quarta-feira, 13 de março de 2019

Giuseppe Mani Arcivescovo emerito di Cagliari, DON DIVO BARSOTTI: COME L'HO CONOSCIUTO

DON DIVO BARSOTTI: COME L'HO CONOSCIUTO 



Giunto a ottant'anni è bello voltarsi indietro e vedersi "circondati da un così gran nugolo di testimoni per cui corriamo con  perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede" (Eb 12, 1-2). La Chiesa è piena di testimoni e personalmente ne ho incontrati tanti. Tanti sono stati i profeti attraverso i quali Dio mi ha parlato. Ricordo solo i profeti maggiori, quelli noti a tutti, quelli con cui ho avuto contatti personali per cui posso dire che mi hanno fatto uomo, prete, Vescovo.
Tra tutti questi don Barsotti occupa per me un posto particolare: era il punto di confronto tra tutti. Non era un Vescovo, non occupava un posto di rilievo nella Chiesa, non aveva alcuna autorità, non era un religioso che viveva in un monastero storico, era vestito, fino agli ultimi anni della sua vita, con la sua talare, come la mia, non c'era niente di umanamente rilevante che potesse attirare l'attenzione, non prevedeva il futuro e ancora non risulta che avesse delle visioni, eppure era il mio punto di riferimento: cercava solo Dio e Dio lo aveva voluto tutto per sé. Lo scrive Lui stesso nei momenti in cui non gli mancarono le delusioni: "Dio mi vuole tutto per sé. È geloso di me".
˜ ˜
Ero seminarista dei primi anni di liceo quando lo ascoltai per la prima volta nel Seminario di Fiesole.
Quando divenni direttore spirituale del Seminario Romano pensai a Lui come ad un punto di riferimento sicuro e fu proprio così. Divenuto Rettore dello stesso Seminario se ne rallegrò, mi incoraggiò e lo invitai a dettare gli esercizi spirituali alla Comunità. Fu un successo tra i seminaristi. Come ogni anno fu il Papa a concludere gli esercizi e fu l'occasione per presentargli il predicatore. Era la prima volta che incontrava Giovanni Paolo II. I miei contatti continuarono da Vescovo Ausiliare di Roma. Salivo a San Sergio ogni volta che passavo da Firenze suscitando grande ilarità quando da Ordinario Militare arrivavo a San Sergio con la macchina di servizio scortato dai Carabinieri, come Pinocchio tra le guardie, e ridevamo di gran gusto. Era molto curioso di sapere dove sarei finito dopo l'Ordinariato Militare e venni a comunicargli personalmente che il Papa mi aveva mandato Arcivescovo di Cagliari. Fu felice.
Cosa ci dicevamo? Devo dire che di me gli interessava solo una cosa: la preghiera, che fossi fedele alle mie due ore quotidiane. Anch'io volevo sapere di Lui ma riuscivo a scucirgli poco, qualcosa però sì.
La prima riguardava il modo con cui aveva affrontato la notizia del ritiro dal commercio dei suoi libri "Il Dio di Abramo", "Loquere Domine" e, successivamente,  "Spiritualité de l'Exode". Personalmente lo ritenevo un momento spiritualmente epico. Lo vedevo il lottatore che, pieno di fede, aveva lottato contro il male che gli proibiva di scrivere cioè di esercitare quella che riteneva rappresentasse gran parte della sua vocazione. Invece me lo descrisse come un momento pieno di sofferenza, veramente difficile. Mi disse queste parole: "Si trattava di amare la Chiesa più di me stesso, o me stesso più della Chiesa. Il Signore mi aiutò ad amare la Chiesa più di me stesso. Ma fu durissimo". Fu per me una lezione indimenticabile e devo dire efficace.
Avevo frequenti contatti con don Giuseppe Dossetti e la sua Comunità. Quando poi ho letto nell'epistolario tra Lui e don Barsotti l'umiltà con cui don Dossetti si confrontava con l'uomo di Dio e si umiliava davanti a Lui, crebbe la mia stima per i due, e non mi sono sbagliato.
Quando parlavo a don Barsotti di don Dossetti, sogghignava, sorrideva ma non diceva niente. Una volta si accorse che stavo insistendo per scucirgli qualcosa e uscì in questa espressione: "Tu quando incontri una persona intelligente non capisci più niente". Fu tutto quello che riuscii a fargli dire.
La cronaca della Roma ecclesiastica era questo il secondo argomento dei nostri incontri: e devo dire che aveva sempre una certa curiosità. Raccontavo le cose belle, l'attività del Seminario, la scuola di preghiera, l'arrivo delle nuove vocazioni, della crescita nella preghiera dei seminaristi e delle ore di adorazione quotidiane che rappresentavano l'anima della formazione al sacerdozio. Una volta Vescovo, parlavo dei preti e dell'attività delle parrocchie, della mia attività nella pastorale familiare e dell'impegno per la beatificazione della prima coppia di sposi, i coniugi Beltrame Quattrocchi, della cui causa era molto interessato. Mi impressionava la sua partecipazione spirituale alla mia vita apostolica e l'attenzione continua che non mancasse mai la dimensione soprannaturale a tutto quello che facevo. 
Poi parlavamo anche delle "vanità spirituali" come direbbe Papa Francesco, ed era proprio quello il momento delle più sonore risate anche perché, da buon toscano, non risparmiava nulla, e ci metteva anche del suo. La Chiesa è Cristo e il cristianesimo la sequela di Lui, il resto finirà. "Sì, finirà anche tutto questo carnevale" disse un giorno, e resterà solo Lui. Cristo è tutto. Scriveva il 13 aprile del 1968 nel suo diario: 
"Come mi dà noia che la Passione di Gesù sia solo motivo per parlare della sofferenza. In questo clima di demitizzazione non si fa che mitizzare. Il Cristo è divenuto un mito, pretesto per parlare di tutto. Se, qualche generazione fa, il pietismo riduceva il Cristo alla misura di una persona umana e il senso concreto di una sua presenza sembrava compromettere l'universalità del fatto cristiano, oggi l'universalità del Cristo cosmico distrugge la singolarità concreta della sua presenza. Il cristianesimo è soprattutto rapporto  con Lui. Stasera mi sembrava così vera l'angoscia di Maria Maddalena: 'Hanno portato via il mio Signore e non so dove l'abbiano posto!'. Era la mia angoscia ed era l'angoscia del mondo di oggi. Che cosa possiamo farcene del cristianesimo e della Chiesa, che cosa della teologia, della mistica, dell'ascesi, di ogni apostolato e attività sociale, se il Cristo è morto e non sappiamo trovarlo più? Che cosa è il messaggio cristiano se non è il messaggio della sua Risurrezione? 'lo sono risorto e sono di nuovo con te!'. Se non si vive un rapporto con Lui, se la nostra vita non è rapporto personale col Cristo, non si può parlare di salvezza. La salvezza stessa non è più che miraggio. Che cosa è la salvezza se non è la salvezza di qualcuno? E come la persona umana può essere salva, se non come rapporto, anzi nel suo rapporto con un Dio fatto uomo e vivente per te?
Come vorrei che tutto crollasse: il cristianesimo, la Chiesa, la teologia, l'ascesi  tutto, purché rimanesse il Cristo! Ma se Lui rimane, tutto rimane ed è salvo  e solo con Lui e in Lui tutto rimane ed è salvo.
Come mi dà noia che la passione di Gesù sia solo motivo per parlare della sofferenza umana, del suo valore, del suo senso  della necessità della pazienza ! Come mi dà noia che la Risurrezione sia pretesto per parlare della gioia della vita. La Passione è la Passione di Gesù, la Risurrezione è la sua Risurrezione".
È stato detto che il mondo in cui viviamo è un mondo privo di vita spirituale, Lui era un vero maestro di vita soprannaturale. Lo è stato sempre, anche nei momenti difficili, nel periodo delle novità del ‘68 quando si proponeva una ecclesiologia sociale e la trasformazione della  società attraverso la giustizia. Lui ha sempre sostenuto che il vero e unico salvatore dell'uomo è Cristo e che la salvezza della società avviene attraverso l'inserimento dell'uomo in Cristo. Con la sua fede cristallina e chiara ha fatto tanto del bene, ha salvato tanti preti che facevamo riferimento a Lui e a Giorgio La Pira. In quei tempi ha restituito il coraggio di parlare del primato di Dio, della dimensione religiosa della fede, dell'assoluta necessità della preghiera. I mistici erano i suoi grandi maestri e la somma esperienza umana era l'esperienza di Dio. "I cristiani di domani o saranno dei mistici o non saranno cristiani"  scriveva Rahner –, e il nostro ne era profondamente convinto. Non aveva fatto studi accademici ma aveva una cultura straordinaria e riconosciuta anche da persone dal palato fine. Ricordo, a questo proposito, il Padre Alonso Schökel SJ, docente del P. Istituto Biblico, che rientrato dai suoi esercizi annuali mi raccontò di averli fatti sul libro di Barsotti "La Rivelazione dell'Amore" e che lo aveva trovato straordinario tanto da consigliare l'Editrice AdP di curarne una nuova edizione, cosa che poi avvenne. Se posso osare, penso che la sua specializzazione fosse l'esperienza di Dio. I suoi punti di riferimento erano chiari: la Bibbia, i Padri e la liturgia.
Ha commentato quasi tutti i libri della Bibbia e nei suoi commenti non c'era niente di esegetico ma niente di non vero. I suoi commenti son nati tutti durante la liturgia eucaristica della mattina quando, dopo aver  pregato diverse ore  si alzava poco dopo le tre ogni notte per rimanere in preghiera fino all'Eucarestia –, commentava la prima lettura scelta come lectio continua che i suoi figli diligentemente registravano e pubblicavano per il nutrimento di tutti noi. I suoi erano e sono commenti pregati e si sente bene che riscaldano il cuore, che aiutano l'unione con Dio. In quei libri niente di copiato o di astratto, niente di saccente, sono la parola di Dio metabolizzata dal Padre per i suoi figli.
I Padri erano la sua passione, erano quelli che non avevano separato la teologia dalla preghiera e dalla contemplazione per cui erano i suoi veri maestri. La sua particolare attenzione al mondo orientale era dovuta soprattutto a questo: sono autori veramente spirituali. Infatti, degli autori gli interessava soprattutto la loro esperienza di Dio. Non conosceva soltanto i grandi santi, ma si interessava anche ai più modesti, a quelli di cui, con curiosità, leggeva la biografia su "L'Osservatore Romano" in occasione della loro canonizzazione. Aveva un fiuto particolare, oserei dire un senso spirituale, per riconoscere ciò che veniva da Dio e ciò che era frutto di passione umana o addirittura ostentazione di sé. E allora non faceva sconti a nessuno, era mondanità, e non valeva la pena prenderla in considerazione. Soprattutto se di moda. Non aveva letto soltanto tanti libri, la sua biblioteca ne fa testimonianza, ma anche tante anime, e questo era un elemento centrale della sua cultura. Sentirlo parlare di Candia, di La Pira, del Card. Dalla Costa, di Mons. Facibeni e anche del suo Vescovo Giubbi di cui non condivideva le idee soprattutto politiche, ma "quando entrava in Cattedrale si vedeva che era un uomo di Dio". Aveva una sensibilità particolare per riconoscere la vanità, la ricerca di pubblicità, il mondano che si vestiva di spirituale. Parlando di questa assoluta dimensione soprannaturale della vita, senza concedersi niente che non fosse per Dio o da Dio il Cardinale Biffi mi disse un giorno: "C'è rimasto soltanto Lui". Speriamo di no, ma certamente uomini così son davvero rari.
L'altra fonte insieme alla Bibbia e ai Padri era la liturgia. Basta ricordare "Il mistero cristiano nell'anno liturgico" e "Il mistero cristiano e la Parola di Dio" per capire il nutrimento della sua anima e il pane che ci spezzava. Tutti abbiamo partecipato alla Sua Messa e per esperienza sappiamo cosa traspariva di Lui in quel momento.
Servono maestri, ma sono ascoltati soltanto se sono dei testimoni e don Barsotti lo era. Testimoniava il soprannaturale molto naturalmente. "Era  davvero  naturalmente soprannaturale e soprannaturalmente naturale". Niente pose, niente orpelli, niente atteggiamenti che potessero far pensare ad un santone, come vanno di moda.
Dovessi dire qual era la sua virtù esercitata in grado eroico, non avrei dubbio a dire: la fede. Sentirlo parlare di fede e della fede pura si sentiva che era nel suo mondo, nei suoi vuoti, nei suoi silenzi, nelle sue sofferenze e sicuramente nelle sue tentazioni in cui il Signore si era fatto incontrare. Sembrava che per il fatto che c'era passato il Padre fosse più facile passarci anche noi, aveva fatto strada. Ci ha comunicato il gusto della fede e l'assoluto dell'esperienza di Dio come la somma esperienza umana. 
Era un mistico e alla mistica orientava più che all'ascetica che era, per Lui, una via alla mistica. Della santità aveva una lettura teologale non moralistica, una santità fatta di fede, di speranza e di carità. Il mistero della Presenza, vivere alla sua Presenza, per diventare segno della sua Presenza. Il mistico è colui che misteriosamente sperimenta ciò in cui crede per cui il suo annuncio è un racconto che acquista una forza straordinaria. "Ciò che abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi" (1Gv 1, 1-3). Quando parlava era evidente che era così e non poteva essere che così: era il testimone. 
Devo dire che qualche volta mi son posto il problema se avesse dei doni particolari di visione, ma non ho mai osato chiederglielo. Mi stupirebbe se uscisse fuori qualche testimonianza del genere, avendolo sempre ritenuto un testimone della pura fede. Lo ha scritto nel suo diario: 
"Bisogna che io viva un ideale monastico, anche se l'ideale monastico esige per me la morte... Tu non vedi più nulla non sai più nulla, è un entrare nel buio, un camminare nel buio. E senti che sarà sempre così; un andare avanti senza garanzie, senza approvazioni, senza fretta, perché il cammino è un cammino nel buio, un affondare nel buio. Andare avanti vuol dire in fondo star fermo; fermo in questa tua vita, perché non sei tu che cammini: è questa tua vita che deve portarti".
"Alla fine della vita il Signore mi ha dato la gioia dei figli", mi disse un giorno quando mi complimentavo con Lui nel vedere volti nuovi a Casa San Sergio. "Ma alla fine della vita".
La Comunione con Dio è sempre feconda di grazia, il matrimonio con Cristo non è mai sterile e fu Padre di molti figli. Lo chiamiamo veramente Padre, perché lo è. Su questo argomento penso a don Barsotti con invidia.
Don Barsotti ha soltanto lavorato nelle anime, il suo lavoro resterà per sempre, avrà, come Abramo, diverse generazioni di figli perché ha lavorato sulle anime, non c'è ragione in Lui di una "damnatio memoriae" ma "memoria eius in benedictione est" e siamo qui a testimoniarlo, siamo tutti quel libro che Lui ha scritto con i caratteri della sua vita e che rappresenta sicuramente il suo biglietto di raccomandazione. Non ha soltanto figli ma anche nipoti e pronipoti. Almeno io gliene ho procurati molti.
Un semplice prete che non ha fatto nessuna carriera ecclesiastica, che ha soprattutto predicato esercizi spirituali, che ha scritto libri di spiritualità e che è vissuto nascosto in una villetta di Settignano potrebbe far pensare ad una visione riduttiva della vita cristiana limitata alle religiose e ai mistici di professione. È vero assolutamente il contrario. La sua proposta è stata per tutti, la santità è per tutti. Si può vivere l'unione con Dio, essere segno della sua presenza nella propria professione, nel mondo, nell'impegno
È stato detto che questa è una generazione senza padri ed è per questo che sentiamo la nostalgia di Lui. Senza padri spirituali la Chiesa è un'associazione non una famiglia, i seminari spesso  ahimè  comunità terapeutiche, le comunità religiose senza certezze. I padri non si improvvisano, e devo dire che sono un dono che, come tutti i doni di Dio, ci dobbiamo meritare e preparare.
+  Giuseppe Mani
Arcivescovo emerito di Cagliari

Roma, 15 febbraio 2016
Nel decimo anniversario della morte del Padre