sábado, 5 de outubro de 2019

don Divo Barsotti, Fede e Pace Interiore . Insegnaci a Pregare. IL CRISTIANESIMO E’ CREDERE VERAMENTE CHE DIO CI AMA

cardinale Robert Sarah, «La Chiesa vive il mistero di Giuda, il tradimento della fede»

«La Chiesa vive il mistero di Giuda, il tradimento della fede»


di Robert Sarah.
È in libreria l’atteso libro del cardinale Robert Sarah, “Si fa sera e il giorno ormai volge al declino” (Editrice Cantagalli). Come i precedenti – “Dio o niente” e “La forza del silenzio” – si presenta sotto forma di intervista condotta dallo scrittore francese Nicolas Diat. Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo la prima parte dell’introduzione. 
Perché prendere ancora la parola? Nel mio ultimo libro vi invitavo al silenzio. Ma ora non posso più tacere. Non devo più tacere. I cristiani sono disorientati. Tutti i giorni ricevo da ogni parte richieste d’aiuto da chi non sa più che cosa credere. Ogni giorno, a Roma, ricevo sacerdoti scoraggiati e feriti. La Chiesa sperimenta la notte oscura. La avvolge e la acceca il mistero d’iniquità.
Tutti i giorni siamo raggiunti dalle notizie più terribili. Non c’è settimana che non venga denunciato un caso di abuso sessuale. Simili notizie lacerano il nostro cuore di figli della Chiesa. Come diceva Paolo VI, siamo investiti dal fumo di Satana. La Chiesa, che dovrebbe essere un luogo di luce, è diventato un covo di tenebre. Dovrebbe essere una casa di famiglia sicura e tranquilla, ed ecco che invece è diventata una spelonca di ladri! Come possiamo sopportare che tra noi, tra le nostre fila, si siano introdotte delle belve feroci? Ogni giorno, molti sacerdoti fedeli operano come pastori attenti, come padri ricolmi di dolcezza, come guide ferme. Alcuni uomini di Dio, però, sono diventati degli agenti del Maligno. Hanno cercato di profanare le anime pure dei più piccoli. Hanno umiliato l’immagine di Cristo inscritta in ogni bambino.
I sacerdoti di tutto il mondo si sono sentiti umiliati e traditi da tanti abominî. Alla sequela di Gesù la Chiesa vive il mistero della flagellazione. Il suo corpo è lacerato. Chi sferra i colpi? Gli stessi che dovrebbero amarla e proteggerla! Sì, mi permetto di prendere in prestito le parole di papa Francesco: il mistero di Giuda incombe sulla nostra epoca. Il mistero del tradimento trasuda dai muri della Chiesa. Gli abusi sui minori lo rivelano nel modo più abominevole.
Dobbiamo, però, avere il coraggio di guardare in faccia il nostro peccato: questo tradimento è stato preparato e provocato da molti altri tradimenti, meno visibili, più sottili, ma anche più profondi. Da molto tempo stiamo vivendo il mistero di Giuda. Ciò che appare ormai in piena luce ha cause profonde che bisogna avere il coraggio di denunciare con chiarezza. La crisi che vivono il clero, la Chiesa e il mondo è radicalmente una crisi spirituale, una crisi della fede. Viviamo il mistero d’iniquità, il mistero del tradimento, il mistero di Giuda.
Permettetemi di meditare con voi sulla figura di Giuda. Come tutti gli apostoli lo aveva chiamato Gesù. Egli lo amava! Lo aveva inviato ad annunciare la Buona Novella. Ma a poco a poco il dubbio si è impadronito del suo cuore. Senza rendersene conto, ha iniziato a giudicare l’insegnamento di Gesù. Si è detto: questo Gesù è troppo esigente, poco efficace. Giuda ha preteso di realizzare il Regno di Dio sulla terra, all’istante, con strumenti umani e secondo il proprio personale disegno.
Eppure, aveva udito Gesù rivolgersi anche a lui in questi termini: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Nonostante tutto, Giuda si è allontanato. Non ha più voluto ascoltare Cristo. Non lo ha più accompagnato in quelle lunghe notti di silenzio e preghiera. Si è rifugiato nelle preoccupazioni mondane. Si è occupato della borsa, del denaro e del commercio. L’impostore continuava a seguire Cristo, ma non gli credeva più. Mormorava. La sera del Giovedì Santo, il Maestro gli ha lavato i piedi. Il suo cuore doveva essere così indurito da non lasciarsi toccare. Il Signore era davanti a lui, in ginocchio, come un umile servo che lava i piedi a colui che poi l’avrebbe tradito. Gesù ha posato su di lui un’ultima volta il suo sguardo pieno di dolcezza e di misericordia. Ma il diavolo si era già introdotto nel cuore di Giuda. Egli non ha abbassato lo sguardo. Avrà pronunciato interiormente l’antica espressione di rivolta: non serviam, «non servirò». Durante la Cena si è comunicato quando ormai il suo progetto era già compiuto. Fu la prima comunione sacrilega della storia. E ha tradito.
Giuda è per l’eternità il nome del traditore e oggi la sua ombra incombe su di noi. Sì, come lui, anche noi abbiamo tradito! Abbiamo abbandonato la preghiera. Il male di un efficiente attivismo si è infiltrato dappertutto. Cerchiamo di imitare l’organizzazione delle grandi imprese. Ma dimentichiamo che solo la preghiera è il sangue che può irrorare il cuore della Chiesa. Diciamo di non avere tempo da perdere. Vogliamo utilizzare questo tempo per opere socialmente utili. Chi non prega più, però, ha già tradito. È ormai disposto a ogni compromesso con il mondo. Si è avviato sulla strada di Giuda.
Sopportiamo ogni contestazione. La dottrina cattolica viene messa in dubbio. In nome di sedicenti posizioni intellettuali certi teologi si divertono a decostruire i dogmi, a svuotare la morale del suo significato profondo. Il relativismo è la maschera di Giuda travestito da intellettuale. Come meravigliarsi se poi veniamo a sapere che tanti sacerdoti infrangono le loro promesse? Relativizziamo il senso del celibato, rivendichiamo il diritto a una vita privata, tutte cose in contrasto con la missione del sacerdote. Alcuni arrivano persino a rivendicare il diritto di esercitare comportamenti omosessuali. Tra i sacerdoti e tra i vescovi si susseguono scandali.
Il mistero di Giuda si dilata. A tutti i sacerdoti voglio dire: siate forti e retti. Certo, per colpa di qualche ministro sarete tutti etichettati come omosessuali. La Chiesa Cattolica verrà infangata. Sarà presentata come composta tutta da preti ipocriti e avidi di potere. Non sia turbato il vostro cuore. Il Venerdì Santo, Gesù si è caricato di tutti i peccati del mondo, mentre Gerusalemme gridava: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Nonostante le inchieste tendenziose che vi presentano la situazione disastrosa di ecclesiastici irresponsabili dall’anemica vita interiore, che sono posti addirittura al comando della Chiesa, siate sereni e fiduciosi come la Vergine e san Giovanni ai piedi della Croce. I sacerdoti, i vescovi e i cardinali privi di morale non riusciranno mai a screditare la luminosa testimonianza di più di quattrocentomila sacerdoti sparsi per il mondo, che, con quotidiana fedeltà, servono il Signore in santità e letizia. Nonostante la violenza degli attacchi che potrà subire, la Chiesa non verrà meno. È la promessa del Signore, e la Sua parola è infallibile.
I cristiani tremano, vacillano, dubitano. Per essi ho voluto questo libro. Per dire loro: non dubitate! Rimanete saldi nella dottrina! Nella preghiera! Ho voluto questo libro per confortare i cristiani e i sacerdoti fedeli.
Il mistero di Giuda, il mistero del tradimento, è un veleno subdolo. Il diavolo cerca di farci dubitare della Chiesa. Vuole che la guardiamo come un’organizzazione umana in crisi. Ma essa è molto più di questo: è il prolungamento di Cristo. Il diavolo ci invita alla divisione e allo scisma. Vuole farci credere che la Chiesa abbia tradito. Ma la Chiesa non tradisce. La Chiesa, piena di peccatori, è senza peccato! In essa ci sarà sempre abbastanza luce per quanti ricercano Dio. Non abbandonatevi all’odio, alla divisione, alla manipolazione. Non si tratta di creare un partito, di insorgere gli uni contro gli altri: «Il Maestro ci ha messo in guardia contro tali pericoli per rassicurare il popolo anche nei confronti dei cattivi pastori: perché a causa loro non si abbandonasse la Chiesa, cattedra della verità […]. Non perdiamoci, dunque, nel male della divisione, a causa di coloro che sono malvagi», diceva già sant’Agostino (Lettera 105).
La Chiesa soffre, è calpestata e i suoi nemici sono al suo interno. Non abbandoniamola. Tutti i pastori sono uomini peccatori, ma essi portano in sé il mistero di Cristo. Che cosa dobbiamo fare, dunque? Non si tratta di organizzarsi e di elaborare strategie. Come si può pensare di migliorare noi le cose? Ciò significherebbe ripiombare ancora nell’illusione mortifera di Giuda.
Di fronte all’aumento dei peccati tra le fila della Chiesa siamo tentati di prendere in mano la situazione. Siamo tentati di purificare la Chiesa con le nostre forze. Sarebbe un errore. Che cosa potremmo fare? Un partito? Un movimento? Questa è la tentazione più grave: gli orpelli della divisione. Con il pretesto di fare il bene, ci si divide, ci si critica, ci si combatte. E il demonio ridacchia. È riuscito a far cadere i buoni, presentandosi sotto le mentite spoglie del bene. La Chiesa non può essere riformata con l’odio e la divisione.
La Chiesa si riforma incominciando a cambiare noi stessi! Non esitiamo, ciascuno secondo le proprie possibilità, a denunciare il peccato, a partire dal nostro. Tremo all’idea che la tunica inconsutile di Cristo corra di nuovo il rischio di essere lacerata. Gesù ha sofferto prevedendo le divisioni tra i cristiani. Noi lo crocifiggiamo un’altra volta! Il suo cuore ci supplica: ha sete di unità! Il diavolo ha paura di essere chiamato per nome. Egli ama ammantarsi della nebbia dell’ambiguità. Parliamo con chiarezza. «Nominare male le cose vuol dire accrescere l’infelicità del mondo», diceva Albert Camus.
In questo libro non esiterò a fare uso di un linguaggio fermo. Con l’aiuto dello scrittore e saggista Nicolas Diat, senza il quale ben poco sarebbe stato possibile, e che fin dalla stesura di “Dio o niente” ha sempre mostrato una fedeltà senza cedimenti, voglio ispirarmi alla parola di Dio che è come una spada a doppio taglio. Non dobbiamo aver paura di affermare che la Chiesa ha bisogno di una profonda riforma e che questa passa dalla nostra conversione.
Perdonatemi se alcune mie parole vi scandalizzeranno. Non voglio anestetizzarvi con propositi rassicuranti e ingannevoli. Non vado in cerca di successo o di popolarità. Questo libro è il grido della mia anima! È un grido d’amore per Dio e per i miei confratelli. A voi cristiani devo l’unica verità che salva. La Chiesa muore perché i pastori hanno paura di parlare con verità e chiarezza. Abbiamo paura dei media, dell’opinione pubblica, dei nostri confratelli! Ma il buon pastore dona la vita per le sue pecore.
Oggi, in queste pagine, vi offro il cuore della mia vita: la fede in Dio. Tra non molto sarò chiamato al cospetto del Giudice Eterno. Se non vi trasmetto la verità che ho ricevuto, che cosa gli dirò? Noi vescovi dovremmo tremare al pensiero dei nostri silenzi colpevoli, dei nostri silenzi conniventi, dei nostri silenzi condiscendenti con il mondo.
Spesso mi viene chiesto: che cosa dobbiamo fare? Quando la divisione incalza bisogna rafforzare l’unità. Essa non ha niente a che vedere con lo spirito corporativo di cui è pieno il mondo. L’unità della Chiesa ha la propria sorgente nel cuore di Gesù Cristo. Dobbiamo restargli vicino, dobbiamo rimanere in Lui. Il suo cuore, che è stato squarciato dalla lancia perché potessimo trovarvi rifugio, sarà la nostra casa.
* Prefetto della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti
Ospite de La Nuova Bussola Quotidiana, il cardinale Sarah presenterà il suo libro a Milano il prossimo 9 novembre, alle ore 16.30, presso la Casa cardinale Schuster, in via Sant’Antonio 5.

sexta-feira, 4 de outubro de 2019

D. Barsotti, La vita in Cristo.

Riprendiamo sul nostro sito alcuni appunti di Andrea Lonardo su D. Barsotti, La vita in Cristo. I sacramenti dell’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1983. Sulla confermazione vedi su questo stesso sito la sezione Catechesi e pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (28/9/2011)
Se il battesimo, come fondamento e inizio della vita cristiana, ha rapporto con la fede, la confermazione, come sacramento del progresso, ha rapporto con la virtù della speranza.
Così Divo Barsotti presenta lo specifico della confermazione, in una riflessione dedicata ai tre sacramenti dell’iniziazione cristiana[1]. Egli vede il battesimo come sacramento della fede, sacramento che necessita però di una grazia che fa poi maturare[2]:
Se per la fede viviamo la conoscenza del Padre, non come adesione ad un concetto, ma come adesione alla realtà stessa del mistero, il battesimo è quello che ce ne dà il potere. In potenza il battesimo è già tutta la vita cristiana, ma solo in potenza, sia perché rimangono le conseguenze del peccato, sia perché l'uomo stesso non può usare delle proprie potenze che attraverso una certa maturazione umana, sia perché l'esercizio delle stesse potenze umane esige continuamente la grazia che le renda capaci di divenire sempre più lo strumento dello Spirito. Di qui ne deriva che non possiamo separare il sacramento del battesimo dal sacramento della confermazione.
La nascita è l'inizio della vita, ma alla nascita segue tutto il processo della vita. Questo processo rende le potenze capaci dell'atto proprio della loro natura.
Il cristiano che mediante il battesimo si è inserito nel Cristo ed è uno con Lui, deve vivere la sua medesima vita: lo può in dipendenza dal sacramento della confermazione che è ordinato al cammino del cristiano verso la perfezione della sua vita. Se il battesimo, come fondamento e inizio della vita cristiana, ha rapporto con la fede, la confermazione, come sacramento del progresso, ha rapporto con la virtù della speranza.

La cresima è così – afferma Barsotti - il sacramento dei perfetti, perché spinge verso la perfezione[3]:
Nel battesimo noi riceviamo lo Spirito Santo, lo riceviamo anche nella confermazione, ma nel battesimo noi dobbiamo soprattutto riconoscere il dono ipostatico dello Spirito Santo, mentre nella confermazione dobbiamo soprattutto rilevare come lo Spirito Santo operi nell'uomo attraverso i suoi doni. Il dono dello Spirito è essenziale al battesimo che ci fa partecipi della natura divina e ci inserisce nel Cristo, quasi continuando l'incarnazione del Verbo; ma quando il cristiano diviene capace di vivere nella perfezione della sua natura umana, allora si impone che lo Spirito Santo operi nelle potenze spirituali dell'uomo abilitandolo ad agire in un modo nuovo, più alto di quello puramente umano, e conforme alla sua dignità di Figlio di Dio.
I doni dello Spirito sono l'effetto di questa presenza efficace dello Spirito sulle potenze dell'uomo. L'azione dello Spirito potenzia l'intelligenza e la rende capace di penetrare i misteri di Dio, di contemplare la Verità in una sua quasi connaturalità con l'intelligenza divina, potenzia la volontà e la rende ferma nel bene, forte nell'intraprendere e fedele nel proseguire un cammino che diviene sempre più umanamente impervio. Lo Spirito Santo di fatto, mediante i suoi doni, interviene nelle nostre potenze per farci vivere una vita che tenda sempre più a trascendere le possibilità umane, a farci vivere concretamente la vita del Cristo. Per questo la confermazione si dice il sacramento dei perfetti. Non certo perché una volta che abbiamo ricevuto questo sacramento siamo perfetti, ma perché dà a noi la possibilità di tendere alla perfezione cristiana.

La speranza è decisiva nella vita del cristiano: la confermazione, confermando nella speranza, permette che il desiderio dell’uomo non si muti in disperazione[4]:
Il battesimo è il sacramento della fede, la confermazione il sacramento della speranza. La speranza è tra le virtù teologali quella che dice il dinamismo della vita cristiana.
La fede è il fondamento, la carità è il compimento; ma il cammino che ci porta dall'inizio alla fine è la speranza. Per questo la confermazione è il sacramento della speranza, perché è quel sacramento che, mediante i doni dello Spirito Santo, fa si che l'anima possa ascendere verso la perfezione
.
Col battesimo Dio trasforma la nostra natura umana per renderla atta alla vita divina. Con la confermazione Dio vive in noi per farci crescere e per farci operare conformemente alla nostra dignità di figli: è il sacramento che realizza il passaggio dalla pubertà all'età adulta, ci fa perfetti cristiani. Nella docilità allo Spirito Santo noi viviamo il cammino che ci conduce alla perfezione cristiana.
Certo, la speranza suppone il desiderio. L'uomo è desiderio di Dio; ma questo desiderio ci condannerebbe soltanto all'inferno, se non venisse trasformato in una viva speranza. Nel desiderio piuttosto l'uomo è capace di Dio e l'uomo accoglie Dio e Dio vive nell'uomo, quando il desiderio diviene in lui una speranza viva.

Il desiderio di Dio per l'uomo che vive quaggiù, può di fatto trasformarsi nel desiderio delle innumerevoli cose che la vita presente può offrirgli
; siccome l'uomo vive quaggiù nel tempo, basta una qualunque creatura a riempire volta per volta l'attimo che egli vive. Così l'uomo passa di cosa in cosa senza trovare riposo, e tuttavia senza mai poter esaurire la sua possibilità di sfuggire a Dio.
Ma quando ogni creatura gli mancherà, ed egli vivrà fuori del tempo la pura durata di un'eternità senza fine, allora il desiderio di Dio, che è eterno, lo consumerà eternamente.
Sì, proprio il desiderio di Dio fa l'inferno. Se i dannati potessero non desiderare Dio, se non sentissero il vuoto di non possederlo, l'inferno non sarebbe più inferno: la pena del dannato è la privazione di Dio. Ora l'uomo non sente la sua privazione, ma quando gli mancheranno tutte le cose che nella vita presente sostituiscono Dio, e vivrà soltanto il vuoto, e Dio gli sarà per sempre inaccessibile, allora sarà l'inferno. L'inferno è il vuoto di Dio, ma in un desiderio terribile ed eternamente vano e inefficace di bellezza, di verità, di gioia, in una inestinguibile sete di vita.

Lo Spirito Santo coi suoi doni trasforma il desiderio, per sé inefficace, in una speranza viva
, dà all'uomo la certezza di conseguire quello che lo Spirito Santo ha acceso in noi come desiderio infinito di Sé.
In questo vi è una qualche proporzione fra Dio e l'uomo, dal momento che l'uomo ha solo in Dio il suo riposo: che, come Dio è infinito nell'atto, così l'uomo è infinito nel desiderio. Così ha scritto santa Caterina da Siena.

Simeone il Nuovo Teologo insegna che lo Spirito Santo, Egli stesso, è in noi il nostro desiderio
. Di fatto solo Dio è infinito, per questo è Lui che vive in noi con esigenza infinita di perfezione, di vita, di bellezza, di gioia. Ed è precisamente lo Spirito che nel desiderio ci solleva sempre più, senza fine, a Colui che è l'Infinito.
Di qui la vicenda della vita cristiana, il suo dinamismo
. Se Dio è amore che si dona, Dio diviene nell'uomo amore di desiderio che aspira, anzi lo incalza con violenza, con furore, e lo brucia e lo consuma. Dio è davvero Fuoco divorante come è scritto nel Deuteronomio (4,24) e ripete la Lettera agli Ebrei (12,29).
Questo desiderio di Dio nella vita presente, spesso è soffocato, anche perché Dio appare all'uomo irraggiungibile. E l'uomo si contenta di molto poco, e gli sembra così di essere più modesto nelle sue aspirazioni. L'ostacolo più grande alla vita spirituale è la mancanza della speranza.

Barsotti riflette allora sul fatto che è la confermazione a far passare il dono della vita cristiana dalla “potenza” all’“atto”[5]:
Questa è l'opera dei doni, questa è la grazia del sacramento che Gesù Cristo ha dato alla Chiesa, perché quello che il battesimo era in potenza, dovesse passare all'atto in una vita cristiana sempre più perfetta.
«O Speranza, quanto sei grande! Tanto ottieni, quanto speri ». La, speranza cristiana già di fatto, non solo si appoggia sulla promessa di Dio, ma è l'espressione stessa della promessa e l'anima la vive nella certezza del suo compimento. Mentre così il desiderio solo è sofferenza e tormento, la spe­ranza al contrario è già la gioia anticipata del possesso, perché Dio non delude.
«O Speranza, quanto sei grande! Tanto ottieni, quanto speri». La speranza dilata l'anima, rende efficace il desiderio e fa capace l'anima di conseguire il suo fine che è Dio.

Quando non è il desiderio di Dio che vive nel cuore dell’uomo, o l'uomo si contenta di una vita tranquilla
, che non dia noia ad alcuno e non voglia noia da alcuno: o l'anima si chiude, si rattrappisce in se stessa, e la vita diviene sempre più povera; o, abbandonandosi sempre più alle passioni che alimentano l'egoismo, l'uomo vive sempre più una vita di insaziabile sete di godimenti e di potere e non ha pace. É sempre dunque per l’uomo un assaporare la morte.
La legge del cristiano si esprime nel Vangelo con parole terribili: «Siate perfetti com'è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt. 5,48; Lc. 6,36). Queste parole potrebbero essere per tutti motivo di condanna, se lo Spirito Santo non vivesse nell'uomo. La legge è l'amore e l'amore è insaziabile. Dice il libro dei Proverbi: «Il fuoco non dice mai basta» (Pr. 30,16). Se un'anima ama, non può contentarsi di quello che fa, di quello che è. Lo Spirito Santo, pur trasformando il desiderio nella speranza, non può mai saziare il cuore dell'uomo, perché quanto più Egli si dona e vive nel cuore dell'uomo, tanto più diviene insaziabile il desiderio, ché mai l'uomo potrebbe adeguarsi a Dio.

L'uomo possiede pace e gioia nella speranza, ma, come Dio è infinito
, così la presenza segreta di Dio dilata sempre più il cuore dell'uomo in una voce senza fine, quasi volendolo proporzionare a Sé infinito.
Dio trascenderà sempre la creatura, tuttavia dall'azione dei doni dello Spirito Santo l'anima riceverà una forza sempre nuova per tendere sempre in avanti. Vi è così nel cristiano una inquietudine sacra, pur nella pace, una insoddisfazione di sé e tuttavia un sentimento di plenitudine che è segno della presenza in lui dello Spirito Santo. Dio che vive nell'uomo, chiede all'uomo Se stesso infinito.

La cresima – afferma Barsotti – non deve essere presentata primariamente come il sacramento dell’apostolato, perché questa non è la sua prima caratteristica[6]:
Oggi si insiste sulla confermazione soprattutto come il sacramento dell'apostolato. È anche questo, ma non è esclusivamente questo, né, prima di tutto, questo. La confermazione assicura l'aiuto divino per un cammino di santità e la santità cristiana non ci unisce a Dio senza unirci agli uomini, ma non ci unisce agli uomini senza unirci prima di tutto a Dio.
La confermazione, mettendo in azione i doni per la «transumanizzazione» della nostra vita, rende prima di tutto possibile all’uomo la perfetta carità. Questa carità è espressione dell’azione dello Spirito che fa di te lo strumento della sua medesima vita. [...]

Lo Spirito rende l’uomo correlativo, poiché lo Spirito è l’unità del Padre e del Figlio[7]:
Così scriveva di sé santa Teresa di Gesù:  «Vivo in tale dimenticanza di me stessa, da non  ricordarmi più nemmeno di esistere».
Non è forse vero che un fidanzato, quando è innamorato davvero, perde la testa, si dimentica di sé, non pensa che alla persona che ama?
 Così noi. L'amore di Dio dovrebbe portarci totalmente fuori di noi stessi, la nostra vita dovrebbe essere necessariamente un'estasi per vivere in Dio. Non parlo dell'estasi come fenomeno psicologico che suppone la sospensione delle potenze; intendo un uscire di sé per essere, per vivere in Dio. La vita dell’amore è sempre estasi, perché chi ama, vive nell'amato più che in sé stesso.
Noi siamo figli solo se viviamo nel Padre. Canta l'inno delle Lodi In Patre totus Filius/et totus in Verbo Pater: il Figlio è totalmente nel Padre, il Padre è totalmente nel Figlio. In sé ogni Persona divina non è, è nell'altra Persona correlativa. Nella vita cristiana ogni uomo così è rapito dallo Spirito e, nel Figlio, esce di sé per vivere unicamente in Dio.
Solo lo Spirito Santo può farci vivere questa estasi che non solo ci strappa alle nostre radici, ma ci solleva in una ascensione che ha per termine, al di là di tutti i cieli, il seno stesso del Padre. Lo Spirito Santo è l'unità del Padre e del Figlio, l'Amore personale per il quale il Figlio vive totalmente nel Padre e il Padre totalmente nel Figlio; ed è questo Spirito che solleva anche noi e ci trasferisce in Dio.
Il Cristo ha dato alla Chiesa il sacramento della confermazione, perché lo Spirito Santo divenisse nel cristiano la causa quasi formale della sua santificazione, quasi anima della sua anima, come ha detto sant'Agostino. Con questo però dobbiamo anche dire: la vita cristiana non è in opposizione alla natura. Lo Spirito ci solleva, è vero, oltre noi stessi, ma l'azione dello Spirito non va contro la natura, non la mortifica, prolunga e continua piuttosto la sua azione. 

Perché sia possibile vivere da figli, lo Spirito mostra che scegliere Dio vuol dire ricevere tutto[8]:
Può esser rinunzia, per un'anima che lo conosce, scegliere Dio? L'azione dello Spirito prima di tutto illumina l'uomo perché egli possa conoscerlo; cosi, invece di compiere una rinunzia, l'anima che sceglie Dio, in realtà sceglie tutto. Gli stessi beni creati non sono un'alternativa a Dio, che è il loro Creatore. Solo l'uomo può opporre questi beni a Dio, quando la loro scelta è rifiuto a Dio, volontà di sottrarsi al Signore.
Sarebbe un grave disordine se noi volessimo fare di Dio un mezzo in ordine alla vita presente; al contrario, se l'uomo si ordina a Dio come a suo vero, ultimo Bene, ogni creatura in tanto ha un valore per lui, in quanto è un mezzo che gli rende più facile il cammino verso il Signore.            

Opera dello Spirito è dare la forza di vivere i comandamenti del Padre, cioè vivere della sua stessa vita[9]:
Nell'Antico Testamento Dio dona a Israele i comandamenti, ma i comandamenti sono negativi. Nel Nuovo Testamento questa negatività è superata infinitamente e tutti i comandamenti divini si sintetizzano nell'ultima parola del Sermone della montagna, che corrisponde al dono della Legge nell'Esodo. La parola è terribile perché esprime una esigenza che nessuno potrà mai soddisfare: «Siate perfetti com'è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt. 5,48; Lc. 6,36).Tuttavia Dio non poteva darci un'altra legge, perché, se sia­mo figli, il figlio deve vivere la vita stessa del Padre. La perfezione dell'uomo consisterà nel tendere a una perfezione che sarà sempre, per sé, irraggiungibile, ma proprio per questo ci chiede ed esige che l'uomo rimanga in cammino. La mèta è irraggiungibile e tuttavia dobbiamo tendervi sempre! La vita non sarà che un cammino, un'ascesa. Non la Salita del Monte Carmelo, ma l'ascensione stessa del Cristo al seno del Padre.
Infine – e solo infine – la confermazione è anche sacramento che dona la forza della testimonianza, rendendo il cresimato capace di sostenere la prova che non mancherà e a cui deve essere preparato anche attraverso la catechesi, venendo istruito sul male e sulla duplice possibilità che lo attende, quella di seguire il Signore o di militare per altri signori[10]:
Una spiritualità che dipenda dal sacramento della confermazione, è una spiritualità che nello stesso tempo deve considerare la possibilità, ma anche deve dare al cristiano la grazia per un ideale contemplativo di trasformazione in Dio, e nello stesso tempo deve spingere il cristiano al servizio degli uomini, deve alimentare in lui la passione dell'apostolato per la loro salvezza.
Come la confermazione ci fa perfetti cristiani?
La confermazione è, nella religione cristiana, quello che è l'iniziazione dei ragazzi nelle religioni pagane. Nelle popolazioni primitive il bambino non diviene uomo con le attribuzioni e le responsabilità di coloro che fanno parte della tribù, se non attraverso una iniziazione. L'iniziazione spesso è penosa, perché l'uomo deve manifestarsi forte per essere uomo. Non è più un figlio di famiglia, deve essere un guerriero sempre pronto a difendere e proteggere la tribù.
L'uomo non diviene maturo per assumere responsabilità nella società di cui fa parte, senza esser sottoposto a prove dolorose che possano rivelare la sua forza fisica e morale; così il sacramento della confermazione viene conferito al cristiano per farlo forte nelle prove della vita. La vita cristiana continua di fatto il combattimento contro le potenze che fu proprio del Cristo; ed il cristiano vince, come Gesù, affrontando il male del mondo, ma subendo soprattutto la sua offesa nell'amore. Cristiano adulto è colui che, confermato, diviene così soldato di Gesù Cristo.
La spiritualità della Compagnia di Gesù, che sembra avere nella meditazione del Regno e dei due Stendardi il testo che più di ogni altro l'esprime, è così in modo privilegiato la spiritualità di questo sacramento. Il confermato non solo non evade dal mondo, ma, in forza di questo sacramento, riceve una missione per il mondo. Risponde a questo sacramento, nella vita di Gesù, il suo battesimo che inaugurava la sua vita pubblica.
La “testimonianza” – prosegue Barsotti – è tipica di chi “ha visto”. Solo l’“aver visto” rende credibile la testimonianza del cresimato[11]:
La testimonianza cristiana è come la luce della luna: la luna sta in faccia al sole e manda a noi, riflessa, la luce del sole. Noi che viviamo nella divina Presenza, diveniamo come uno specchio che rifrange la luce di Dio. Gli uomini vedono questa luce; non vedono direttamente Dio, ma vedono Dio attraverso l'uomo. È quello che diceva un avvocato che andò ad Ars; era un ateo, e quando ritornò a Parigi, i suoi amici, per ridere alle spalle del Curato, gli chiesero: «E allora, che cosa hai veduto ad Ars?» . E l'avvocato che al vedere il Curato si era convertito, dette questa risposta: «Ho visto Dio in un uomo».
Questo dovrebbero dire tutte le persone che ci avvicinano. Ma spesso la nostra testimonianza non è accettata, perché parliamo di cose che non abbiamo visto e la nostra testimonianza non è verace. Per essere verace bisogna che traspiri la verità e questa traspira, se abbiamo avuta una esperienza reale di quello che diciamo, perché se no, le nostre sono parole e rimangono parole. 

Barsotti sottolinea poi l’importanza della vita laicale - prima che di uno specifico servizio: essa è resa possibile dalla confermazione e la caratterizza[12]:
Il cristiano non ha bisogno di compiere una attività specificamente diversa da quella cui è chiamato in forza del suo stato e della sua professione per esercitare questo suo sacerdozio, dal momento che il carattere del battesimo e della confermazione, trasformando la sua stessa natura, fanno della sua umanità lo strumento delle operazioni di Gesù Sacerdote, a una certa imitazione di come l'umanità di Gesù fu strumento della sua Divinità per la redenzione e la salvezza degli uomini. [...] In questo è la grandezza del laicato cristiano, in questo soprattutto si esprime la spiritualità della confermazione. Ogni cristiano vivendo nel mondo ha un suo lavoro da compiere.
L'universo deve tornare ad essere pura epifania di Dio, non più schiavo del male, ma regno del Cristo. Ed è il cristiano che deve redimere il mondo perché divenga «Regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace». Questa missione esige prima di tutto il senso del peccato che domina il mondo. Non potremo certo combattere il male se non lo conosciamo e non potremo vincerlo senza la forza di Dio.
Il mondo di oggi è organizzato completamente contro Dio. Noi ci troviamo di fronte a un fenomeno unico della storia della umanità: è la manifestazione più alta della vita associata che è la polis, la nazione che si afferma con la finalità di respingere Dio, di andare contro Dio, di negarlo.
Come il cristiano vivrà questa esperienza terribile? Come il cristiano vivrà il suo impegno di consacrare il mondo a Dio, quando questo mondo sembra scivolare sempre più nel male e precipitare nell'inferno? In molte nazioni si è legalizzato il delitto con l'aborto, ci si è valsi del potere per opprimere, calpestare ogni diritto. Ovunque la violenza, la sopraffazione, la tortura, la morte. Che cosa farà il cristiano?
Il sacramento della confermazione a questo, ci chiama: dobbiamo assumere tutto il peso del mondo sentirci impegnati per la salvezza di tutti, di ogni anima. Non abbiamo altra forza che l'amore e il sacrificio.
Per lo Spirito Santo il Cristo offri Se stesso a Dio e il suo sacrificio fu la salvezza del mondo. La vita della Chiesa non è che il sacrificio del Cristo che continua nel tempo e si dilata cosi da divenire l'atto di ogni anima che si offre a Dio per le stesse intenzioni per le quali si è offerto Gesù. Che altro potremmo fare? Ma vi può essere un atto che meglio esprima nel dono di tutta la vita la perfezione dell'amore?

Se Barsotti sottolinea che il battesimo è il sacramento della fede e la confermazione quello della speranza, ecco che per lui l’eucarestia è, per eccellenza, il sacramento della carità, della comunione con Dio[13]:
L'esercizio delle virtù teologali dipende dai tre sacramenti della iniziazione che tutti i cristiani ricevono: il battesimo, la confermazione e l'Eucaristia.Se il battesimo è il sacramento della fede e la confermazione è della speranza, l'Eucaristia è il sacramento della carità. La fede è il fondamento. Nessuno che non abbia ricevuto il battesimo, può ricevere gli altri sacramenti. La confermazione è il sacramento della crescita e l'Eucaristia il sacramento della perfezione.
È importante vedere la differenza fra questi sacramenti. Tuttavia non è cosi netta la differenza. Meditando sui singoli sacramenti più volte ci è sembrato di ripeterci. Di ftto se il battesimo è la nascita del cristiano e con questo sacramento egli riceve la vita, non è sufficiente vivere per crescere e giungere all'età matura? Se d'altra parte la confermazione è il sacramento che ci dà il potere di raggiungere la perfezione dell’essere cristiano, perché abbiamo detto che è l'Eucaristia il. sacramento della perfezione?

Possiamo dire: il battesimo ci fa cristiani, ma non ci dà di vivere la vita perfetta. Quanto più una natura è nobile, tanto più ha bisogno di tempo per realizzare la ricchezza delle sue possibilità. Lungo e faticoso è il cammino che porta il bambino a realizzarsi come uomo perfetto. Con la confermazione il cristiano si trova nella condizione di poter usare e di poter vivere secondo l'organismo spirituale di cui l'aveva già dotato il battesimo. La confermazione è il sacramento dei cristiani perfetti, in quanto perciò dà all'anima la possibilità di tendere alla perfezione nella docilità all'azione dello Spirito.
Il sacramento eucaristico è il sacramento della perfezione perché prima di tutto è il cibo che corrobora e nutre, ma è soprattutto il sacramento della perfezione perché vivere pienamente il suo mistero vuol dire per l'anima realizzare la sua unione nuziale col Cristo. Inseriti nel Cristo già col battesimo, siamo uno con Lui, ma la grazia dell'Eucaristia porta a compimento, nella distinzione delle persone, questa unità del Corpo nella unità della volontà e dell'amore.
Di fatto un nostro inserimento nel Cristo non elimina la volontà propria, anzi, se il battesimo vien conferito a un bambino, quanto più egli cresce e diviene uomo, tanto più in lui si manifesta la dualità del volere: la volontà propria e naturale subisce le conseguenze del peccato nell'inclinazione al male, sì che nasce una tensione interiore fra questa volontà e la volontà del Cristo che ha assunto la sua natura.
La spiritualità cristiana ci ha sempre insegnato che sussiste nel battezzato l'uomo vecchio pur nella presenza dell'uomo nuovo. L'ascesi del cristiano deve essere la mortificazione dell'uomo vecchio, finché non viva in lui che l'uomo nuovo, che è Cristo. L'uomo dev’essere uno, ma lo può soltanto se si lascia sempre più possedere dal Cristo, finché in lui non viva più che il Cristo solo. Proprio per questo sembra che la vita cristiana debba terminare necessariamente nella morte, quando, deposto finalmente il nostro corpo corruttibile, noi sussisteremo nel Cristo risorto, che è la nuova Terra e il nuovo Cielo che ci sono stati promessi. Proprio per questo, se la confermazione ci abilita al combattimento contro le potenze, perché tutto l'uomo debba sempre più essere posseduto dallo Spirito del Cristo, il sacramento eucaristico realizza, nel rapporto nuziale di Cristo con l'anima sposa, l'unità perfetta del Corpo e l'unità dell'amore. Cosi l'unità potenziale del battesimo, attraverso la confermazione, per la grazia propria del sacramento eucaristico, si realizza nell'unità perfetta del Corpo, salvando eternamente la distinzione delle persone che rimangono ordinate vicendevolmente l'una all'altra nel rapporto di un amore nuziale che è l'alleanza.

Note al testo

[1] D. Barsotti, La vita in Cristo. I sacramenti dell’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1983, p. 85.
[2] D. Barsotti, La vita in Cristo. I sacramenti dell’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1983, p. 85.
[3] D. Barsotti, La vita in Cristo. I sacramenti dell’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1983, pp. 86-87.
[4] D. Barsotti, La vita in Cristo. I sacramenti dell’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1983, pp. 96-98.
[5] D. Barsotti, La vita in Cristo. I sacramenti dell’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1983, pp. 99-100.
[6] D. Barsotti, La vita in Cristo. I sacramenti dell’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1983, pp. 102-103.
[7] D. Barsotti, La vita in Cristo. I sacramenti dell’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1983, pp. 105-106.
[8] D. Barsotti, La vita in Cristo. I sacramenti dell’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1983, p. 106.
[9] D. Barsotti, La vita in Cristo. I sacramenti dell’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1983, p. 111.
[10] D. Barsotti, La vita in Cristo. I sacramenti dell’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1983, pp. 116-117.
[11] D. Barsotti, La vita in Cristo. I sacramenti dell’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1983, pp. 117-118.
[12] D. Barsotti, La vita in Cristo. I sacramenti dell’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1983, pp. 119; 120-121.
[13] D. Barsotti, La vita in Cristo. I sacramenti dell’iniziazione, Morcelliana, Brescia, 1983, pp. 125-127.

Altra cosa è la sincerità, altra cosa è la verità da Gesù e la Samaritana di Divo Barsotti

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Nostro Signore risponde alla donna che gli dice «dammi da bere» trasportando la donna su un altro piano, non sul piano del bisogno che ha l'anima sua, non sul piano del dialogo che finora si era svolto, non sul pia­no di un rapporto fra loro: «Va', chiama tuo marito».

Perché tutto questo? Mie care figliuole, mi sembra che sia evidente il perché. Noi non vogliamo eludere i problemi quando ci avviciniamo a Dio, quando in pura sincerità ci abbandoniamo al suo cuore. Eppure il nostro abbandono non è che non sia sincero, ma è ancora troppo ingenuo e per­ciò, non sul piano della sincerità ma sul piano della verità, non si può dire ancora perfetto. C'è differenza fra sincerità e verità? Certo. La sincerità riguarda la coscienza di chi parla, la verità riguarda l'essere in sé.

Io posso non vivere un vero abbandono anche se nel mio abbandono sono sincero, quando ci sono delle riserve che io non conosco ancora, di cui non sono consapevole, di cui non sono cosciente. La donna credeva di essersi abbandonata al Cristo, ma non aveva pensato ancora che questo abbandono a Gesù voleva dire per lei un rinnovamento della sua vita nel suo rapporto con gli altri, voleva dire per lei un abbandona­re certe cose che in quel momento ella non ricordava ma c'e­rano nella sua vita e impedivano il vero abbandono. L'ab­bandono era sincero, ma non era vero. Poteva non ricordar­si di quell'uomo che l'aspettava a casa, ma c'era. E il Signo­re lo sapeva. Così fa il Signore anche con noi. Tu ti abban­doni tranquillamente a Lui e Lui sembra rifiutarti. Quante volte nella nostra vita spirituale ci sembra che il Signore non ci ascolti! Noi siamo sinceri, gli apriamo - almeno a noi sem­bra - tutto il cuore. Eppure Egli rimane in silenzio, Egli non si dona, non ci dona quest'acqua che gli chiediamo. Quante volte tu hai fatto questo atto di abbandono a Dio, aspettan­doti da un momento all'altro, non so, l'estasi, la contempla­zione infusa... macché, come prima, vuoto, silenzio, aridità. Dio non risponde, ma non mi ha portato qui per donarmi questa contemplazione? per mettermi in questa intimità con Lui? per stabilire fra me e Lui questa unità dell'amore? Ebbene, io sono sincera nel donarmi a Dio! Nostro Signore non mette in dubbio la tua sincerità, ma dice: «Guarda bene; c'è ancora nel fondo della tua anima dell'amor proprio, c'è ancora una suscettibilità, c'è ancora un attaccamento a te stessa. Certo quando tu nella preghiera ti doni a me, non sei cosciente di tutte le riserve che ci sono a questo abbandono e credi di abbandonarti sinceramente al mio amore. Ma il tuo abbandono è vero? Altra cosa è la sincerità, altra cosa è la verità. È vero questo abbandono? Tu metti tra parentesi tan­te cose che io non posso mettere tra parentesi - dice il Signo­re -, io ti vedo nel profondo. Guardati anche tu nel profon­do prima di dirmi: "Dammi da bere". Te la darò, io non ti nego l'acqua che tu mi chiedi, ma voglio che l'anima tua si apra a questa sorgente, a questa fonte che è il mio cuore si sottoponga, aprendosi totalmente per ricevere tutto».

Noi potremmo amare di più e per stanchezza, per svogliatezza, per attaccamento ai nostri modi rifiutiamo di guardare attentamente, rifiutiamo anche di essere coscienti di quella che è l’imperfezione del nostro amore, per non essere sollecitati ad agire. Perché quando a me appare chiaramente che una cosa va male, bisogna che vi ripari; cercherò di non vedere per non essere costretto. Certo che questa vita ascetica, tutta purificazione, viene a noia! Meglio piuttosto dormire un pochino così allora non commettiamo peccato – chi dorme non fa mica peccato. Si cerca di vivere non proprio nel sonno ma nel dormiveglia riguardo alle nostre disposizioni, riguardo ai nostri pensieri, riguardo ai nostri sentimenti, per non essere colpevoli. Ma questo dormiveglia nel quale viviamo, se ci impedisce di fare dei veri peccati, ci impedisce anche di rispondere generosamente alla grazia, ci mette anche nella condizione di non aprirci totalmente a Dio che viene.

Le piaghe d’Egitto e la morte dei primogeniti, a partire da una meditazione di don Divo Barsotti

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Brani di difficile interpretazione della Bibbia, XXVI. Il cuore del faraone s'indurì, come aveva predetto il Signore (Es 7,13). Le piaghe d’Egitto e la morte dei primogeniti, a partire da una meditazione di don Divo Barsotti

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 22 /03 /2015 - 14:22 pm | Permalink
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Riprendiamo da Divo Barsotti, Meditazione sull’Esodo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, alcuni brani che commentano le piaghe d’Egitto. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi di difficile interpretazione della Bibbia vedi la sezione Brani di difficile interpretazione della Bibbia. Per ulteriori approfondimenti vedi la sezione Sacra Scrittura
Il Centro culturale Gli scritti (22/3/2015)
N.B. Tutti brani sono tratti da Divo Barsotti, Meditazione sull’Esodo, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008.
pp. 85-87
Mosè ed Aronne vanno dal faraone: la missione che essi hanno ricevuto non provoca il peccato del faraone, manifesta però gli oscuri pensieri del suo cuore.
Molte volte ci sembra che Dio ci metta al cimento; e ci mette veramente al cimento; ma non è egli la causa delle nostre cadute, è lui, piuttosto, che ci chiarifica a noi stessi e fa sì che quello che interiormente noi siamo si manifesti anche all'esterno.
Basta che Mosè si presenti in nome di Dio, perché il faraone manifesti tutto l'orgoglio satanico di cui è ripieno. Si dice in altro testo dell'Esodo che il cuore del faraone s'indurì, come aveva predetto il Signore (Es 7,13); ma non si possono prendere alla lettera certe espressioni: nel linguaggio semitico l'espressione vuol dire soltanto che Dio manifestò la durezza di questo cuore, che egli provocò la manifestazione di questa durezza.
Quel che il faraone era prima lo sarà anche da ultimo: è peccatore all'inizio, come è peccatore alla fine; ma Dio vuole precisamente che quello che l'anima nasconde, si riveli anche agli altri. Egli permise che si indurisse il cuore del faraone: molti commentatori pensano così. Ma difficilmente si può riconoscere nella storia del faraone un indurimento progressivo: la sua storia manifesta piuttosto una posizione sempre più ferma, un'opposizione sempre più feroce; ma un'opposizione che non dimostra un cambiamento in peggio del cuore; dimostra piuttosto la furiosa volontà di un uomo che vuole mantenersi fermo nella sua posizione, che non vuol esser vinto, che non vuol esser travolto dalla volontà di Dio. Fin dall'inizio il faraone si oppone a Dio nel modo più pieno; egli non conosce altro Dio all'infuori di sé. Chi è il Signore perché io debba obbedire alla sua voce? (Es 5,2). Egli conosce soltanto se stesso: di fronte alla sua potenza anche Dio deve piegarsi; egli non accetta ordini dall'alto, egli è dio a se stesso.
La durezza del faraone
Difficilmente potrebbe pensarsi un orgoglio più grande: gli avvenimenti che seguiranno non faranno che manifestare i frutti di questo orgoglio, frutti spaventosi di morte, per l'anima del faraone e per il suo medesimo popolo. Questo è il faraone: fin dall'inizio noi lo vediamo, e l'ha visto tutta l'esegesi antica, come l'immagine del demonio, dell'avversario di Dio. Nelle prime parole che dice, riecheggia la rivolta dei primi angeli. Il faraone è la potenza del mondo che si erge contro la potenza di un Dio sconosciuto, di un Dio che è, in fondo, il Dio di un popolo schiavo, di un popolo nomade. - Chi è mai questo Dio di fronte alla mia potenza, di fronte alla mia grandezza? È Dio che deve piegarsi -.
La missione di Mosè è come la missione del Cristo: chiarifica i cuori. Nel Vangelo di Luca, del piccolo Gesù che vien presentato al tempio si dice che egli svelerà quello che è nel cuore degli uomini. Segno di contraddizione: proprio la sua presenza farà più palese l'avversario di DioFintanto che Dio non entra nel mondo con l'incarnazione del Verbo, non è così chiara la presenza operante di Satana nelle nazioni, nel mondo. Ma se aprite il Vangelo lo vedrete pieno di queste manifestazioni sataniche, demoniache.
pp. 91-92
Dobbiamo ora meditare non un breve testo del libro ispirato, ma quasi quattro capitoli dell'Esodo, quelli che riguardano le piaghe che colpirono l'Egitto. D'altra parte non possiamo nemmeno dividere la meditazione di questa narrazione: non possiamo, perché, in fondo, l'insegnamento è unico e anche perché il racconto delle dieci piaghe che colpiscono l'Egitto inaugura, nella letteratura sacra, un genere tutto particolare proprio dei semiti: l'apocalisse. Non che queste pagine siano proprio apocalittiche, ma le apocalissi, che poi si moltiplicheranno nell'imminente vigilia dell'avvento del Cristo, non faranno che ispirarsi a queste pagine divine.
L'era messianica è una liberazione e ripeterà di fatto la liberazione d'Israele dall'Egitto. L'era messianica è anche una nuova creazione. Sia che la si consideri come nuova creazione, sia che la si consideri come liberazione, come salvezza, l'era messianica dovrà essere preceduta da una fine, dovrà essere preceduta da uno sconquasso, dal crollo di un mondo ostile a Dio, di un mondo nemico di Dio. L'alleanza che Dio stringe con tutta l'umanità, dopo la cacciata di Adamo dal paradiso terrestre, è preceduta da un diluvio che sembra precipitare la creazione nel nulla, nel caos. Come un giorno le acque del caos coprivano tutte le cose, così le acque debbono ora ricoprire la terra: non ci sarà più distinzione, divisione di cose, tutto sarà avvolto dalla tenebra.
E da questa tenebra Dio suscita nuovamente la vita, nella salvezza di Noè. Ora non si tratta più di tutta l'umanità salvata in un nuovo Adamo che è Noè: si tratta invece della salvezza di un popolo intero, che però non sarà operata da Dio che attraverso un precipitare nelle tenebre e nella morte di quei popoli, che osteggiano i divini disegni.
La prima volta, dopo la cacciata di Adamo, il precipitare della creazione nel nulla viene compiuto dal diluvio, dalle acque; ora viene realizzato dalle dieci piaghe, ma in modo particolare dalla penultima: le tenebre.
La Genesi narra che al principio le tenebre coprivano l'abisso: sono queste medesime tenebre che ora avvolgono e ricoprono l'Egitto quasi a cancellarlo dalla vita, quasi a cancellare questo popolo e questa nazione dalla creazione divina.
Le piaghe che successivamente Jhwh manda agli egiziani non sono altro che il giudizio e la condanna onde Dio si fa riconoscere veramente come dominatore. Tutta la storia altro non è che il giudizio continuo di Dio sugli avvenimenti umani. Sembra che egli lasci libera azione al male, a Satana, al faraone. Di fatto, la libertà che egli lascia non impedisce però un giudizio cui segue una condanna di morte: può il faraone cercare di opporsi ai divini disegni, ma tutta l'azione che egli eserciterà per contrastare la volontà divina non avrà altro risultato che la rovina, la distruzione, la morte per tutta la nazione, per l'intero paese.
p. 94
Tutta l'umanità non vive perennemente che in clima di apocalisse: i nostri tempi, come i tempi che furono, sono tempi di apocalisse: un giudizio di Dio si opera costantemente per ogni generazione umana, e questo giudizio è la morte. La morte per chi si rifiuta di credere a colui che parla in nome di Dio, la salvezza invece per colui che a questa Parola si affida. Il popolo d'Israele che segue Mosè nel deserto è salvato dalla Parola, invece il popolo egiziano, nella persona del faraone, è condannato alla morte, alla rovina, alla distruzione, ed è schiacciato dalla forza della Parola che il faraone rifiuta.
Tutta la storia dell'umanità non fa che ripetere questo dramma: Dio e Satana che lottano insieme, e il risultato della lotta è sempre la morte ed è la vita. La vita per chi si schiera con Dio, la morte per chi si oppone a lui. E nell'esercito divino tu non t'ingaggi che mediante la fede, la fede prestata a una Parola, a Mosè che parla come messaggero di Dio; e a Satana non ti unisci che rifiutando precisamente questa Parola che Dio ti dice.
pp. 95-96
È castigo quello che per l'uomo dovrebbe essere principio, mezzo, alimento di vita: la creazione, la vita delle cose, le creature, che dovrebbero servire all'uomo, si fanno invece strumento della sua distruzione: le rane, le mosche, le zanzare, le cavallette. La creazione stessa insorge contro l'uomo: le tenebre, poi l'uragano. La creazione e la vita, tutto contro di te; mentre tutto doveva servirti, non soltanto ora tutto ti ostacola, ma tutto è per te strumento di morte.
L'umanità va in rovina proprio per le medesime vie, con i medesimi mezzi che dovevano servire alla sua vita: infatti, stando alla Genesi, tutto doveva servire all'uomo; egli, re del creato, doveva valersi del servizio della creazione intera al suo progresso; ora invece la creazione si rivolta contro di lui.
L'ultima piaga sono le tenebre: con le tenebre il castigo si può dire totale, pieno. Come un giorno il diluvio ha sommerso tutte le cose riducendole quasi nel nulla, nel caos primitivo, così la tenebra confonde le cose, toglie loro ogni forma, come se nulla più fosse: le tenebre sono il simbolo della morte, il simbolo del nulla; di un nulla, di un caos che nuovamente riassorbe e la vita e la creazione divina.
E proprio da questa tenebra uscirà ora Israele per camminare verso Dio. Israele fuggendo dall'Egitto fugge dalla morte, va verso la terra promessa da Dio. Una creazione precipita nel vuoto, nel nulla: l'Egitto; una creazione sorge dalle tenebre e dalle acque del mar Rosso: Israele.      
La liberazione d'Israele dall'Egitto è come una nuova creazione divina, dopo questa distruzione e questo annullamento che le tenebre e la morte dei primogeniti non soltanto avevano annunciato, ma avevano in qualche modo profeticamente compiuto.
p. 97
Il Signore disse a Mosè che alla mezzanotte sarebbe passato dall'Egitto per colpire con la morte tutti i primogeniti degli egiziani, ma Israele sarebbe rimasto separato, sarebbe stato salvato dal castigo per il sangue dell'agnello che avrebbe segnato le case d'Israele.
Il passaggio del Signore è dunque da una parte un giudizio di morte, dall'altra salvezza e vita. Questa duplice interpretazione noi la ritroveremo a proposito della morte di Cristo nel quarto Vangelo.
Gesù è l'agnello pasquale che toglie i peccati del mondo, l'agnello che viene ucciso per dare agli uomini la vita. Ma la morte dell'agnello è anche l'atto nel quale, secondo quanto dice Gesù nel quarto Vangelo, il principe di questo mondo vien cacciato fuoriOra il giudizio si compie - dice Gesù alla vigilia della passione - ora il principe di questo mondo è cacciato fuori (Gv 12,31). Morte e vita, morte e risurrezione: il mistero cristiano è prefigurato in questa pagina dell'Esodo.       
p. 98
Il tema dell'agnello, come il tema della morte di un primogenito, già si annunzia nella Genesi. Nei libri successivi all'Esodo noi troveremo ugualmente questi motivi. Il tema dell'agnello lo ritroveremo non più in quanto si riferisce a un rito soltanto commemorativo dell'avvenimento che l'Esodo narra, ma in quanto è anche annuncio profetico di un altro sacrificio che si sarebbe compiuto, nella morte di un uomo, di un inviato, di un profeta. L'agnello è Geremia; sarà poi, in modo ancor più trasparente, il servo di Jhwh (cfr. Is 52,13ss) che si caricherà dei peccati del mondo e sarà immolato in sacrificio di espiazione, per distruggere nella sua morte questi stessi peccati. Finalmente sarà il Cristo medesimo.
Tutto il quarto Vangelo non fa che orchestrare questo tema fin dai primi capitoli. Già il Battista lo presenta: Ecco l'agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo (Gv 1,29), dice indicando Gesù ai discepoli; ed è precisamente nel momento in cui vien consumata dagli ebrei la cena dell'agnello pasquale che l'evangelista narra la passione e l'immolazione di Cristo sul Calvario. Dell'agnello di Dio che toglie i peccati del mondo parla Pietro nella sua prima lettera, e ne parla Paolo: Pasqua nostra fu immolato Gesù Cristo (1Pt 1,19; 1Cor 5,7).

Quale corpo il Signore mi darà dopo la morte? di don Divo Barsotti

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Ripresentiamo on-line, per il progetto Portaparola, una meditazione di don Divo Barsotti sul mistero del morire che Avvenire del 16 febbraio 2006 ha pubblicato per onorare don Barsotti, chiamato a sé dal Signore il giorno precedente.
L’Areopago

La risurrezione suppone la morte, il trionfo del Cristo il giudizio. Sono verità di fede elementari, e pur tuttavia, proprio perché sono elementari, non sono solo importanti ma fondamentali anch'esse per la nostra vita spirituale. È sempre il Mistero del Cristo: morte e risurrezione; e non vi è un elemento senza l'altro. La morte da sola non sarebbe mai, né potrebbe essere mai un argomento di meditazione per il cristiano, perché la morte è soltanto condizione alla risurrezione gloriosa; d'altra parte la risurrezione è impensabile senza la morte. I due elementi si richiamano l'un l'altro cosicché non possiamo meditare l'uno senza l'altro. È vero però che possiamo separarli, non per mantenerli divisi, ma perché la nostra meditazione abbia una maggiore ampiezza, infatti potrebbe essere soltanto un poco di curiosità teologica il meditare sul giudizio finale o sulla fine del mondo, mentre su tutti noi incombe la morte.

Tra poco noi moriremo. Che vuol dire morire? Che cos'è la morte? La prima considerazione da farsi sembra questa: l'uomo è un essere estremamente paradossale. Per il fatto che siamo in un corpo, indipendentemente dal peccato, sembra non potersi evitare la morte. Quel che è fisico, quello che è biologico non può durare eternamente, consuma. D'altra parte sarebbe non solo impensabile ma del tutto miracoloso (è un miracolo che non ha nessuna giustificazione e che a lungo andare andrebbe precisamente contro gli stessi voleri di Dio) che questo corpo vivente non conoscesse la dissoluzione. Sarebbero innumerevoli miracoli quelli che Dio dovrebbe fare perché questo essere che abbiamo, il corpo, dovesse mantenersi vivo senza fine. Non vi è esempio di questo nella natura: nemmeno le montagne rimangono ferme, nemmeno il sole e gli astri sono eterni. Una forza unica travaglia tutto l'universo fisico in mutamenti continui, in rivolgimenti inevitabili. È proprio il cambiamento stesso che assicura la permanenza. Non vi è nulla di permanente quaggiù se non il movimento.

Da una parte, dunque, il paradosso di un uomo che è corpo ed è spirito. Per quanto riguarda il corpo secondo la filosofia marxista, non solo, ma anche direi secondo la reazione spontanea e naturale degli uomini che hanno perso la fede, è naturale la morte; non c'è lo scandalo della morte per loro. Accettano di morire non pensandoci, cercando di esorcizzarsi nei confronti dello sgomento, della paura che l'uomo ne prova, col non pensarci. Non c'è nulla da fare, la morte è inevitabile ed è naturale per questo. Dall'altra parte però, rimane vero che l'uomo non è soltanto un corpo organico, è anche spirito, e proprio in forza del fatto che è anche spirito, l'uomo non riesce ad accettare la morte, né può accettarla. Si prova nei confronti della morte una opposizione naturale, spontanea. Non per nulla, si diceva prima, si cerca di dimenticare, si accetta per principio, ma poi non si vuol ricordare, perché poi l'insorgere naturale dello spirito è anche esso inevitabile.

E allora Dio ci ha creati male? Ci ha dato nello stesso tempo un corpo che di per se stesso è soggetto alla morte e uno spirito che non può morire. Come mai ha unito queste due cose così stranamente diverse?
Secondo la Genesi, Dio riveste l'uomo di pelli morte cacciandolo dal Paradiso terrestre. E secondo l'interpretazione che dà il rabbinismo, il passo della Genesi vuol significare che dopo il peccato Dio sottopone alla morte l'uomo - e questo è vero anche per noi - dandogli un corpo che ora soltanto è mortale. Il nostro corpo che possediamo oggi non è il corpo che Dio ci ha dato all'inizio. Creati per l'immortalità, noi non potevamo avere un corpo passibile. Il corpo passibile che anche riceve Gesù, lo riceve in vista della morte; se il corpo è passibile è destinato a morire. Se dunque Adamo ed Eva prima del peccato non dovevano morire, vuol dire che avevano un altro corpo da quello che abbiamo noi ora. Questo l'insegnamento di Israele, e Israele ci dice appunto che questo corpo fu dato l'uomo dopo il peccato.

E Dio ha dato all'uomo questo corpo mortale non per castigo ma per suprema misericordia. Dio ci aveva fatto per l'immortalità, e facendoci per l'immortalità non poteva donarci un corpo mortale: il corpo mortale diviene tale dopo il peccato. E allora ecco, noi vediamo precisamente nella nostra condizione umana una situazione veramente paradossale: sul piano fisico, sul piano biologico noi andiamo verso la morte, ma l'andare verso la morte non vuol dire morire, sembra anzi acuire, per colui che ha una vita spirituale, la potenza di vita che Dio ha inserito nella nostra natura. Sembra di fatto, che proprio andando verso la morte l'uomo viva. Non si vive a vent'anni, tranne alcune eccezioni, e nemmeno a venticinque; non si vive, siamo portati via dagli istinti, siamo portati via da tutte le piccole ambizioni, le vanità, gli egoismi, la sensualità, l'uomo non prende ancora coscienza di sé, del proprio destino, dei proprio valore, della propria grandezza. L'uomo incomincia a vivere invecchiando; è una cosa strana, ma si vive invecchiando, nella misura cioè che questo corpo, che doveva essere strumento dello spirito, esprime minori esigenze, non pesa più, e non diviene più qualche cosa che impedisce allo spirito di vivere la sua vita.

Si muore. Ma che cosa vuol dire per noi morire? Vuol dire deporre un corpo che non è evidentemente per l'immortalità. E dunque la morte non è un male, perché ci libera da uno strumento che è inetto a una vita pienamente umana e veramente spirituale. Non è l'anima che non sia fatta per il corpo: l'anima umana è forma corporis, è principio vitale di un corpo ma, si direbbe, non di questo corpo, perché sembra anzi che l'anima tanto più viva quanto meno il corpo pretende, esige, s'impone nella sua forza, nella violenza dei suoi istinti.

Però nessuno ci assicura l'altro corpo tranne la Rivelazione divina. Di qui lo sgomento che ci prende perché sul piano umano, naturale, nessuno ci assicura un nostro permanere, perché è vero che vi sono due vite: una vita dello spirito e una vita del corpo, però rimane vero anche che la vita stessa dello spirito ha bisogno del corpo, cioè è lo spirito umano, l'anima umana è forma corporis e perciò io non posso capire nemmeno il mio permanere nella vita senza il corpo. Quale corpo il Signore mi darà? È tutto qui, direi, il problema della morte. Quale corpo il Signore mi darà.

Nel cristianesimo non c'è la rivelazione dell'immortalità quanto c'è la rivelazione della risurrezione. Perché? Che cos'è questo mistero? Evidentemente ci voleva proprio l'evento della risurrezione del Cristo per ridonare agli uomini non solo la speranza, ma la certezza che si sarebbero risolti, per l'uomo, tutti i tragici interrogativi, problemi, angosce, turbamenti che la sua vita stessa origina per lui.
Dice il libro della Sapienza che la morte è entrata nel mondo per il peccato; se noi fossimo dovuti rimanere sempre nel corpo senza morire avremmo vissuto, sì, una vita immortale in un corpo adatto alla immortalità, però in questa immortalità noi avremmo vissuto in tal modo da non sentire precisamente la tragedia che è propria della vita di oggi, la tragedia cioè di una vita immortale che dobbiamo attendere soltanto da Dio dopo la remissione del nostro peccato, anzi, come compimento di una redenzione dal nostro peccato.

Oggi l'immortalità viene a noi come dono che è perdono e grazia divina, mentre l'immortalità di prima, dopo il peccato, sarebbe stata per l'uomo non più salvezza, non più redenzione, ma un fissarsi nella sua condizione di peccato e di lontananza da Dio. Ma meditando la morte dobbiamo riconoscere ed accettare lo sgomento, l'angoscia, il rifiuto della nostra natura. È vero che il nostro corpo ci fa necessariamente schiavi della morte, ci fa naturalmente retaggio della morte, ma questo non toglie che nella misura che viviamo, tutto l'essere nostro debba ribellarsi a questo destino. E questo è tanto vero che perfino la Umanità sacrosanta del Verbo, il Cristo, prova ripugnanza a morire, si vuol sottrarre alla morte e per questo prega il Padre celeste. Non siamo fatti per la morte, tutto in noi dice che siamo fatti per la vita e per la vita divina, per la vita immortale, per una vita senza fine, e proprio il fatto di essere fatti per questa vita senza fine crea in noi una tensione e suscita in noi una reazione viva nei confronti della morte che viene.

Dobbiamo vederla come castigo o come medicina? Molto spesso noi si parla della morte come castigo. Ma se stando alla interpretazione rabbinica e anche dei Padri greci, la morte viene a noi dopo il dono che il Padre ci fa delle pelli morte, evidentemente non è soltanto un castigo, e dobbiamo dire di più: che Dio non castiga mai altro che il rifiuto ultimo, se c'è un rifiuto da parte dell'uomo che si chiude in se stesso, positivamente Dio non interviene mai per dare la morte. Per dare le medicine sì. C'è l'inferno, intendiamoci, ma l'inferno dipende dal fatto che l'uomo nella sua volontà si chiude alla misericordia, rifiuta i doni di Dio. È antropomorfico quello che dice il Vangelo «Andate maledetti al fuoco eterno». Dio non interviene positivamente nella condanna; nella condanna è l'uomo che si chiude, che si trincera difendendosi da Dio, Dio rimane l'amore. Se l’uomo avesse la capacità di aprirsi anche un istante solo alla misericordia, l’inferno si vuoterebbe immediatamente. È che lo spirito umano, e più lo spirito angelico, una volta che si è fissato nel peccato, rifiuta Dio e in questo rifiuto rimane. L’inferno è voluto soltanto dall’uomo che si è piegato ai beni terreni, l’uomo che si è chiuso in se stesso in un sentimento di autosufficienza, che ha voluto essere dio per sé contro Dio, non può liberarsi dal suo peccato senza pena.

Il dolore, la pena, la sofferenza, questi Dio li può volere, ma li può volere proprio per liberare l’uomo da questi legami, da questo chiudersi in sé, da questo peccato che lo difende nei confronti della grazia divina. La morte dunque non è un male. È vero che la morte è venuta per volontà di Dio e per il peccato dell’uomo, ma Dio dona la morte proprio dopo il peccato; e la morte data da Dio all’uomo come pena di peccato diviene anche la medicina per il peccato. Che cos’è il dolore e la pena nei confronti dell’uomo peccatore? Sono veramente il cammino per il quale l’uomo si scioglie, si libera dai legami dal proprio egoismo, dalla propria sensualità, dalla propria autosufficienza, dal proprio orgoglio, e si riapre a Dio. Col peccato si è chiuso, si è barricato contro la grazia; col peccato l’uomo ha voluto crearsi una sua autonomia, una sua autosufficienza nei confronti della misericordia infinita; col peccato l’uomo ha scelto sé contro Dio, si è opposto a Dio; l’uomo non può aprirsi senza che l’apertura di questa chiusura ermetica in cui egli si è difeso provochi una ferita.

Non c’è la possibilità per l’uomo di riaprirsi a Dio senza strapparsi a questo orgoglio e proprio per questo, allora l’estrema apertura a Dio è rappresentata dalla morte. Ecco perché, in fondo, non si può godere Dio, vedere Dio, senza morire. È impossibile per noi pretendere che il dono supremo a Dio possa venirci senza questa suprema apertura all’essere che la morte opera. Perché in fondo il nostro corpo mortale è una difesa contro l’amore divino e anche contro l’amore per gli altri. La morte, così, diviene la suprema medicina. Dobbiamo considerare allora il tema della morte entro il tema più ampio della sofferenza umana, di ogni pena umana.

Nessuno vive l’atto supremo della sua vita nella morte se non vive nella morte un atto di amore. Fa parte precisamente di questo atto supremo del nostro vivere anche il fatto che la morte sia anche la suprema pena, perché veramente vuol dire sradicarsi totalmente da sé. Tutta la vita di ogni uomo non ha altro termine che questa visione nella resurrezione ultima. È evidente che noi dobbiamo vivere anche la nostra vita precisamente come consentendo a che essa sia questo nostro cammino, un cammino verso la morte. Non per rassegnarci: la rassegnazione non è virtù cristiana. Uno che si rassegna già per questo fatto non è cristiano. Che vuol dire rassegnarsi? Se si tratta della volontà di Dio, si deve amare questa volontà, si deve abbracciare con gioia e per superare la pena istintiva che certi avvenimenti ci danno, superarla d’impeto, in un amore che tende all’unione al di là della pena. Vi è un aspetto che dovremo tener presente attraverso proprio questa mortificazione, per la quale ci sciogliamo sempre più dai legami a una condizione terrestre, vi è una libertà che noi andiamo possedendo, una vita sempre più piena alla quale noi ci avviamo, ed è proprio questa vita che nella morte poi si farà piena ed eterna, una vita che risponde precisamente alle esigenze dell’anima umana. Certo che l’anima umana vivrà in un altro corpo, perché l’anima è sempre forma corporis, ma sarà il corpo della risurrezione, non questo corpo mortale.

Omero e Montale, i libri di Barsotti, di Serafino Tognetti

Omero e Montale, i libri di Barsotti, di Serafino Tognetti

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 14 /02 /2012 - 23:10 pm | Permalink
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Riprendiamo da Avvenire del 14/3/2012 un testo di Serafino Tognetti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (14/2/2012)
A 6 anni esatti dalla scomparsa (è morto infatti il 15 febbraio 2006 nella sua Casa San Sergio a Settignano, presso Firenze), don Divo Barsotti viene ricordato da una corposa biografia ora in uscita nelle librerie per la San Paolo: «Divo Barsotti. Il sacerdote, il mistico, il padre» (pp. 400, euro 29; prefazione del cardinal Carlo Caffarra). Il volume – di cui qui anticipiamo uno stralcio – è firmato da don Serafino Tognetti, che fa parte della «Comunità dei figli di Dio» fondata dallo stesso don Divo, e presenta anche un breve itinerario spirituale tra le pagine dei diari che Barsotti – definito qui «uno dei più grandi mistici del ’900» – tenne dal 1934, quando aveva solo 19 anni, fino al 2000.
Non si può parlare delle fonti di don Divo e ignorare la sua biblioteca. Don Divo si costruì e si costituì in tanti anni una preziosa biblioteca, luogo per lui vitale, che al termine della sua vita ammonterà a circa 12.000 volumi. Acquistava personalmente i libri, li leggeva sottolineandoli, facendo anche dei brevi commenti negli spazi in margine. Amava entrare in dialogo con gli autori che via via andava conoscendo e studiando.
Non era di quelli che vanno a prelevare il testo nelle sale di una biblioteca per poi riporlo, una volta letto, nello scaffale con un certo distacco; non esageriamo se affermiamo che i libri che andava acquistando diventavano per lui quasi come dei figli. E i figli non si possono prestare ad altri: rimangono tuoi. Egli pertanto non acquistava mai dei libri se non quelli che veramente lo interessavano; e, per questo, quello che comprava leggeva. Don Divo lesse moltissimo. Passava ore e ore immerso nella lettura. Lettura e preghiera furono senza dubbio le attività portate avanti da lui con maggiore continuità e profondità di coinvolgimento.
Per conoscere Barsotti, e farsene una idea giusta, è dunque fondamentale accostarsi alla sua biblioteca ed entrare, così come oggi possiamo, nel mondo delle sue letture. Prima del “cosa”, è importante però capire “come” don Divo leggeva. Ciò che più lo interessava era entrare in contatto vivo con i diversi autori.

Tante volte dichiarò che gli interessava più sant’Agostino che i suoi trattati teologici, più san Tommaso che la Summa theologiae. È evidente che, cercando di entrare nel cuore dell’autore attraverso la lettura, egli poi ne capisse anche meglio gli scritti, con logica circolare: conosco il testo, arrivo all’autore, capisco meglio il suo messaggio. È doveroso parlare allora, più che di autori, di “amicizie spirituali”. Egli sentiva l’urgenza di stringere amicizie spirituali con coloro che gli parlavano di Dio o, meglio, lo aiutavano ad addentrarsi di più nel Mistero, anche se non necessariamente dovevano essere autori spirituali.

Per questo egli sentiva la necessità di entrare in rapporto di amicizia non solo con i teologi, gli scrittori ecclesiastici e i santi, ma anche con i letterati, i poeti, i filosofi, i musicisti, i pittori, compresi i peccatori e gli atei. Nel diario ci si imbatte spesso in lunghi elenchi di nomi di scrittori, che egli conosceva e con i quali aveva da tempo aperto un colloquio spirituale. Tra essi, nomi famosi come Omero, Sofocle, Virgilio, Dante, Shakespeare, Goethe, Dostoevskij, Manzoni, Balzac, O’Neill, Verga, eccetera, ma anche meno conosciuti come Li Po, Wang Wei, Hardy, Murasaki, e artisti e poeti quali Brecht, Neruda, Eliot, Kafka, Rilke, Montale, Chagall, Cervantes, Bach, Giotto…
Il bisogno che don Divo aveva di leggere era consequenziale a quello di conoscere la realtà con gli occhi di questi grandi pensatori e artisti, per fare poi le proprie sintesi e trasformarle in vita propria.
«L’uomo ha bisogno meno di mangiare il pane che i libri – affermava don Divo –; io non riesco a capire come si possa vivere senza sentire la necessità di studiare, di conoscere».

Entrare in contatto con i Padri, i santi, gli uomini di genio, era addirittura più necessario che relazionarsi con il prossimo: «L’importanza che hanno le letture non l’hanno la conversazione e il rapporto personale ». Anche se poi, evidentemente, era nel rapporto di carità con le persone in carne e ossa, che la ricchezza proveniente dalle letture diveniva vita. Per questo motivo non si può dire che egli ebbe dei veri e propri maestri. Anzi, don Divo stesso mette in guardia chi volesse fare una ricerca sulle sue fonti.

Don Divo leggeva, pensava e scriveva, per poi prendere atto che altri, nello stesso tempo ma molte volte con altra formazione e in altri luoghi, diceva più o meno la stessa cosa, senza che vi fosse dipendenza reciproca. «Mi ricordo lo stupore che ebbi quando conobbi i libri di Durrwell – scrive don Divo all’amico don Emilio Grasso –: mi sembrò di averli scritti io stesso, tanto quel pensiero esprimeva in modo più sistematico quello che io avevo già scritto o pensato». Prima del Concilio Vaticano II don Divo aveva meditato e scritto, per esempio, sul valore della liturgia come accesso al mistero di Dio, o anche sulle religioni non cristiane come praeparatio evangelica, o sui sacramenti della Chiesa come cammino di divinizzazione dell’uomo, o ancora sulla divina Rivelazione nelle sue fasi progressive.
Su tali temi, sviluppati poi nella riflessione conciliare e resi patrimonio comune della Chiesa di oggi, egli trovò allora sintonie, più o meno profonde, con pensatori che andava conoscendo attraverso le letture e con i quali stabilì presto rapporti personali di dialogo epistolare e di incontri diretti; e parliamo di Henry de Lubac, Louis Bouyer, Jean Danielou, Hans Urs von Balthasar. Per questo motivo gli scritti di don Barsotti mantengono intatta ancora oggi, a distanza di cinquant’anni, una loro originalità. La libertà del suo pensare e del suo dialogare con interlocutori di tale livello, che stimava e amava, rimase comunque intatta fino alla fine, tant’è che su alcuni di essi, quali von Balthasar e lo stesso Durrwell, non mancava di esprimere perplessità su alcuni punti della loro teologia.
Assolutamente in sintonia Barsotti si trovava con quei teologi che denunciavano il penoso divorzio tra teologia e spiritualità. Su questo punto probabilmente furono gli scritti del cardinal John Henry Newman quelli che apprezzò di più, ma anche Romano Guardini fu da lui letto con interesse.

Scritti di don Divo Barsotti

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