quinta-feira, 17 de setembro de 2015

gli Atti delle “Giornate Liturgiche di Fontgombault”

gli Atti delle “Giornate Liturgiche di Fontgombault”

Indubbiamente tra i migliori liturgisti del XX secolo è da annoverare il teologo bavarese asceso sul Trono di Pietro. Gli scritti liturgici di Benedetto XVI sono molto numerosi, anche perché oltre ai testi dedicati espressamente al culto divino, come il magnifico Introduzione allo spirito della liturgia (2001), quasi tutte le sue pubblicazioni pullulano di rimandi liturgici, intesi sia in senso largo che in senso stretto: si pensi ad esempio ai libri-intervista quali Rapporto sulla fede (1985), Il sale della terra (1996) e Dio e il mondo (2000). Spesso alcune contribuzioni meno note del teologo hanno inciso di più di altre nel dibattito intra-ecclesiale, e in alcuni testi più sobri e meno accademici è emersa con maggiore chiarezza la sua visione personale in ordine alla restaurazione della liturgia cattolica.
In tal senso, un saggio emblematico delle posizioni maturate lentamente e decisamente nel cuore e nella mente del futuro pontefice, emblematico anche per l’applicazione insperata che si è già avuta nel primo lustro di pontificato, è quello presente negli atti del Convegno avutosi all’abbazia di Fongombault nel 2001, appena pubblicati in lingua italiana (a cura di don R. De Odorico, La Questione Liturgica. Atti delle “Giornate Liturgiche di Fontgombault” 22-24 luglio 2001, ed. Nova Millennium Romae, Roma 2010, 15 €).
Si tratta di un’edizione maneggevole e ben curata degli importantissimi Atti, già noti agli specialisti, in cui importanti teologi e intellettuali cattolici facevano il punto della situazione sulla liturgia della Chiesa a circa 40 dalla costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II. Tra i 13 intervenuti, ricordiamo almeno, oltre al card. Joseph Ratzinger, animatore e presidente del Convegno (anche per la carica allora ricoperta di Prefetto della Dottrina della Fede), i padri benedettini Cassian Folsom, Antoine Forgeot, Hervé Courau e Charbel Pazat, e i laici Roberto de Mattei, Robert Spaemann e Miguel Ayuso-Torres. 
Nell’impossibilità di ripercorrere, neppure en passant, le varie conferenze, alcune fondamentali, ci limiteremo a riportare i tratti salienti del triplice intervento del card. Ratzinger, triplice intervento composto da una densa omelia tenuta in apertura del Convegno, da una conferenza magistrale di teologia liturgica e da una sintesi finale dei lavori, in cui il porporato tirando le opportune conclusioni, apriva orizzonti importanti per l’auspicata rinascita della liturgia.
Nell’Omelia, il prefetto del Sant’Uffizio riconosceva che «dopo il Concilio, si è diffusa l’idea che lo sviluppo sociale sarebbe il contenuto del Vangelo» e perfino «che bisognerebbe fare soprattutto delle cose esteriori, materiali, e che [solo] dopo questo si potrebbe forse avere ancora tempo per Dio […]» (p. 15). Così, «anche dei missionari non hanno avuto più il coraggio di annunziare il Vangelo. Hanno pensato che il loro dovere ora [cioè dopo la svolta conciliare] era quello di contribuire allo sviluppo dei Paesi sottosviluppati» (p. 15). Le conseguenze di questo attivismo, di questo materialismo sulla liturgia, che è culto spirituale alla SS. Trinità, sono fin troppo ovvie. Nella conferenza il porporato notava, per deplorarla, l’assenza della nozione di sacrificio nella teologia eucaristica contemporanea, e il parallelo rifiorire della accuse anti-cattoliche già tipiche dell’illuminismo (p. 24). Citando Stefan Orth, il cardinale constatava che l’idea di sacrificio stava pian piano ritornando ad essere bandita, come ai tempi di Lutero, principalmente dopo l’assise conciliare (cfr. pp. 24-25). Infatti, «una parte non esigua delle liturgie cattoliche sembra praticamente essere arrivata al risultato che bisogna dare nella sostanza ragione a Lutero contro Trento» (p. 25). Da questa mentalità protestantica, prevalsa anche in casa cattolica, Ratzinger faceva derivare «la lotta contro la possibilità di celebrare ancora, dopo la riforma liturgica, la Messa secondo il Messale del 1962» (p. 25).
Nel discorso di chiusura (cfr. pp. 183-195) importante a più di un titolo, il Cardinale trattava brevemente quattro argomenti: la fisionomia spirituale e storica del Movimento liturgico otto-novecentesco, il problema dei due “riti romani” all’interno dell’unico Rito, l’idea della cosiddetta “riforma della riforma” e infine l’avvenire del Messale di san Pio V. Senza negare le validità del Movimento Liturgico, favorito anche dall’actuosa partecipatio dei fedeli difesa da s. Pio X, il prelato ne notava però le gravi carenze, ad esempio «il disprezzo del Medio Evo come tale, della teologia scolastica come tale» (p. 185), il rigetto delle forme “private” di devozione come il Rosario o la Via Crucis, e delle espressioni meno antiche di culto come l’adorazione del SS. Sacramento e il culto al Sacro Cuore. Questi limiti del movimento liturgico divennero forieri di deviazioni dopo il Concilio, si pensi all’idea più che peregrina che «il presbiterato non sarebbe un sacerdozio» o che «il sacerdozio sarebbe una cosa dell’Antico Testamento o pagana, non una cosa del cristianesimo» (p. 187)! Riguardo al secondo tema della duplicità rituale all’interno del medesimo Rito Romano, mi limito a notare che qui il prelato parla apertamente di due riti (cfr. p. 189): non hanno tutti i torti dunque quei liturgisti, sia tradizionalisti sia progressisti, che per distinguere meglio la forma ordinaria da quella straordinaria (secondo il linguaggio del motu proprio del 2007) continuano a usare le parole che lui stesso usò, parlando a volte di ritus antiquus (per la messa di s. Pio V che copre 15 secoli di storia) e ritus modernus (per il messale degli ultimi 40 anni). Il punto forse più saliente dell’intero discorso era quello della riforma del messale del 1970. Ratzinger chiedeva che si abolisse la «falsa creatività» (p. 191), a suo avviso intrinseca al nuovo Messale. Dunque almeno una delle cause degli abusi liturgici deplorati da 40 anni, non dipendeva e non dipende solo dallo spirito dei novatori, ma anche dalla lettera di certe leggi liturgiche. Parlava poi delle traduzioni da approvare con cautela (in America alcune comunità rendono le persone della Trinità in modo nuovo, per evitare il maschilismo che sarebbe contenuto nelle parole Padre, Figlio e Spirito Santo!), rifiutando poi la soggezione culturale al politically correct. Auspicava anche una reintroduzione almeno parziale della lingua latina. Ammetteva inoltre la legittimità, anche nel rito rinnovato, dell’orientamento classico del sacerdote all’altare, almeno per il momento della consacrazione eucaristica. Infine, circa il futuro della liturgia tridentina, l’attuale Pontefice ne affermava la validità permanente, anche se esprimeva l’idea dell’inserzione di alcuni santi e di alcuni prefazi composti dopo il Vaticano II: il motu proprio Summorum Pontificum del 2007 ha ripreso e allargato le possibilità già qui apertamente previste.
In sintesi è bene notare che colui che sarebbe diventato il Vicario di Cristo aveva già idee molto chiare alcuni anni prima della sua elezione: molte di queste idee si sono concretizzate, seppur con tante difficoltà. Altre, sulla riforma non più procrastinabile del messale di Paolo VI, attendono la luce. Il movimento liturgico di primo ’900 produsse grandi sconquassi, il nuovo movimento liturgico restaurazionista, di cui quel convegno segnò l’apice intellettuale e programmatico, sarà degno di memoria se assumerà al meglio e ricoprirà senza tentennamenti il suo ruolo storico, non già adeguandosi alla teologia secolarizzata di oggi, ma ricentrando tutto il culto sulla teocrazia presente nella Bibbia e sulla grande tradizione dogmatica e dottrinale.