quarta-feira, 1 de outubro de 2014

Diario Vaticano / I retroscena della nomina di Chicago


jpg_1350883(Fonte: chiesa.espresso.repubblica.it) Come successore del cardinale George, grande ispiratore dell’attuale linea della conferenza episcopale degli Stati Uniti, papa Francesco ha nominato un vescovo di orientamento opposto. Ecco come e perché
di Sandro Magister
CITTÀ DEL VATICANO, 30 settembre 2014 – Mentre era ancora tramortito dalla notizia della imminente rimozione del cardinale Raymond L. Burke, il cattolicesimo degli Stati Uniti più conservatore e tradizionalista – e storicamente più “papista” – ha subito un ulteriore mazzata con la nomina del nuovo arcivescovo di Chicago.
La decisione di Francesco di scegliere Blase J. Cupich (a destra nella foto) come nuovo pastore della terza diocesi degli States ha gettato questa componente particolarmente dinamica del cattolicesimo a stelle e strisce in una profonda depressione, quasi sull’orlo di una crisi di nervi. Basta scorrere le reazioni dei siti e dei blogger di quest’area per rilevarvi l’irritazione e lo sconforto per la nomina.
Al contrario, la parte più progressista del cattolicesimo americano, storicamente ipercritica degli ultimi pontificati, ha celebrato con entusiasmo l’arrivo di Cupich, definito dalla stampa laica come un “moderate”, qualifica ricorrente negli Stati Uniti per indicare un “liberal” non radicalizzato, ma pur sempre un “liberal”.
Il predecessore di Cupich, il cardinale Francis E. George, non molto tempo fa nella sua “column” per il settimanale diocesano aveva scritto:
“Io morirò nel mio letto, il mio successore in galera e il suo sucessore martirizzato sulla pubblica piazza. Ma dopo di lui un altro vescovo raccoglierà i resti di una società in rovina e lentamente aiuterà a ricostruire la civiltà, come la Chiesa ha fatto tante volte lungo la storia”.
George è stato sempre molto critico della deriva laicista in campo legislativo determinatasi sotto la presidenza di Barack Obama, da lui ben conosciuto fin da quando era senatore per l’Illinois. Ma è difficile pensare che la sua profezia si realizzerà, almeno con il suo immediato successore.
Per capirlo, basta scorrere anche sommariamente il percorso ecclesiastico del nuovo arcivescovo di Chicago.
Cupich, 65 anni, non è originario di Chicago, come George, ma di Omaha, nel periferico e rurale Stato del Nebraska.
La sua prima sede episcopale è stata Rapid City, dove è succeduto al conservatore Charles J. Chaput. Ed è in questa piccola diocesi del South Dakota che nel 2002 si è fatto notare per aver vietato a una comunità cattolica tradizionalista di celebrare il triduo pasquale secondo il rito romano antico, poi liberalizzato nel 2007 da Benedetto XVI col motu proprio “Summorum pontificum”.
I cattolici conservatori ricordano poi che durante lo scontro fra i vescovi degli Stati Uniti e la Casa Bianca sulla riforma sanitaria, Cupich é stato uno dei pochissimi presuli, meno di una decina, che non hanno detto nemmeno una parola contro, pur essendo la critica all’Obamacare non la posizione di alcuni vescovi “estremisti”, o “cultural warriors”, come si suol dire in senso dispregiativo, ma la posizione ufficiale dell’episcopato.
Diventato vescovo di Spokane nel 2010, l’anno successivo Cupich ha proibito ai suoi sacerdoti e diaconi di prender parte a preghiere davanti a cliniche abortiste. Un divieto in netta controtendenza rispetto al “mainstream” della Chiesa degli Stati Uniti. Rosari davanti a queste cliniche, infatti, sono recitati in quasi tutte le diocesi degli Stati Uniti. E vi partecipano parecchie decine di vescovi, compresi, ad esempio, il pur “moderate” cardinale di Washington Donald Wuerl e l’attuale presidente della conferenza episcopale, l’arcivescovo di Louisville Joseph Kurtz.
La voce di Cupich – fanno notare sia i cattolici conservatori, con sofferenza, sia quelli progressisti, con soddisfazione – si leva sempre sonora quando si parla di immigrazione o di pena di morte, ma è ogni volta colpita da afonia quando si discute di aborto, eutanasia e libertà religiosa, oppure si critica l’amministrazione Obama per quanto riguarda la riforma sanitaria.
Significativo a questo proposito è il fatto che Cupich abbia deciso di raddoppiare l’ambito dell’ufficio “Respect Life” nella diocesi di Spokane, per dare alla lotta contro la pena di morte lo stesso peso della lotta contro l’aborto.
Con Cupich sembrano quindi tornare in auge a Chicago i tempi del cardinale Joseph Bernardin, predecessore di George, campione del cattolicesimo “liberal” degli Stati Uniti e creatore della elefantiaca macchina burocratica della conferenza episcopale, di cui fu presidente dal 1974 al 1977 e “dominus” fino alla morte nel 1996.
E l’era Bernardin sembra tornare grazie a una mossa di papa Francesco che ha colto di sorpresa e ha preso in contropiede un episcopato, come quello degli Stati Uniti, oggi ampiamente caratterizzato dalle nomine fatte da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Che sia stata una sorpresa si è potuto notare dal fatto che pochi giorni prima della nomina il settimanale “Our Sunday Visitor”, il più ufficiale dei periodici cattolici a stelle e strisce – che ha come presidente della omonima casa editrice il giornalista Greg Erlandson, membro della commissione sul riassetto dei media vaticani riunitasi a Roma per la prima volta la scorsa settimana –, nell’elencare otto nomi di possibili successori del cardinale George non ha fatto quello prescelto da papa Jorge Mario Bergoglio, e cioè Cupich.
Che la nomina abbia inoltre preso in contropiede l’episcopato USA può risultare evidente dai risultati per le elezioni degli attuali presidente e vicepresidente della conferenza episcopale che si sono tenute meno di un anno fa, nel novembre del 2013.
In quella tornata elettorale, infatti, tra i dieci candidati c’era anche Cupich. E la sua era considerata dai colleghi come la più marcatamente “progressista”, ecclesiasticamente parlando, delle candidature presentate.
Ebbene, nella prima votazione, che vide la subitanea elezione a presidente del vicepresidente uscente, e cioè l’arcivescovo Kurtz, con ben 125 voti su 236, Cupich arrivò solo settimo con appena 10 voti.
Presero più suffragi di lui il cardinale di Houston Daniel N. DiNardo (25), l’arcivescovo di Philadephia Chaput (20), gli arcivescovi di Los Angeles José H. Gomez e di Baltimora William E. Lori (15 voti ciascuno), l’arcivescovo di New Orleans Gregory M. Aymond (14).
Nelle due votazioni per la vicepresidenza Cupich fu poi ben lontano dall’essere eletto, arrivando quinto (su nove) sia al primo turno con 24 voti su 236, sia al secondo con 17 voti su 235.
Per Chicago. quindi. papa Francesco non ha tenuto conto degli orientamenti dell’episcopato degli Stati Uniti, all’opposto, ad esempio, di quanto ha fatto in Spagna, dove a Madrid ha promosso Carlos Osoro Sierra, che da arcivescovo di Valencia lo scorso marzo è stato eletto vicepresidente della conferenza episcopale al primo turno con ben 46 voti su 79.
Né sembra che il papa abbia tenuto conto delle indicazione del cardinale George, che avrebbe chiesto come coadiutore un sacerdote della diocesi. Al contrario di quanto avvenuto per Sydney, dove Francesco ha invece nominato il 18 settembre il domenicano Anthony Colin Fisher, pupillo dell’arcivescovo uscente e cioè di quel cardinale George Pell, di stampo conservatore, che il papa ha chiamato a Roma come “zar” dell’apparato economico finanziario vaticano.
C’è solo un punto sul quale Francesco ha usato per Chicago la stessa procedura utilizzata per Madrid e Sydney. In tutti e tre i casi ha proceduto alla nomina senza farla prima discutere dai cardinali e vescovi membri della congregazione per i vescovi, anche se tutti da lui rinominati lo scorso anno con significativi nuovi ingressi ed altrettanto significative epurazioni (la più clamorosa quella del cardinale statunitense Burke).
Per Chicago, risulta che papa Francesco abbia proceduto a una sua consultazione personale, parallela a quella del dicastero. A caldeggiare al papa la nomina di Cupich sarebbero stati, in particolare, i cardinali Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga e soprattutto Theodore McCarrick, emerito di Washington, esponente della vecchia guardia “liberal” dell’episcopato USA.
A dire il vero, non è una novità di questo pontificato che nomine episcopali, anche importanti, non vengano discusse collegialmente dall’apposita congregazione vaticana. Con Benedetto XVI non fu discussa la provvista di Venezia (ma quelle di Milano, Malines-Brussel, Santiago del Cile e Manila sì). Con questo pontificato, invece, questo accantonamento delle procedure sembra essere usato con una frequenza molto maggiore.
Non sono passate al vaglio della congregazione, infatti, non solo le nomine di Chicago, Sydney e Madrid, ma anche, in Germania, la selezione della terna da sottoporre secondo tradizione al capitolo di Colonia, nonché tutte le nomine, una ventina, che hanno riguardato l’Argentina.
In Italia – per fare due esempi – non sono passate per l’esame della congregazione dei vescovi le successioni a Locri e a Isernia, dove sono stati promossi i vicari generali di due ecclesiastici nelle grazie del papa, e cioè, rispettivamente, del vescovo di Cassano all’Jonio e segretario generale della conferenza episcopale Nunzio Galantino e dell’arcivescovo di Chieti-Vasto e segretario speciale del prossimo sinodo Bruno Forte.
Tornando agli Stati Uniti, a questo punto sarà interessante vedere cosa succederà nel prossimo concistoro per la creazione di nuovi cardinali.
Attualmente sono tre le diocesi USA tradizionalmente cardinalizie rette da un arcivescovo senza la porpora: Chicago, Los Angeles e Philadelphia.
È facile prevedere che papa Francesco concederà la berretta a quello di Chicago, l’unico dei tre nominato da lui.
Sarà però curioso verificare se al contempo avrà la porpora anche la diocesi di Los Angeles, il cui ordinario è del clero dell’Opus Dei, oppure quella di Philadelphia (non tutte e due assieme, perché sembra impensabile che papa Bergoglio faccia tre nuovi cardinali USA in un colpo solo).
O se invece, come ulteriore segnale da inviare oltre Atlantico, la porpora di Chicago sarà secca. Senza bilanciamenti.
(Fonte: chiesa.espresso.repubblica.it)