogedor hotel. Sus huéspedes pueden beneficiarse de la belleza y serenidad que rodea el monasterio y participar de todos los actos litúrgicos que la comunidad celebra en la Iglesia. La hospedería interior, dentro de la clausura, está destinada solamente para varones que quieran pasar unos días de retiro espiritual compartiendo más cerca la vida de los monjes.

¿Qué se necesita para llegar a ser monje?

Fundamentalmente hay que tener una actitud interior: buscar sinceramente a Dios.
Debe tener una edad, salud y formación adecuadas.
Lo normal es ponerse en contacto con el P. Maestro de Novicios (por e-mail o carta) presentándose y exponiendo sus inquietudes.
También se puede comenzar con unos días de estancia en nuestra hospedería interna y plantear su posible vocación al P. Maestro de Novicios.

Para saber más: ¿Tienes vocación?
Monjes de Leyre
Tel: 948 884 011



 


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El monje es aquel que desea, al menos, unificar el corazón y tenerlo por entero para el Señor.


 

Mi corazón para el Señor

Dicen que hay quien domina enteramente el cuerpo, con fuerte ascesis y disciplina. Los hay que dominan la mente y el pensamiento por la concentración y el ejercicio de la meditación. El monje es aquel que desea, al menos, unificar el corazón y tenerlo por entero para el Señor.
Cada ser humano lleva un monje dentro, que reclama al mismo tiempo la relación amorosa y la unificación interior. Porque cada uno hemos sido creados como sujetos únicos y cada uno tenemos la llamada esencial de ser enteramente para Dios.
Cuando la persona da crédito a su vocación primera, la de estar a solas con Dios solo, en el jardín, para gozar de su amistad más íntima, llega a ver el destello de la iluminación, alcanza a oír la Palabra engendradora del gozo más profundo: “Tú eres amado”, y a sentir la presencia que le envuelva, a la vez que le habita, en un abrazo que le sumerge en la experiencia de saberse hijo de Dios, amado enteramente por Él.
Cada uno hemos podido percibir los efectos que se siguen cuando se lleva una vida dispersa, agitada, ansiosa, evasiva, inquieta, y lo que se siente y gusta en el momento en el que se entra al espacio interior, aunque sólo sea por un instante. La paz del corazón, el gozo sereno, la percepción del susurro amable, la brisa que envuelve al quedar sumergido en la certeza de saberse amado, sin dependencia ni fragmentación.
Prueba a dar crédito a lo que algunos testigos han confesado, para estímulo de sus hermanos: “Nos hiciste para ti, e inquieto está nuestro corazón hasta que descanse en ti” (San Agustín). “Nada te turbe, nada te espante, quien a Dios tiene nada el falta, sólo Dios basta” (Santa Teresa de Jesús).

Dios se ha revelado

Jesucristo nos ha revelado la plenitud humana. Él amó con corazón de hombre y se entregó hasta el extremo de morir por sus hermanos. A su vez, Él nos reveló la intimidad que mantuvo con su Padre Dios, secreto de los que por gracia del Espíritu Santo comprenden dónde está la fuente, el manantial del amor. “Gocémonos, Amado, y vámonos a ver en tu hermosura al monte ó al collado do mana el agua pura; entremos más adentro en la espesura” (San Juan de la Cruz).
“El amor de Dios ha sido derramado en nuestro corazones con el Espíritu Santo que se nos ha dado” (Romanos 5,5). Abrámonos al huésped que nos habita, más interior que nuestra propia intimidad, y allí nos recreemos, como aseguraba San Agustín: “Tarde te amé, Belleza siempre antigua y siempre nueva. Tarde te amé. Y, he aquí que tú estabas dentro de mí y yo fuera. Y por fuera te buscaba. Desorientado, iba corriendo tras esas formas de belleza que tú habías creado. Tú estabas conmigo, y yo no estaba contigo…”.
Te deseo que gustes el saberte habitado, y llamado a la relación más íntima con Dios.

quinta-feira, 10 de agosto de 2017

MAINTENANT quelle est la première disposition qu’une âme possédant la grâce sanctifiante, doit avoir au fond d’elle-même?


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Conférences sur la vie chrétienne – 3ème conférence


TROISIÈME CONFÉRENCE.
SOMMAIRE.
Nécessité de la grâce sanctifiante. — Elle donne à l’âme la vie, la grandeur et la richesse. — Dans quels rapports les hommes sont avec elle. — Elle produit d’abord dans l’âme la crainte de Dieu. — Combien cette crainte est nécessaire ; — Combien les Saintes Ecritures la recommandent. — Erreurs du XVII siècle à ce sujet.— Fausses tendances de notre époque.
Nous avons dans la dernière conférence posé certains principes préliminaires sans lesquels on ne s’entendrait pas dans l’enseignement de la Théologie ascétique. Maintenant nous pouvons entrer plus avant dans la question.
IL y a un point fondamental. Pour que l’ascèse puisse s’exercer avec fruit, il faut que la vie soit dans l’âme. Cette vie c’est la présence de Dieu comme principe de sanctification de toute âme qui veut se diriger vers lui : elle est gratuite et cependant indispensable pour adapter l’ âme à toute la suite. C’est la grâce sanctifiante qui est cette vie, puisque Dieu s’étant donné à nous comme fin et comme centre , nous ne sommes en rapport avec lui que par son amitié, que par les relations qui font qu’il a pris possession de nous, indépendamment de cette possession qui sera la vie béatifique.
DANS l’Évangile Notre Seigneur nous dit qu’il est la vie, et qu’il n’est venu dans ce monde que pour nous la donner, et nous la donner plus abondamment. Qu’est-ce que l’homme en dehors de cette vie ? C’est un homme mort ; parce qu’étant appelé à être en relation avec Dieu et ne possédant pas cette relation, il n’a plus que l’extérieur de la vie. Et les individus en qui la grâce sanctifiante n ‘ a jamais existé ont toujours été morts.
La est la grandeur du chrétien : le petit enfant qu’ on emporte des fonts après son baptême possède cette vie; il y a amitié entre Dieu et lui. Tout peut se bâtir sur ce fondement, mais si ce fondement venait à manquer il n’y aurait plus rien de possible. Il faut donc avoir une grande idée de cette union avec Dieu , qui est la condition sine qua non de toute ascèse chrétienne. Si cette vie n’existait pas, pourquoi travaillerait-on ? Toutes nos œuvres seraient stériles et hors de proportion avec ce don de la vie éternelle qui doit s’implanter en nous. Dieu donne cette vie de la grâce sanctifiante à l’homme, sans qu’il puisse la mériter. L’homme la perd par le péché mortel ; Dieu pourrait le laisser dans cet état de mort sans manquer à aucune de ses perfections, et ce n’est que – par une bonté plus merveilleuse et plus gratuite que Dieu redonne cette vie à l’homme.
IL faut comprendre combien cette vie est riche et abondante . Elle suppose l’adoption du Père éternel. Par la grâce, l’âme devient la fille du Père éternel : l’homme devient le frère de J. C., et a des droits à son héritagehœredes Dei, cohœredes autem Christi, dit l’apôtre. Ensuite il se fait une habitation du S. Esprit dans l’âme, il s’y regarde comme chez lui et il y opère en proportion du soin avec lequel on le seconde. Sa présence produit les sept dons : les uns ne sont qu’en germe et ne se développeront jamais chez plusieurs, comme le don de sagesse par exemple, qui n’est le partage que d’un petit nombre, quoique étant en puissance chez tous ; d’autres n’attendent que l’occasion pour produire leur floraison. Il faut partir de ce principe, ou on ne fait rien. Si ce fondement n ‘était pas posé tout manquerait de base.
QUELLE est la situation des hommes vis-à-vis de ce principe ? IL faut faire ici deux catégories :
La première qui est la moins nombreuse se compose de ceux qui n’ ont jamais laissé éteindre leur flambeau ; en sorte que sans interruption , il ira se perdre dans les splendeurs de l’ éternité. Leur marche a pu être très complète et bien droite, comme aussi il a pu s’y trouver des négligences, sans que la lumière s’éteigne.
Mais le plus grand nombre des hommes a perdu le principe de la vie spirituelle avant d’ atteindre l’ éternité. Seulement par la miséricorde de Dieu , ils l’ont recouvré. Quand ce malheur arrive c’ est un bouleversement terrible. L’âme est entièrement à la discrétion de Dieu qui n’ est nullement obligé de la remettre dans sa situation première , quoique dans sa miséricorde il le fasse sans cesse. Pour cela il a préparé le sacrement de pénitence, qui est la seconde planche de salut pour l’ homme naufragé. Voyez pour un grand nombre de saints , ce n’ est que grâce à cette ressource que 1′ édifice de la perfection a réussi à s’établir et à durer. Cette condition est très fréquente dans humanité.
CECI suppose une estime très profonde de la grâce sanctifiante. Nous sommes dans la situation d’un homme qui veut faire fortune. La première condition est de veiller à ce que ses fonds ne s’écoulent pas. Il a un regard soigneux de ce côté afin de n’être pas pris au dépourvu.
MAINTENANT quelle est la première disposition qu’une âme possédant la grâce sanctifiante, doit avoir au fond d’elle-même?
Nous l’apprenons par Isaïe, qui énumérant les dons du Saint-Esprit, commence par les plus élevés et arrive à la Crainte du Seigneur qui est le fondement de tout. L’homme qui aurait la grâce sanctifiante sans la Crainte de Dieu, serait très exposé. Voyez nos premiers parents : ils étaient aussi bien partagés que possible, une grâce sanctifiante abondante, aucun penchant au mal ; et cependant leur chute a été lamentable. Elle nous a tous entraînés dans une profonde misère et a nécessité un Rédempteur. La chose initiale à laquelle ils n’ont pas répondu assez a été la crainte de Dieu. Ils ont fermé les yeux de ce côté : cependant rien n’est plus à craindre que Dieu. Il a la force, la puissance. Nous sommes dans sa dépendance quant à notre être puisqu’il nous a créés, puisque notre conservation vient évidemment de lui et qu’ il est le maître de nos destinées.
IL semble que la crainte de Dieu soit une chose de simple bon sens, et pourtant il y a du mérite à l’avoir et à la développer. Voyez Eve. Pourquoi a-t- elle écouté le serpent ? Suivez la conversation : il se forme un nuage dans son intelligence : elle se rappelle que Dieu lui a dit : Tu mourras de mort
si
tu touches le fruit de cet arbreCependant elle laisse développer son appétit en ce sens. Pourquoi ? Il lui semble que Dieu n’est plus à craindre, qu’il ne pensera pas ou ne pourra pas accomplir sa menace ; et elle tombe dans l’abîme.
DONC on ne peut rien sans la crainte de Dieu. Ainsi le Saint Esprit , qui est si fort, si agissant dans l’âme, commence d’abord par produire cette disposition, en sorte que le chrétien se sente dans la dépendance d’un être très fort et implacable vis-à-vis du mal, et son attitude est tout de suite trouvée. Du reste nous avons devant nous la sainte Ecriture ; et il n’y a pas de mot qu’elle emploie plus souvent que celui de la crainte de Dieu.  » Vous-mêmes les Saints, craignez le Seigneur.  » Rien n’est plus recommandé dans les psaumes qui nous disent : » la crainte de Dieu est le commencement de la Sagesse. » Il faut donc qu’il y ait chez l’homme un penchant contraire pour que le Saint-Esprit y insiste tant.
HORS de la vie pratique cela semblerait un paradoxe. Cependant quand on regarde la plupart des hommes on voit que ce qu’ils craignent le moins, c’est Dieu. Ils le blasphèment , lui désobéissent et entassent des sophismes contre lui pour tendre des pièges aux autres. Enfin, Dieu étant ce qu’il est, c’est un problème de reconnaître qu’il n’est pas craint. S’il l’ était, 1’homme remonterait tout de suite. Cette crainte le préserverait de beaucoup de malheurs et serait pour lui un principe de vie : aussi le Saint-Esprit le donne – t – il pour base.
COMBIEN nous avons besoin d’ouvrir les yeux ! Dans Isaïe, il ne s’agit pas d’ un homme ordinaire, mais de 1 ‘ humanité de N. S. Le prophète nous dit ,que de la tige de Jessé sortira une branche, et de cette branche une fleur sur laquelle se reposera l’Esprit du Seigneur.  » L’Esprit de Sagesse et d’ Intelligence, l’Esprit de Conseil et de Force, l’Esprit de Science et de Piété, et elle sera remplie de  » l’Esprit de la Crainte de Dieu. » Ainsi voilà cette nature humaine de Notre Seigneur, ce chef-d’œuvre de puissance et d’amour, cette créature aussi aimée que possible, qui à peine conçue est unie hypostatiquement au Verbe, et qui pourtant ne sera pas exempte de la Crainte de Dieu ; elle éprouvera ce sentiment de respect et de tremblement devant la majesté divine. L’Évangile nous le représente passant des nuits humblement prosterné en prière devant son Père. Il s’est fait homme et a voulu nous servir de modèle.
COMMENT ce sentiment fondamental ne serait -t-il pas en nous?
Mettons toute notre énergie à le retenir ; nous en avons besoin ,tellement nous sommes fragiles, volages et prompts à changer. Voilà la leçon donnée. Ainsi le Saint Esprit a commencé ses opérations par la crainte de Dieu ; et l’humanité de Notre Seigneur étant une pure créature ,il devait suivre cette même voie. Vous voyez par là de quelle manière l’âme doit se présenter devant Dieu et être toujours prête lutter contre ce qui lui ferait obstacle. Un premier sentiment auquel elle doit faire appel sans cesse et qui est très salutaire c’est de trembler devant la Majesté de Dieu. Et pourquoi n’agirions nous pas ainsi puisque les Anges eux-mêmes, glorifiés dans l’allégresse et la plénitude de l’amour, où ils sont,, éprouvent ce sentiment de crainte, tremunt potestates.
VOILA la base de toute: vie chrétienne : on ne peut en chercher une autre.
DE. faux mystiques, au XVII Siècle, voulurent abolir cette crainte de Dieu ; aussi l’Église les condamna. A leur tête, un grand archevêque, séduit par son imagination trop philosophique, et perdant de vue la condition de la nature humaine, voulut tout rendre exclusivement par l’amour sans mettre la crainte en regard. C’était une inconséquence. S’il avait lu Isaïe, il aurait vu que N. S. lui-même n’était pas exempté de ce sentiment de crainte et il n’aurait pas dit cela. L’ Église a condamné ces théories; nous en parlerons lorsque nous serons arrivés à la théologie mystique.
AINSI avant tout sentiment de crainte se portant sur un point ou sur l’autre, c’est un sentiment général de crainte de Dieu qui doit exister dans l’âme. Dieu doit être craint : c’est notre intérêt mais c’est surtout une justice qui lui est due.
IL y a loin de là à la familiarité d’aujourd’hui. Combien d’ âmes voulant servir Dieu n’ont pas cette racine, et c’est ce qui explique la pauvreté de leur avancement, tant de chutes, de glissades terribles ! Elles manquent de ce sentiment fondamental de la crainte de Dieu. On lira cent fois: Timete Dominum, et on n’y fera aucune attention. Le sens spirituel est si grossier de nos jours! tout est dans le confortable; on est préoccupé d’une foule de choses, et on oublie la principale. Si l’on demandait à un païen, à qui l’on aurait donné les Écritures à lire, quel est le point le plus recommandé, il dirait sans hésiter:  » La crainte de Dieu « . Il suffit de prendre une concordance pour s’en convaincre. Mais aujourd’hui on se familiarise avec toute espèce de choses et de personnes et finalement avec Dieu.  » Moi je ne crains pas le Bon Dieu! » Voilà un mot que l’on entend dire à une foule de personnes. Ce n’est pas là le langage de J. C. et l’on s’étonne ensuite de ne pas faire de progrès dans la vie spirituelle. Les anciens saints se sont formés par les Saintes Écritures: ce n’est que là et dans les décisions de l’Église que nous pourrons nous faire le jugement. Mais pour cela il ne faut pas prendre de sottes habitudes. Il ne faut pas seulement prêter une attention générale aux mots, mais les scruter, les peser les uns après les autres, se dire: il y a ceci, il y a cela. Si le sentiment de la crainte ne nous eut pas été aussi nécessaire, il n’en eut pas coûté beaucoup à l’Esprit-Saint d’y substituer autre chose.
L’APOTRE du reste nous donne l’explication de cette nécessité de la crainte de Dieu. » Vous portez, nous dit-il, la grâce de Dieu dans des vases d’ argile.  » Quand un vase est à la fois précieux et fragile on fait bien attention pour qu’il ne se heurte nulle part. Nous éprouvons une crainte permanente, mêlée de jouissance, lorsqu’il s’agit de le transporter. On ne le verra pas sans appréhension dans les mains d’autrui. On tremble pour le sort de ce vase et pour la liqueur qu’il contient. Nous aussi nous portons une liqueur du ciel dans des vases de terre,  » vasis fictilibus, » c. à d que nos moyens de conservation sont très faibles. Nous devons sans cesse demander à Dieu son secours pour que le vase nu soit pas brisé et que son contenu ne se dissipe pas.
VOILA donc un principe posé. Nous pouvons nous y appuyer désormais: et nous avancerons en exposant toujours la doctrine de l’Église et des Saintes Écritures, sans lesquelles on- ne fait rien. C’est ainsi qu’on faisait autrefois. Actuellement on lit de petits livres, on fait d’interminables conversations spirituelles, et on ne sent pas l’inanité de tout cela. Aussi à quel état en est réduite la piété chrétienne aujourd’hui ! Et si Dieu n’y mettait la main, il y aurait encore plus de dégât. Le nombre des justes serait encore plus petit  » et non est qui recogitet in corde suo. » Mais pour nous moines, il ne doit pas en être ainsi. Nous devons avoir des idées sérieuses; et tout ce qui sert à les éclairer, les compléter, les nourrir et les rendre pratiques, doit être l’objet de notre attention. Par ce• moyen nous ne perdrons pas notre temps.

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quarta-feira, 9 de agosto de 2017


ABADIA DE NOSSA SENHORA DE FONTGOMBAULT  CELEBRA TODA A LITURGIA  NA REFORMA DO MISSAL FEITA POR SÃO JOÃO XXIII
EM 1962 E LIBERALIZADA POR SUA SANTIDADE BENTO XVI EM 7/7/2007 COM O MOTU PRÓPRIO "SUMMORUM PONTIFICUM".
ACTUALMENTE A COMUNIDADE CONTA COM CERCA DE 60 MONJES E FUNDOU MAIS OUTRAS 5 ABADIAS DE QUE ELA É A CASA-MÃE,
TODAS REZAM O BREVIÁRIO MONÁSTICO EM LATIM E A A SANTA MISSA É SEMPRE CELEBRADA NA FORMA EXTRAORDINÁRIA EM
FORMA SOLENE E CANTADA EM GREGORIANO.