sexta-feira, 6 de setembro de 2019

Regola di S. Benedetto. Regola di S. Benedetto



Regola di S. Benedetto
Prologo della Regola: Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno, in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell'obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l'ignavia della disobbedienza. "
... Correte, finché avete la luce della vita, perché non vi colgano le tenebre della morte". Quando poi il Signore cerca il suo operaio tra la folla, insiste dicendo: "Chi è l'uomo che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere giorni felici?". Se a queste parole tu risponderai: "Io!", Dio replicherà: "Se vuoi avere la vita, quella vera ed eterna, guarda la tua lingua dal male e le tue labbra dalla menzogna. Allontanati dall'iniquità, opera il bene, cerca la pace e seguila". Se agirete così rivolgerò i miei occhi verso di voi e le mie orecchie ascolteranno le vostre preghiere, anzi, prima ancora che mi invochiate vi dirò: "Ecco sono qui!". Fratelli carissimi, che può esserci di più dolce per noi di questa voce del Signore che ci chiama? Guardate come nella sua misericordiosa bontà ci indica la via della vita! Armati dunque di fede e di opere buone, sotto la guida del Vangelo, incamminiamoci per le sue vie in modo da meritare la visione di lui, che ci ha chiamati nel suo regno. Se, però, vogliamo trovare dimora sotto la sua tenda, ossia nel suo regno, ricordiamoci che è impossibile arrivarci senza correre verso la meta, operando il bene.


Regola di S. Benedetto

Tratto dal libro di don Divo Barsotti "Ascolta o figlio" - Ed. Fondazione Divo Barsotti

La ricchezza del prologo della Regola di San Benedetto

«Ascolta, o figlio, i precetti del Maestro e inchina l’orecchio del tuo cuore e accogli volentieri gli ammonimenti del tuo padre amoroso e con ogni potere li adempi; affinché tu ritorni per fatica di obbedienza a Colui dal quale ti eri allontanato per l’accidia della disobbedienza».
Le espressioni nel Prologo della Regola che vogliono definire la vita spirituale sono diverse, ma tutte hanno questo in comune: il senso di un rapporto. La vita spirituale è una scuola, e il rapporto è fra il discepolo e il maestro; è una famiglia, e il rapporto è del figlio col padre; è un combattimento, e il rapporto è del soldato che obbedisce al suo generale; è un lavoro, e allora il rapporto è dell’operaio con l’imprenditore, col suo padrone. Sempre comunque la vita spirituale è un rapporto. La vita spirituale è dunque essenzialmente un rapporto. Se ti chiudi in te stesso e rifiuti l’amore, non vale la virtù, la grandezza della virtù misura, anzi, il grado stesso della tua perversione, dice la tua lontananza da Dio.
Ecco perché San Benedetto prima di tutto insiste su questo insegnamento. Vivere vuol dire precisamente stabilire un rapporto con Dio, e approfondirlo ogni giorno, ogni giorno farlo più intimo e vivo.
Il rapporto dell’anima col Signore si farà più intimo attraverso il progresso della preghiera e l’esercizio dell’obbedienza. Ogni rapporto con le cose, con gli uomini che determina il nostro vivere umano, deve sfociare in un rapporto con Dio in tal modo che ogni nostro atto sia atto di obbedienza alla volontà paterna. Così mangiando o bevendo (come dice S. Paolo) l’uomo non deve sottrarsi al suo rapporto col Padre, ma deve vivere nell’umile obbedienza il suo rapporto con lui e far di tutta la vita l’adempimento di una sua volontà.
Ma noi dobbiamo vedere più profondamente questo rapporto se è fondamentale, dobbiamo vedere come questo rapporto si stabilisca e come debba divenire ogni giorno più intimo e vivo. Lo vedremo se analizzeremo quello che San Benedetto ci dice nel Prologo.
Una vocazione inizia il nostro cammino al Signore. L’anima è entrata in rapporto con Uno che l’ha chiamata. È Dio che può stabilire il rapporto, è sua l’iniziativa e si manifesta in una chiamata che l’uomo deve ascoltare, cui deve rispondere.
La vita religiosa per sé si inizia con queste parole: Ausculta, o fili. È nell’ascoltare che diveniamo figli, accogliendo la Parola diveniamo noi stessi parola.
S’impone che l’anima non rifiuti il rapporto che Dio stabilisce con lei, s’impone che si apra ad accogliere la parola, si faccia attenta.
Egli parla, ma l’uomo può non ascoltarlo; Dio ha l’iniziativa in questo rapporto di amore, ma l’uomo può rifiutare il rapporto fin dall’inizio col rifiutarsi di ascoltare.
L’uomo deve vivere costantemente in una disposizione di interiore docilità, di attesa umile e pura. Ogni giorno deve poter rispondere al Signore le parole che gli diceva un giorno il giovane Samuele. «Parla Signore, perché il tuo servo ti ascolta».
Il rapporto è stabilito dalla parola. È nella parola che Dio si comunica all’uomo. Una comunione con Dio è un ascoltare la parola ed è un rispondere a lui. Questo rapporto è prima di tutto una scuola, ma una scuola che è comunicazione di vita. Il discepolo è chiamato immediatamente figlio.
L’insegnamento che dona il Signore è veramente un insegnamento di vita: colui che lo ascolta diviene suo figlio.
La paternità spirituale si esercita attraverso un magistero. Dio è Padre nella rivelazione che ci fa di sé col suo Figlio, nel dono del Figlio suo che è la Parola. Anche S. Paolo ha generato per mezzo dell’evangelo i Corinzi (1Cor 4,15).
Il tema fondamentale della Regola benedettina è la Paternità. Tutto nel monastero dipende dall’Abate e l’Abate, immagine di Cristo, esercita la sua paternità attraverso un magistero. Il monastero è la «scuola del servizio divino» e il primo dovere del discepolo che voglia essere figlio è quello di ascoltare la parola del maestro, di accogliere la parola che dona la vita.
Il maestro è veramente un padre: non dona infatti, nella sua parola, qualche cosa di diverso da sé, ma dona se stesso.
La parola di Dio è Dio; se egli ci parla, ci dona dunque se stesso. Il maestro, insegnando, non stabilisce con i suoi alunni un rapporto di paternità come Dio, perché non comunica, almeno necessariamente, la vita.
Dio comunicando la sua parola, comunica sempre se stesso; stabilisce sempre col discepolo un rapporto di paternità e il discepolo vive col Maestro un rapporto filiale. È una scuola sui generis, la scuola di Dio: si impara la vita, il discepolo si assimila a Colui che insegna, perché non riceve una dottrina diversa da Lui; così il discepolo perfetto è come il maestro, dice Gesù nel Vangelo di S. Luca.
«Accogli volentieri l’ammonimento di un padre amorevole e mettilo in pratica risolutamente»: è veramente, fin dall’inizio, una disposizione filiale di amore quella che deve distinguere l’uomo che entra in rapporto con Dio. Tu non puoi vivere un rapporto con Dio fin dall’inizio, che come rapporto di figlio. Essere padre ed essere figlio non può voler dire che vivere una comunione di amore. Se è Padre, egli non ti dona altra cosa che sé; se tu sei figlio non basta ascoltare, devi abbandonarli a lui in una amorosa e libera obbedienza.
La risposta dell’uomo è come l’incarnazione della Parola. La risposta dell’uomo è la stessa parola di Dio divenuta suo adempimento. Legge che si adempie, profezia che si realizza.
La vita spirituale dunque non è un’etica, sia pure soprannaturale, non è pura saggezza: è prima di tutto un rapporto. Sappiamo che cos’è la vita divina: ogni Persona divina in Dio è relatio ut substinens, pura relazione di amore: null’altro. Il Padre è soltanto il Padre, il Figlio è soltanto il Figlio; il Padre è tutto per il Figlio e nel Figlio, il Figlio è tutto per il Padre e nel Padre. Ogni Persona divina è questo ordinarsi totale di sé all’altra Persona correlativa.
Ora la vita spirituale del cristiano è veramente partecipazione alla vita divina. In quanto è partecipazione alla relazione del Figlio noi siamo figli nel Figlio.
Non c’è parola più grande in tutta la Regola, perché non c’è una parola più grande in tutto il Vangelo.
Il Prologo si inizia: Ausculta, o fili. Anche tu sei figlio; non possiamo vivere un rapporto nostro con Dio se non siamo nel Figlio suo. Al di qua della Trinità Dio è Causa degli esseri, è Primo Motore; ma al di qua della Trinità, Dio non svela il suo mistero, egli non entra in rapporto con le cose: egli vive, dice lo Pseudo-Dionigi, una infinita, eterna solitudine; egli trascende siffattamente tutta la creazione, che questa non avrà mai la possibilità di entrare in un rapporto personale con lui. Dio stesso non entra in rapporto, in relazione con le cose; Dio non ci conosce che in se stesso, e in se medesimo soltanto ci ama: non esce di sé. Se dunque noi viviamo in rapporto con Dio, è perché la grazia divina in qualche modo ci introduce nel seno stesso della Trinità e ci fa partecipi di quelle relazioni che costituiscono le divine Persone.
Noi siamo figli nel Figlio per contemplare eternamente il volto del Padre. È quel che diciamo al termine del Canone della Messa: «Obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire...» . Possiamo dire, e osiamo dire: «Padre nostro che sei nei cieli» perché in qualche modo a questo ci sforza e ci dà il potere di pronunciare queste parole, il comando di Gesù, di cui noi siamo le membra. Siamo una sola cosa con lui; per questo viviamo la sua medesima vita, atto purissimo di amore al Padre celeste.
La vita spirituale in S. Benedetto prima di tutto si esprime, si manifesta come rapporto. Questo vuol dir tutto nella vita cristiana: le virtù o sono l’espressione di questo rapporto, o altrimenti ci mantengono al di qua del mistero trinitario. Una persona può essere obbediente e non credere in nulla; può essere casta e non avere alcun rapporto con Dio. Sono le virtù teologali che fanno il cristiano e stabiliscono e realizzano un rapporto personale dell’anima con Dio. Io vivo se vivo di amore, io vivo se contemplo il Padre; vivo la vita cristiana, se entro in rapporto personale con un «Tu». Come il Figlio altro non è che rapporto personale di amore al Padre suo, così il cristiano. In tanto siamo cristiani, in tanto viviamo la nostra vocazione soprannaturale e, più ancora in tanto viviamo la nostra vocazione monastica, in quanto siamo questo puro rapporto: «Io e Tu». Se Dio è assente dalla nostra vita non soltanto non siamo monaci, non siamo neppure cristiani, anche se avessimo tutte le virtù. È questo rapporto dell’anima con lui che definisce il cristiano, perché l’essere cristiano è un essere in Cristo, un essere cioè nel Figlio, un essere in Colui che è puro atto, eterno, infinito atto di amore, onde dal Padre generato, al Padre eternamente ritorna.
La vita spirituale, al di fuori del cristianesimo, può conoscere la bellezza anche dell’esperienza spirituale più alta: si pensi alla mistica di Plotino, alla mistica indù: un assorbimento nell’Uno che dà le vertigini anche a noi cristiani se si considera un poco. Non c’è da fare paragoni: quello che distingue il cristianesimo è la preghiera; il bambino che dice una piccola parola a Dio vive già in un piano infinitamente più alto del mistico, il quale vive, in un assorbimento nell’unità, l’esperienza dello spirito: perché chi prega entra in rapporto con Colui che trascende, non solo il mondo fisico, non solo il mondo visibile, ma anche il mondo invisibile e lo spirito. Di fatto ogni preghiera implica un’ascensione, suppone la nostra partecipazione all’ascensione del Cristo: nella nostra preghiera ci solleviamo al di sopra di tutto e di tutti per giungere fino al cuore di Dio.
La vita è prima di tutto rapporto.
Il Prologo si inizia così: Ascolta, o figlio. Dio è una Persona con la quale, volere o non volere, tu sei in rapporto; ma tu devi volerlo e tu devi viverlo questo rapporto sempre più intensamente, in tal modo che tutta la tua vita, a un certo limite, divenga una sola preghiera, una sola aspirazione a Dio, un solo desiderio che a lui ti spinga, una sola aspirazione che a lui incessantemente ti porti, perché tu possa affondare nella sua luce per sempre. «ASCOLTA, O FIGLIO».
Il tema del rapporto è legato al tema della parola: ascolta. Vuoi dire che c’è qualcuno che parla. La vita spirituale è un rapporto che si stabilisce fra due persone; e il rapporto che si stabilisce fra due persone si realizza praticamente nella parola: è nella parola che Dio si comunica a me, è nella parola che io comunico a lui.
Ma che cos’è questa Parola? All’estremo limite è il Verbo stesso di Dio, perché Dio, parlandomi, che cosa fa se non donarmi il suo Figlio? E io parlando a Dio che cosa faccio, finalmente, se non riportare il Figlio unigenito al Padre? La preghiera più alta del cristiano è precisamente questo riportare a Dio il Figlio suo. Ricordate quello che dice S. Giovanni della Croce nella Fiamma d’Amor viva? «L’anima non sarà mai contenta, né Dio sarà mai soddisfatto dell’anima, fintanto che l’anima non riporterà Dio a Dio, in Dio». Dio non può essere contento che di sé. Così Dio non sarà contento mai di noi finché noi non porteremo a lui il Figlio suo. È questo ricevere e donare che vive non soltanto l’anima mistica, ma tutta la Chiesa e lo vive precisamente nell’atto più alto della sua vita, la Messa. L’anamnesi così lo sottolinea e traduce e commenta: «Offriamo alla tua maestà divina, tra i doni che ci hai dato, la vittima pura». Il Padre ci dona il Figlio, e noi doniamo al Padre il Figlio; e lo eleviamo nelle nostre povere mani fino a lui.
Ma intanto perché Dio ci comunichi la sua Parola si esigono delle disposizioni interiori da parte dell’anima. Dice la Genesi che Dio parlò e le cose furono fatte: questo linguaggio è antropomorfico. Come poteva parlare Dio se non c’era nessuno che ascoltasse? Si tratta della creazione. Dio non parla al nulla, ma parla a noi, perché noi abbiamo orecchi per ascoltare: Qui habet aures audiendi, audiat, quid Spiritus dicat Ecclesiae si leggerà verso la metà del Prologo. Sono parole dell’Apocalisse: «Chi ha orecchio da intendere, intenda ciò che lo Spirito dice alla Chiesa». Dunque noi abbiamo degli orecchi per ascoltare Dio. Si esigono, in questo rapporto di amore fra noi e Dio, delle disposizioni particolari di attenzione, di raccoglimento per poter accogliere il Verbo di Dio, per ascoltare Dio, per riceverlo in noi.
S’impone l’attenzione a una Parola.
Chi ascolta è «figlio», chi parla, secondo il Prologo, è «maestro». Il rapporto di figlio non esaurisce il rapporto dell’anima verso Dio. Il Figlio unigenito nei confronti del Padre non è discepolo e il Padre nei confronti del Figlio unigenito non è maestro, ma quando si tratta dell’uomo, la paternità divina e la filiazione umana, si traducono in un progresso continuo di intimità. Il rapporto cioè può essere sempre più intimo, più profondo. Lo insegna già S. Ireneo nell’Adversus haereses: Dio ha sempre da insegnare all’uomo e l’uomo ha sempre da imparare da Dio. Essere figli: non lo siamo mai abbastanza. Il battesimo ci fa figli di Dio, eppure nostro Signore nel sermone della montagna ci esorta: ut sitis filii Patris vestri perché siate figli del Padre vostro. Non siamo già figli? Dobbiamo divenirlo sempre di più, perché mai ci trasformeremo nel Figlio di Dio. Se non ci trasformeremo mai, ma dovremo ugualmente tendere a lui, quale cammino immenso non si apre all’anima in questa intimità divina! Dio è il Maestro. Dobbiamo imparare a essere sempre più figli, ed è egli stesso che ci insegna la via per giungere a lui. La paternità divina verso l’uomo si traduce in un magistero.
La vita spirituale è vista dunque come un magistero. Si troverà presente questo tema anche al termine del Prologo: Constituenda est ergo nobis schola dominici servitii: Dobbiamo dunque istituire una scuola per il servizio del Signore. Il Monastero è una «scuola» alla quale si va tutti i giorni: il Maestro è lui e noi siamo i suoi discepoli. È questo che distingue, secondo il Vangelo di S. Giovanni, la vita cristiana, dopo che Gesù ha donato il suo Spirito: et erunt omnes docibiles Dei: tutti saranno istruiti da Dio. Un Maestro interiore lentamente ci istruisce, ci educa, ci accompagna e guida, ci solleva sempre più vicino a sé.
Com’è grande la ricchezza di questo linguaggio! Nella lettura della Regola non si deve andare in fretta, perché anche se la Regola non è ispirata, è però una parola che ha alimentato innumerevoli generazioni di anime, talmente è densa di dottrina e di vita.
Et inclina aurem cordis tuiaurem cordis: E piega l’orecchio del tuo cuore; l’orecchio del cuore: l’attenzione del discepolo è un’attenzione amorosa. Non si apprende che in quanto si ama. E l’insegnamento esige di fatto il profitto: il discepolo deve imparare.
Altro grande tema del Prologo è quello del compimento di una parola. La parola è sempre legge per l’anima, legge che l’anima deve adempiere: et efficaciter comple: e mettilo in pratica risolutamente. Il compimento di una divina volontà naturalmente si traduce nell’obbedienza, ed è questo il tema con cui termina il primo periodo del Prologo: «perché tu possa ritornare per l’obbedienza a Colui dal quale per la negligenza della disobbedienza ti eri allontanato». L’esigenza dell’obbedienza mai era stata affermata così come l’ha affermata S. Benedetto nella sua Regola, facendone veramente il fondamento e il cardine di tutta la vita religiosa, di tutta la vita cristiana. Ma la vita cristiana suppone il peccato: l’obbedienza dunque è un ritorno. S. Agostino nelle Confessioni insegna che l'uomo col peccato è come esiliato nella regione della dissomiglianza in regione dissimilitudinis, così il cammino dell'anima spirituale è un ritorno al paradiso per essere nuovamente creata ad immagine e somiglianza di Dio. Tutta la nostra vita è un ritorno e il ritorno esige un cammino. In S. Benedetto non sarà un semplice cammino, ma una corsa. Quante volte ritorna nel Prologo questo termine di «corsa»! S. Benedetto non vuole anime pigre, vuole anime ferventi, anime che non stanno troppo a considerare dove mettono i piedi, non toccano la terra: esse volano.
Bisogna correre per giungere a Dio: la distanza che ci separa da lui è infinita, e soltanto in un volo possiamo superarla. Se si va a piedi, si rimane sempre all’inizio.
Ho accennato brevissimamente ai temi del Prologo; ora voglio richiamarmi soltanto al primo: il rapporto.
Dobbiamo renderci conto che la vita spirituale è prima di tutto e innanzi tutto un rapporto di amore. Se Dio cessa di essere il Tu a cui l’anima si rivolge, tutta la vita frana, vien meno. Noi siamo fatti così che sentiamo di vivere solo se viviamo per qualcuno, se viviamo per qualche cosa. Chi non vive una vita religiosa può avere l’illusione che la sua vita abbia un certo contenuto se lavora per qualcuno, se ama qualcuno. Fuori della vita religiosa uno può farsi benissimo l’illusione che la sua vita valga la pena di essere vissuta; in realtà fuori della vita religiosa non bastano mai i rapporti, vivere vuol dire così moltiplicare i rapporti senza fine. Qualunque rapporto l’uomo possa avere con una creatura, non basta ad esaurire l’infinita possibilità di amore che è nel suo cuore. Colui che è figlio nei confronti dei genitori non è soltanto figlio; ha bisogno anche di una sua vita indipendente, deve vivere anche per qualche altra creatura. Così il marito non può vivere soltanto per la moglie: vive per il partito, vive per la professione, vive per l’arte. Ha bisogno di vivere ordinandosi a molte creature perché non è sufficiente vivere per una sola; ma Dio può consumare veramente tutta la nostra vita, non solo presente, ma la nostra eternità. Dio d’altra parte consuma tutta la vita stessa di Dio: il Figlio non ha che il Padre, il Padre non ha che il Figlio. Se Dio basta a Dio, come non potrebbe bastare a ciascuno di noi? Dobbiamo renderci conto che tanto più risponderemo alla nostra vocazione quanto più Dio diviene il tutto dell’anima, diviene l’Unico che l’anima conosce, l’Unico che l’anima ama. Tutta la vita deve al termine non essere più che un’unica aspirazione a Dio. Desiderio, speranza, amore; tutto ci spinge in una sola direzione, in un solo cammino: verso il volto del Padre. Dobbiamo sentire questo perché questo è essenziale ad ogni vita cristiana fino alle sue ultime conseguenze; non vi è differenza tra vita attiva e vita contemplativa. Non esiste una vita attiva e una vita contemplativa: esiste la vita cristiana, la quale consuma nella contemplazione di Dio. Che cosa dice il quarto Vangelo a proposito del Figlio Unigenito? In principio erat Verbum et Verbum erat apud Deum... Quell’apud Deum, in greco pròs tòn Theòn vuol dire: era in faccia a Dio; tutta la vita del Figlio è un volgersi al Padre, per amare il Padre, null’altro. Questo deve essere anche per noi, per ogni cristiano, ma per noi lo deve essere più che per gli altri, non perché gli altri non siano chiamati a vivere questa medesima vita, ma perché noi vogliamo anticipare nella vita presente la vita futura. Gli altri cristiani aspettano soltanto a domani, dopo la morte, a vivere in faccia a Dio. Noi abbiamo scelto di vivere oggi dinanzi al volto di Dio, perché già oggi vogliamo vivere in paradiso. Perché aspettare a domani, dal momento che il paradiso è già aperto? Perché volere aspettare a domani se siamo al cospetto del Padre?
La vita cristiana è rapporto. Ha ragione S. Agostino: l’unica difficoltà, l’unico impedimento reale ad una vita cristiana, è l’egoismo, l’amore di sé, quell’amore di sé che ci fa piegare verso di noi. Se tu ti pieghi verso di te, non vivi più un rapporto di amore verso di lui. L’egoismo abituale può essere un impedimento, un pericolo anche maggiore del peccato. Il peccato rimane peccato, ma le conseguenze di un peccato a volte non sono così gravi come le conseguenze di un atteggiamento abituale dell’anima di ripiegamento sopra di sé. Quest’anima incurvata sopra di sé, come dice S. Agostino, è impedita a rivolgersi a Dio, non vede mai il cielo.
&la quo;Padre nostro che sei nei cieli» diciamo, ma se uno è curvo non può volgersi a Dio, non può guardare in alto, non vede più il suo volto; ha perso il contatto, ha spezzato il rapporto. Che cosa vive? Non vive che la sua miseria, non vive che la sua morte.
Sbarazziamoci di noi stessi, non viviamo più per noi, ma per Dio: ecco la prima esigenza della vita cristiana, una liberazione continua di noi stessi. Questo si impone: non esiste per l’anima che il «Tu» divino. Dio solo! Ma come l’anima vivrà questo rapporto? Siccome è un rapporto personale con Dio, si può anche prescindere da sentimenti particolari, ma non dal senso di un rapporto, fondato sulla parola che Dio mi rivolge. È infatti la Parola di Dio che sola può iniziare il rapporto. Se Dio prima non parla, tu non gli puoi parlare. La tua parola non può essere che la risposta alla sua. Ma se egli ti parla sempre e tu ascolti la sua parola, come vivrai tu il rapporto con Dio, se non col rispondergli? Così alla vita cristiana è essenziale la preghiera. Lo diceva già un grande maestro della spiritualità francese, il P. de Condren: «Come è essenziale all’uomo respirare, è essenziale al cristiano il pregare». La preghiera è come il respiro dell’anima; senza la preghiera il cristiano muore.
La santità si misura precisamente dal cammino dell’orazione.
La preghiera è essenziale, è la stessa forma del vivere per noi, se essere cristiani vuoi dire vivere un rapporto con Dio. Quando attualmente noi non viviamo un rapporto, rischiamo almeno di compromettere il nostro avanzamento nella vita divina. Nulla può compromettere di più il nostro avanzamento nella vita interiore, come l'infedeltà all’orazione. Non si potrà mai essere fedeli all’orazione e mantenerci fedeli ai nostri peccati, alle nostre negligenze volontarie, ai nostri peccati veniali più o meno deliberati.
Vivere un rapporto: e tuttavia prima di parlare del nostro vivere un rapporto, s’impone di vedere, di riconoscere come questo rapporto non possa essere stabilito da noi. Si diceva prima: non possiamo parlare se non ascoltiamo. Di qui l’importanza che ha il raccog1imento perché la nostra preghiera cessa di essere tale ed è puramente formale se perdiamo quel minimo di raccoglimento che permetta all’anima di ascoltare Dio. La nostra preghiera è una risposta. Guai se manca il minimo di raccoglimento interiore: questo raccoglimento è la condizione di una vera preghiera. Quante sono le anime che credono di pregare e forse non pregano mai! Son troppo preoccupate di parlar loro. La loro parola non è rivolta ad alcuno, è come un parlare a se stessi; di fatto mentre si dicono quelle tali preghiere non si fa che andare consapevolmente o meno dietro i nostri fantasmi, immagini, pensieri, preoccupazioni, ricordi: Dio non è assolutamente presente. Che non sia così per noi! Noi dobbiamo vivere la nostra preghiera rendendoci conto della necessità del raccoglimento: Ascolta è la prima parola del Prologo. Ma che cosa vuoi dire ascoltare? Che cosa si ascolta?
Il nostro rapporto con Dio
La vita monastica non è nulla di più della vita cristiana, perché non v’è nulla di più grande della vita cristiana, vissuta alla perfezione:essa è essenzialmente un rapporto, un rapporto di amore. Ma in questo rapporto l’iniziativa è di Dio, noi non potremmo parlare a lui se non rispondendo ad una parola che egli per primo ci ha rivolto; la parola che egli ci dice è così normativa della nostra risposta. Uno dei più grandi rinnovamenti della spiritualità contemporanea è stato proprio questo: il riconoscimento che non vi è prima l’ascesi e poi la mistica, ma che prima viene la mistica e poi l’ascesi. Se è Dio che ha l’iniziativa, l’anima fin dall’inizio è passiva riguardo alla grazia, può essere che sia più o meno cosciente di questa passività, ma la passività dell’anima nei confronti di Dio antecede qualsiasi suo movimento verso Dio stesso. Del resto è la dottrina tradizionale della Chiesa: il non riconoscerlo sarebbe eresia. Già lo definiva il Concilio di Orange: non solo l’atto di fede suppone un dono di grazia, ma il Concilio definiva che anche il pius credulitatis affectus «il pio desiderio di credere è opera di Dio» e cioè anche il desiderio di credere implica l’azione segreta della grazia. È sempre Dio che agisce: noi non facciamo che assecondare l’atto divino, noi non facciamo che cooperare alla grazia; pertanto la grazia precede l’azione dell’uomo, precede qualsiasi movimento della nostra anima, e tanto più l’anima è santa, quanto più è docile a questa azione potente dell’amore divino. Il crescere dell’anima nella santità non implica un agire di più; implica al contrario un patire di più l’azione divina; implica un abbandono sempre più pieno. Così risponde la Vergine alla parola dell’Angelo: Ecce ancilla... fiat mihi... Quel fiat è passivo. La Madonna non fa, lascia che Dio faccia tutto in lei. E questa è la cooperazione dell’uomo a Dio: impedire il meno possibile che l’onnipotenza di Dio si dispieghi nell’anima stessa, perché noi abbiamo questo potere di mettere in iscacco la stessa onnipotenza divina.
Dio per primo, non solo in quanto deve essere lui «primo servito e amato«, ma primo anche perché egli stesso è il primo ad agire. Il nostro agire è in dipendenza dal suo.
Se la vita cristiana è essenzialmente un rapporto, dobbiamo sempre più renderci conto che in questo rapporto prima di tutto dobbiamo ascoltare. Non vi è nulla di più sapiente nella Regola di San Benedetto che la prima parola con la quale si inizia: «ascolta». Che cosa dobbiamo fare? Accogliere Dio che viene. Sarà poi Dio a far tutto nella misura in cui tu l’avrai accolto.
Ma perché il rapporto di Dio con l’anima si deve esprimere con questa parola o con questa legge dell’ascoltare? «Ascolta». Perché la Regola non dice prima contempla, oppure gusta il Signore? Una grande verità si esprime in questa parola: non solo la nostra dipendenza dalla grazia, ma anche il carattere stesso della grazia che Dio ci comunica. Io posso dirvi: «Guardate quelle finestre». Il vederle non implica che le finestre vogliano farsi vedere: ci sono, tu hai gli occhi, basta che tu li apra e le vedi. Ma se dico: «ascolta», questa parola implica che vi sia uno che parli e parli a te, e voglia comunicarsi a te.
Non soltanto Dio è, ma anche ti ama. Dio non soltanto è l’Essere infinito ed eterno; egli è anche il Padre che si comunica al Figlio; di più è la Persona rivolta verso di te e con te vuole stabilire un rapporto di amore: ti parla. Per sé necessariamente contemplare non implica che l’oggetto contemplato voglia entrare in rapporto. Ma se ti dico «ascolta» è segno che un Altro è rivolto verso dite e vuole parlarti, e vuole comunicarti qualcosa. La parola «ascolta» più che ogni altra può dunque insegnarci non solo la priorità dell’azione divina, ma il carattere di questa azione, che è azione di amore, di amore personale, onde egli vuole te, vuole parlare a te, comunicare a te, un suo disegno di amore. Perché non andiamo in estasi? Dio parla a ciascuno di noi, si comunica a ciascuno di noi! Non è come il sole: basta che ci sia e tu lo vedi; Dio è Uno che vuole te, che tutto si piega verso la tua piccolezza, il tuo nulla, per offrirsi al tuo amore.
Se io parlo, la mia parola non dice tutto me stesso; vorrei dire di più: può anche nascondere me stesso: tante volte parlando non si dice nulla, o anche si dice quella che non è la verità. L’uomo parlando non riesce mai a comunicare totalmente se stesso: per questo le parole dell’uomo son successive e tante. Dicono sempre qualcosa, quando dicono qualcosa; ma non dicono mai tutto, né potrebbero dirlo. Nel peggiore dei casi possono, non tanto donare noi stessi, quanto nasconderci.
Ma Dio non è così; parlando egli comunica, non qualcosa di sé: Dio è uno, è semplicità assoluta ed eterna; se egli parla, egli non può dire che una sola Parola e in questa Parola non può comunicare che se stesso infinito. Egli si dona tutto in una sola Parola, che eternamente egli dice. In questo ascoltare Dio, l’anima si apre ad accogliere il dono stesso infinito dell’Essere suo.
Certo la Parola di Dio, una volta che noi l’ascoltiamo, si rifrange come attraverso un prisma e diviene «tante parola», ma questo moltiplicarsi dipende da noi, non da lui che parla; dipende dalla limitata capacità nostra di accogliere la sua Parola. Lo Pseudo-Dionigi nella Teologia del silenzio dice che quanto più l’anima è impreparata ad accogliere Dio (lo dico con le mie parole) tanto più bisogna che la parola di Dio si moltiplichi, perché l’anima riceva qualcosa di questo Essere infinito attraverso le molte parole, attraverso i molti insegnamenti. Quanto più l’anima invece diviene perfetta, tanto più la parola di Dio si restringe, si riassume, e quando l’anima è veramente perfetta, allora l’anima accoglie la Parola di Dio in un puro, infinito silenzio. La Parola di Dio si identifica allora al silenzio dell’eternità.
In paradiso Dio si comunicherà all’anima eternamente, infinitamente nel Verbo e l’anima sprofondando nell’infinito silenzio della divinità accoglierà quest’unica Parola, per divenire essa stessa in qualche modo questa Parola: laus gloriae.
Quaggiù non è così, abbiamo bisogno che la Parola di Dio si rifranga in tante parole per essere accolta da noi. Ecco perché le parole che dice Dio a un’anima sembrano diverse di quelle che dice a un’altra. La Parola di Dio si adatta a ciascuna anima, per poter essere accolta e perché quest’anima lentamente si semplifichi per trasformarsi nell’unico Figlio di Dio. La parola di Dio in sé è uguale, ma ciascuno di noi ascolta in modo diverso.
Tanto più pura è l’anima, tanto più l’attenzione a Dio diviene tutta la vita, diviene un atto semplicissimo di adesione, un puro silenzio nell’ascoltare. «Ascolta» dice la Regola.
La parola «ascolta» può essere, così, tutta la vita. Non soltanto Dio si comunica tutto, ma si comunica sempre, egli che è l’Immutabile. Tutta la vita non è che accogliere questo Dio che eternamente si dona; non solo si dona infinitamente, ma eternamente. La vita dell’anima può veramente identificarsi a questo puro ascoltare, a questa attenzione dolcissima a lui. Dio non è soltanto «qui» che si dona, non è soltanto «ora» che si dona; in Dio non vi è «ora» e «qui»: o meglio egli è l'«Ora» e il «Qui» eterno. Ovunque tu sei, qualunque ora tu vivi, Dio si comunica a te.
«Ascolta»: la parola è assoluta. Non vi è tempo, non vi è luogo in cui questa parola non risuoni per te; non vi è tempo, non vi è luogo in cui Dio non si comunichi all’anima tua, non si doni nella Parola che ti rivolge.
Che cos’è questa parola? In principio erat Verbum et Verbum erat apud Deum et Deus erat Verbum. Se Dio ci parla, comunica, dicevo, se stesso. Debbo chiarire: il Padre ci dona suo Figlio; perché la Parola di Dio è il Figlio unigenito. Ascoltare Dio vuol dire accogliere Gesù. Dio non ci potrebbe dire un'altra parola perché Dio non ne ha altre; la Parola di Dio è il Verbo suo, è il Figlio unigenito. Ma notate l’insegnamento che ci dona San Benedetto, implicito nella Regola: la Parola che Dio ci comunica è una parola che è legge, è una parola che è profezia, è una parola che deve essere compiuta da te; è la parola che in te deve incarnarsi. Ecco la vita cristiana: è come un prolungamento dell’incarnazione divina. Il Verbo di Dio si comunica alla tua anima, perché tu ne divenga «la madre»; tutta la vita cristiana è partecipazione a una divina maternità. Il Padre genera il Figlio: lo genera nel nostro medesimo seno e il Verbo di Dio nasce nel nostro povero cuore per vivere di noi, come fu concepito e nacque dal seno purissimo di Maria. Certo noi mai vivremo la maternità divina come Maria, ma una partecipazione a questa maternità. Non lo dice Gesù nel Vangelo? «Chi è mio fratello, mia sorella, mia madre? Coloro che ascoltano la parola e la mettono in pratica». Mettere in pratica vuol dire concepire e partorire il Verbo secondo S. Francesco di Assisi e S. Tommaso d’Aquino. La Parola che è legge diviene carne della tua vita; et efficaciter comple «e mettilo in pratica risolutamente» soggiunge la Regola. Dio ti dice questa Parola perché tu la compia. Egli ti dice questa Parola perché in te divenga realtà di vita. Se voi non fate questo, che cos’è la vostra vita? È perduta. Che cosa è eterno se non soltanto Dio? E voi parteciperete della vita nella misura in cui parteciperete alla sua, nella misura che voi sarete associati a questo mistero infinito della vita divina. Se noi meditassimo un poco!
«Ascolta...» ci dice; non si tratta di ascoltare le parole di un uomo, ma di ascoltare Dio. Non si tratta di ascoltare una parola di Dio, si tratta di ascoltare la sua Parola. Non si tratta di ascoltare una parola che è come quella dell’uomo, inefficace; si tratta di ascoltare la Parola che è divinamente efficace perché è Dio stesso; non si tratta di ascoltare una parola che è accidentale, si tratta di accogliere una Parola che è il Verbo stesso di Dio, che è l’unigenito Figlio, e si tratta di accoglierlo nel nostro povero cuore. Ecco perché «ascolta» in fondo richiama tutta la dottrina spirituale, tutta la teologia, implicita nel cap. II del Vangelo di S. Luca: il racconto dell’annunciazione dell’Angelo a Maria.
Ma se questo è vero, la parola «ascolta» della Regola ci dice un’altra cosa: Dio comunica sempre se stesso ad ogni anima, ma non comunica se stesso direttamente, perché, nella vita presente, non è immediato il suo rapporto con noi. Noi viviamo in un’economia sacramentale. Maria santissima non accoglie direttamente la Parola, la accoglie attraverso l’annuncio dell’Angelo. Angelus Gabriel, dice il Vangelo. L’Angelo Gabriele andò da una Vergine chiamata Maria et ingressus ad eam dixit: Ave gratia plena.
«Ascolta» dice la Regola di San Benedetto. Chi è che parla? Il pius Pater, e il pio Padre è l’Abate, San Benedetto. Nella parola di San Benedetto è Dio che parla. Questo vuol dire che Dio ci parla attraverso dei mediatori. Mediatore della parola di Dio per l'anima nostra è l’Abate, sono i confratelli, gli avvenimenti stessi della nostra vita, tutte quante le cose. Dio ci parla attraverso tutto. Non dobbiamo mettere tra parentesi il mondo e le cose per entrare in rapporto diretto con Dio. Non entriamo mai in rapporto diretto con Dio finché viviamo nella vita presente. Il rapporto immediato con Dio è soltanto nella vita futura: è la visione beatifica. Quaggiù Dio ci parla attraverso tutto e tutti. E noi dobbiamo avere tanta fede da sapere riconoscere e ascoltare questa divina Parola nella parola di tutte quante le cose.
«Ascolta»: certo prima di tutto le parole di San Benedetto sono per i monaci: le parole dell’Abate, per chi vive nel monastero, ma non solo questa parola; dobbiamo riconoscere, ascoltare la divina parola attraverso ogni cosa, attraverso ogni avvenimento, se Dio sempre ci parla. L’eternità di Dio si traduce per noi, che l’ascoltiamo nel tempo, in una sua continuità. Egli ci parla continuamente.
Quale delicatezza ci vuole perché l’anima si mantenga sempre in ascolto attraverso ogni cosa! Voi potete cercare di mettere tra parentesi le cose per mantenervi in un contatto più immediato con lui, ma il vostro raccoglimento non potrà mai essere così profondo da poter escludere ogni rapporto con le cose e con gli uomini. Di qui deriva che il rapporto che potete avere con le cose e con gli uomini deve tradursi in un rapporto con lui. Non vi è nulla che sia profano, non vi è nulla che per sé vi separi da Dio; tutto anzi per sé deve comunicarvi il Signore perché attraverso tutto egli realmente si comunica all’uomo.
Ascoltare, accogliere Dio attraverso tutto, in tutto, sempre: ecco la vita cristiana. Di qui la necessità di una vita contemplativa non soltanto per chi vive in monastero, ma per chiunque: per chi sta in città, in campagna, per chi va al mercato, in ufficio: sempre l’anima si trova dinanzi a Dio. Chi vive in un monastero è certo più fortunato degli altri perché può realizzare meglio come la parola divina sia rivolta continuamente all’anima. Dopo il peccato originale le cose, gli avvenimenti possono, sì, essere il tramite attraverso il quale Dio si comunica all’anima, ma in realtà sono divenute opache e possono anche sottrarci all’intimità divina. L’anima può fermarsi in loro e non raggiungere attraverso di loro il Signore. Per chi vive in un’atmosfera particolare di raccoglimento è più facile accogliere Dio attraverso tutte le cose, in ogni istante. Dobbiamo rimanere in attenzione al Signore, non fare differenze fra le azioni, i tempi, i luoghi: Dio è ovunque e ovunque ci ama. Dio è sempre presente e sempre ci ama. Amandoci sempre, in ogni luogo, ci dona se stesso e noi sempre e in ogni luogo dobbiamo accogliere Dio. È questa la vita contemplativa.
«Ascolta» ci dice San Benedetto. Attenzione dunque umile al Signore, e vuol dire: credere veramente non soltanto che Dio è (è facile credere che Dio è), ma credere che Dio è e ci ama. Per tutto quello che Dio è, egli è l’Amore che si dona. Se credete in un Dio che è, non vivete ancora un rapporto; Dio è, ma proprio perché è infinitamente grande, che rapporto potete avere con lui? Ma Dio per tutto quello che è, ti ama, ama me, ama ciascuno di noi; per tutto quello che è, egli è l’Amore. Noi dobbiamo credere questo. Questo vuol dire ascoltare Dio. Questo vuol dire vivere in un’attenzione pura e delicata alla sua Parola. Dobbiamo mantenerci nella fede viva, in un Dio che non solo è pronto, ma è sempre in atto di donarsi. Se tu per un istante solo interrompi il tuo atto di fede, tu non lo ricevi, perché ricevere Dio implica questa attenzione, implica questo volerlo accogliere in sé, implica questo atto di fede onde a lui che si dona, apri tutto il tuo cuore.
«Ascolta» dice la Regola. Come è grande tutto questo! Come è magnifico! «Ascolta»: non vi sembra che sia già tutto un programma di vita? Credete voi che non basterebbe questo per essere santi? È la prima parola, e già è sufficiente. Pure, sì, siamo così poveri che abbiamo bisogno di tante parole per riceverne metà di una. Per questo continuerò a parlarvi. Se tuttavia avete ascoltato anche questa sola parola, non avete bisogno di ascoltare più nulla, ma di mantenervi davvero davanti a Colui che vi ama, in pura attenzione di amore per accoglierlo in voi.
Di fronte a Dio che parla, l’anima prima di tutto deve mantenersi in uno stato di attenzione. Una parte del nostro essere deve essere sempre disponibile a Dio; dobbiamo vivere costantemente in un certo raccoglimento interiore. Il silenzio, il raccoglimento sono una condizione essenziale a quest’atto continuo di fede e di adesione a lui che la vita cristiana ci chiede. Ecco perché, se Dio parla a tutti, i monaci sono in una condizione più favorevole ad accoglierlo. Perché la vita di un monastero è tutta intesa a conservare l’anima in un’atmosfera di silenzio, di raccoglimento soprannaturale. Non cambia la vocazione divina che è quella di essere figli: ut sitis filii Patris vestri; cambiano le condizioni più o meno favorevoli per vivere questa vocazione e i monaci sono in condizioni particolarmente favorevoli. Tuttavia le condizioni del raccoglimento se sono soltanto esteriori non sono sufficienti a mantenere l’anima in attenzione a lui. Ci vuole un impegno personale; il raccoglimento deve essere l’impegno di ciascuno e il raccoglimento è diverso per ciascuna anima. Non soltanto è impegno personale, ma ciascuna anima vive questo raccoglimento più o meno, nella misura in cui è capace di ascoltare. Il raccoglimento di un santo, anche se sembra più distratto degli altri, è forse maggiore di quello di chi sta sempre in silenzio in un monastero, perché un santo vero non è più distratto da cosa alcuna, ma attraverso ogni avvenimento non riceve che Dio. Può star bene con gli occhi aperti perché non vede che lui. Noi dobbiamo stare con gli occhi chiusi, o almeno con gli occhi bassi, perché se li apriamo a tutte le cose, rischiamo di non vederlo più; se ascoltiamo tutti i discorsi, rischiamo di non ascoltare più la sua Parola. Il raccoglimento per ogni anima può e deve essere diverso.
Tutta la vita spirituale nel Vangelo si riassume in due sole leggi vigilate et orate che il Lallemant (Louis Lallemant, gesuita francese (1578-1635): si segnalò per il suo insegnamento profondamente mistico e contemplativo. Le sue conferenze furono raccolte dai suoi discepoli in un volume dal titolo: La vita e la dottrina spirituale del padre Louis Lallemant, apparso nel 1694) traduce: «custodia del cuore, docilità allo Spirito Santo». La Parola divina che noi ascoltiamo esige un raccoglimento personale: se Dio si comunica in una misura colma, in quale raccoglimento profondo l’anima deve rimanere! Quale attenzione pura al Signore distinguerà la vita dell’anima stessa! Se vivete questa attenzione continua, tutta la vostra vita sarà una comunione con Dio! Ogni atto della vostra giornata sarà un ricevere Dio, la comunione da parte di Dio non si interrompe mai; se si interrompe è perché l’anima non l’accoglie. Vivete questa comunione eterna di amore, accogliete il Verbo di Dio. Ascolti la tua anima questo Dio che parla e genera in te il suo Figlio unigenito; lo accolga, lo conservi in sé con quella cura gelosa, con quello spirito di adorazione e di amore, con cui la Vergine conservò il Verbo di Dio nel suo seno. Vivere in comunione continua con lui: questa è la vita cristiana.
«Ascolta» dice San Benedetto, «ascolta» ti ripete anche oggi, ti ripeterà domani, sempre: non è una parola che può essere superata. L’anima non può mai dire di essersi trasformata nel Cristo. Accolga, dunque, ogni giorno, ogni ora, ogni istante la divina parola, perché l’essere suo divenga un tabernacolo vivente di Dio, anzi perché l’uomo sia in qualche modo assunto nel Verbo, e finalmente trasformato nel Cristo. Avvenga quello che chiedeva per sé suor Elisabetta della santissima Trinità: «Sia la mia una umanità sopraggiunta alla sua, nella quale egli rinnovi il suo mistero». Dio non rinnova mai il suo mistero, lo continua; o, meglio ancora, lo fa presente nella nostra umanità, ed è questo che deve compiersi anche in noi: vivere per essere una presenza di Cristo a tutte le anime.
L’eucaristia è un sacramento, e i sacramenti sono propter homines. Che cosa vuol dire? Noi siamo come il fine dell’eucaristia. 
Propter nos homines et propter nostram salutem descendit... et incarnatus... passus... resurrexit... «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo... si è incarnato... patì... è risorto». Propternos homines: l’Incarnazione, «propter nos...« 1’eucaristia. Tutto il mistero trova il suo compimento nel fatto che Dio si dona; si comunica a me per vivere in me. Che cosa mai grande è tutto questo! Noi dobbiamo essere lui: molto più che un tabernacolo perché nel tabernacolo il marmo rimane marmo e l’oro, l’argento o lo stagno che racchiudono le particole consacrate rimangono oro, argento o stagno: nulla di più. Ma Dio non si può comunicare a me e lasciarmi quello che sono; egli si comunica a me per assumermi in qualche modo in unità di vita con lui, finché siamo un solo corpo, un solo spirito con lui. «Ascolta», dunque, e accogli, o anima, il Verbo di Dio, per trasformarti finalmente in lui che ti ama.