sexta-feira, 14 de junho de 2019

Don Divo Barsotti, Dio di fatto vive in te nella misura in cui la tua volontà fa posto in te alla Sua volontà

domingo, 7 de abril de 201

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Tutta la pena di un’anima religiosa è il dover vivere una sua vita, è il sentirsi ancora indipendente, perché una sua indipendenza dice esattamente che Dio non l’ha presa, l’ha lasciata a se stessa. Questo essa vuole: non compiere più alcun atto che sia suo, non essere libera più di un suo pensiero, giudizio, affetto, perché si faccia presente in lei il Signore.

 Ci si dovrebbe sentire morire quando compiamo un atto che non è di obbedienza, non perché è disobbedienza, ma perché quell’atto è ancora nostro. Nella misura in cui noi facciamo la “nostra” volontà noi viviamo la morte. San Barsanufio diceva che il nemico mortale della vita cristiana è la volontà propria. Uccidi la tua volontà e, nella misura in cui tu ti donerai questa morte, Dio entrerà nel tuo cuore. Non dovremmo consentire mai a una nostra volontà, dovremmo trovare gioia precisamente nel rinunciare a noi stessi, nel rinnegare noi stessi; è quanto ci insegna Gesù. 

Il Vangelo può consigliare la povertà, la castità, ma insiste di più sull’abnegazione di sé: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34), dice Gesù. Egli stesso è il povero, ma è soprattutto il “Servo di Jahweh”. Nessuna virtù il Vangelo sottolinea di più nella vita del Cristo quanto l’obbedienza. Questa è la virtù che lo definisce come Salvatore del mondo; Egli di fatto ha salvato gli uomini in quanto è stato il Servo di Dio che aveva annunciato Isaia, Colui che si è abbandonato senza aprir bocca alla morte per compiere i voleri del Padre (cfr. Is 53,7). * * * Sì, bisogna che nessun atto si sottragga all’esigenza della volontà divina. 

Dio che ti ama ti vuol possedere totalmente: questa è la sua volontà. Non le tue opere Egli ti chiede, ma te stesso. La Sua volontà è la tua pura obbedienza. Dobbiamo andare avanti per la via dell’obbedienza gioiosamente; è la via della morte perché è la via dell’amoreSolo attraverso l’obbedienza doniamo realmente noi stessi a Dio. 

Attraverso la morte così si realizza la resurrezione gloriosa, la vita divina trabocca nella nostra anima, e Dio ci possiede. Sostituzione in qualche modo della volontà divina alla volontà dell’uomo, la vita di Dio in noi esige l’obbedienza, cresce con l’obbedienza come la vita di fede esige e cresce con l’umiltà. Così l’umiltà vera è figlia della fede, come l’obbedienza lo è dell’amore. Per questo Gesù nel Vangelo di san Giovanni ci dice: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv 14,15), e ancora: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama” (Gv 14,21).

 La vita cristiana è obbedienza; non si vive la vita cristiana perché siamo casti, non si vive la vita cristiana perché siamo poveri, ma si vive la vita del Cristo perché siamo obbedienti. Non sono certo i comandamenti che ci fanno cristiani, che ci fanno vivere, ma la volontà di Dio che in essi si manifesta. 

Accettando i comandamenti l’uomo fa posto in sé a Dio, nella sua volontà. Le parole più grandi per la vita religiosa nel Decalogo sono le parole che promulgano la Legge: “Io sono il Signore, tuo Dio” (Es 20,2). L’uomo accetta dunque e fa posto in sé a Dio e alla Sua volontà. Fin dall’inizio i precetti negativi suppongono l’obbedienza, ma quanto più suppongono l’obbedienza alla volontà divina i precetti positivi!

 Dio di fatto vive in te nella misura in cui la tua volontà fa posto in te alla Sua volontà, ed Egli è Atto puro, carità infinita! Se all’inizio la vita cristiana può consistere in un non fare, il progresso della vita divina nel cuore dell’uomo si esprimerà in un’obbedienza sempre più perfetta a una volontà che impegnerà l’uomo sempre più, finché non consumi tutte le sue possibilità.

Divo Barsotti, L'INVOCAZIONE AL NOME DI GESU'

"L'invocazione al nome di Gesù non è certo un metodo di sicura efficacia per la vita contemplativa. La contemplazione è dono «soprannaturale» nel senso preciso che ha questo termine in S. Teresa. Dipende cioè da un dono gratuito di Dio. Ma l'invocazione al Nome è il metodo che più efficacemente dispone l'anima ad accogliere il dono. Concentra tutta la vita dell’anima nell’attesa del Cristo e l'anima che invoca non ha altro motivo di speranza che la
propria miseria riconosciuta e sentita. Questa essa espone dinanzi al suo Dio per implorare la sua venuta. La grazia cesserebbe di essere grazia se l'anima credesse di avere un qualche diritto al farsi presente di Cristo nel suo intimo centro, ma essa tuttavia non può
dubitare che l'infinita Misericordia voglia colmare l'abisso di umiltà e di miseria che l'anima medesima le ha aperto dinanzi.
Viviamo la formula di questa preghiera!
È uno dei mezzi che la Tradizione ci mette nelle mani e ci consiglia per giungere alla santità. E alla santità noi ci siamo impegnati.
Ringraziamo Dio che ci dà questo mezzo semplice, chiaro, umile, ma efficace. Non dico che sia facile: facile è quello che non costa e non ha efficacia - l'efficacia di un mezzo non si misura certo dalla fatica che ne esige l'uso, ma non è però senza quella fatica. Dio ha voluto che il frutto di un nostro lavoro dipenda anche dalla fatica che questo
lavoro ci chiede. Questo è sempre vero. Se è vero nella vita naturale, umana - perché anche nella vita naturale ed umana è soltanto dal lavoro, dall'impegno, da un'applicazione faticosa
e che costa, che deriva un frutto efficace e duraturo per la nostra vita quaggiù - è vero anche nella vita soprannaturale. È vero che nella vita soprannaturale noi dipendiamo dalla grazia di Dio, ma la grazia di Dio non ci dispensa dalla nostra cooperazione, anzi la provoca e la esige. Dio, come si è detto, non lavora senza di noi, ma attraverso di noi. L'efficacia della grazia si manifesta nella capacità che ci dona d'impegnarci. Così nell'impegno effettivo delle nostre potenze tese a realizzare questa continua preghiera, questa continua attesa del Cristo, si farà evidente per noi la grazia di Dio."
" L'invocazione a Gesù opera lo spogliamento, elimina i pensieri, e riduce tutta la vita interiore all'unità. L'esercizio dell’ascesi cristiana è semplificato: l' invocazione continua è sufficiente a purificare il cuore dell'uomo dal quale procedono, secondo la parola stessa del Salvatore, tutti i peccati come scorre da cattiva sorgente acqua putrida e infetta. [...] Così l'invocazione del nome di Gesù purifica l'anima in un processo di unificazione interiore, scioglie l'anima da ogni legame e la svuota di ogni imagine, di ogni pensiero, precisamente in quanto fa presente nell'anima il Cristo. La purificazione dell'anima non precede questa presenza. Ma in questa presenza che via via sembra sempre più come radicarsi nell'intimo e riempire ogni vuoto interiore, lo spirito umano acquista fermezza, stabilità, purezza, luminosità. La presenza del Cristo lentamente trasforma l'intimo dell'uomo, lo purifica e illumina insieme. Fa dell’anima il vero tempio di Dio."
Don Divo Barsotti - dal libro "Meditazione sulla preghiera a Gesu' "
p.s. nella foto : Il nome di Gesù (Yeshu'a) in aramaico inciso su una pietra

DON DIVO BARSOTTI, C.F.D. LA DOTTRINA E LA PRATICA: LA GLORIA DEL SIGNORE

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DON DIVO BARSOTTI, C.F.D.
LA DOTTRINA E LA PRATICA:
LA GLORIA DEL SIGNORE



Uno dei testi più grandi di San Paolo è il capitolo dell'Ora di sesta, alla festa della Trasfigurazione: 'Noi tutti a faccia scoperta contemplando la gloria del Signore siamo trasformati nella stessa immagine di chiarezza in chiarezza come dallo Spirito del Signore'. È uno dei testi più belli di tutto il Nuovo Testamento, è uno dei testi più densi di dottrina, e uno dei testi soprattutto più importanti per il cristiano. In questo testo di fatto vi è tutto il programma della sua vita, se la vita cristiana è vita di fede, è vita di preghiera e di contemplazione. E la contemplazione, nel Cristianesimo, è transformante.

Per questo, nella misura che noi contempliamo la luce ci trasformiamo nella luce, di gloria in gloria, in un processo che per la potenza dello Spirito sempre più ci assimila a Cristo e in Cristo a Dio.
Il testo richiama due volte la gloria: l'uomo contempla la gloria per irraggiarla da sè.
Prima di tutto l'anima vive nella presenza di Dio, vive nella sua luce, ma contemplando la gloria ineffabile di Dio diviene essa stessa luce, così, come un cristallo, illuminato dal sole, deviene egli stesso sorgente di luce.
Il primo dovere è quello di vivere in questa presenza, di vivere in questo visione, di contemplare Dio, di essere illuminati dalla luce del Signore.
Il secondo dovere che deriva necessariamente dal primo, è essere segno per gli altri: nella misura che contempliamo, noi stessi siamo illuminati, ed essendo illuminati diveniamo per li altri il segno della gloria.
Ogni cristiano deve essere rivelatore del Padre, come Cristo; segno di una presenza, come Gesù. Egli si è reso invisibile agli uomini, Lui che ha detto a Filippo: 'Chi vede Me, vede il Padre', perchè vuol rendersi visibile in ciascuno di noi. Il Cristo deve farsi presente nelle sue membre, in noi stessi.
Noi ci siamo chiesti quale rapporto hanno la festa dell'Epifania e la festa della Trasfigurazione in quanto feste della gloria?
La risposta a questa domanda implica una qualche nozione della gloria. Come si manifesta la gloria? Quale rapporto vi è fra la manifestazione delle gloria nell'Epifania e nella Trasfigurazione di Cristo?
Accenniamo che cosa dobbiamo intendere per la 'gloria'.
Credo che lo intuiamo senza poterlo definire chiaramente, come avviene sempre nel Cristianesimo in cui la verità è posseduta prima di esser formulata. Ogni elaborazione teologica non è che la traduzione concettuale di una realtà vissuta, di un mistero presente al quale il fedele partecipa. Quello che un teologo insegna non è mai totalmente nuovo per coloro che ascoltano. Anche se coloro che ascoltano fino a quel momento non avrebbero mai saputo esprimere quanto il teologo insegna. All'infallibilità del magistero della Chiesa risponde l'infallibilità del popolo cristiano, il quale può assentire all'insegnamento proposto in quanto 'sente' in quello che gli è proposto la traduzione di quanto già confusamente possedeva. Egli infatti nel dono dello Spirito già confusamente possedeva. Egli infatti nel dono dello Spirito già aderisce misteriosamente 'a tutta la verità'.
Definire che cos'è la gloria, in realtà è ben difficile. Intanto dobbiamo ricordare che quando si parlar di 'gloria' ci si riferisce a 'qualcosa' che appartiene esclusivamente al dominio della Rivelazione. Per i greci non esiste la realtà che questa parola esprime: 'doxa' in greco vuol dire opinione, e nella lingua del nuovo testamento 'doxa' vuol dire gloria. Il Cristianesimo e prima ancora l'Ebraismo, ha dato un contenuto nuovo a dei termini vecchi. Se per gloria, come dice San Tommaso, noi intendiamo soltanto 'una chiara notizia', lo splendore che porta con sè la bellezza, la potenza, la vita, questo concetto forse si potrebbe trovare anche nella lingua greca, ma non è esattamente questo il contenuto del termine biblico.
Nella rivelazione ebraico-cristiana 'gloria' ha prima di tutto un significato oggetivo: è il peso dell'essere, è l'essere trascendente di Dio che non ha alcuna proporzione con l'essere creato e che nella sua manifestazione, si direbbe, dissolve tutte le cose. Le creature non sopportano il peso di Dio.
La gloria è in rapporto col peso. Anche San Paolo nella lettera ai Corinzi parla del 'pondus gloriae'. 'Non vi è paragone, - egli dice, - fra le sofference del tempo presente e il peso di gloria che ci aspetta nella vita futura'.

La gloria è un 'peso'. È la presenza di un Essere che pesa, che schiaccia. Dio ha tale forza, tale grandezza che nella sua presenza vien meno la creazione intera. La gloria di Dio, prima di tutto, si direbbe che uccide e distrugge tale è la sproporzione tra l'essere creato e il Creatore. La creazione stessa si dissolve come fumo alla presenza di Dio.
'Nessuno può vedermi e vivere', dice Dio stesso nell'Antico Testamento. Com'è possibile allora che questa gloria si manifesti, se la sua manifestazione di fatto distrugge le cose?
Il peso di Dio, in Sè medesimo, non è ancora la gloria. La gloria di Dio è 'questo Essere divino' che, facendosi presente dà alla creatura il senso della Sua pienezza, della Sua forza, della Sua trascendenza, del Suo peso. Distrugge la creatura ma perchè la trasforma.

La gloria di Dio implica una visione, una comunicazione di Dio....: la gloria è Dio che si dona ma proprio perchè il dono è reale e non vi è proporzione tra l'essere creato e Dio, l'essere creato non può sopportare il peso di Dio, non può accoglierlo che venendo meno in qualche modo a se stesso.

La creatura vien meno, per risorgere in Dio. Per la gloria la creazione entra nel mistero di Dio: Dio è incomunicabile, ma nella sua gloria Egli si comunica al mondo. E il mondo che entra in rapporto con Dio per la gloria, tanto più partecipa alla gloria di Dio quanto più entra nel suo mistero.

Proprio perchè DIO è un'altra Realtà nei confronti della realtà creata, nella misura che Dio si manifesta, coloro a cui si manifesta, entrano nella invisibilità di Dio, entrano nel segreto di Dio, scendono nel silenzio, precipitano e spariscono nella luce divina, affondano in Dio e sono sommersi.

Vi è un rapporto di continuità fra la grazia e la gloria - così tu, pur essendo già in Dio, continui a vivere anche quaggiù la grazia già ti trasferisce nel seno di Dio ma non totalmente; così tu, pur essendo già in Dio, continui a vivere quaggiù in una condizione ei esilio, di lontananza, di estraneità al mondo divino.

Ma già la grazia è la comunicazione che Dio fa di Se stesso, comunicazione per la quale Egli trae le creature, che aveva solevato dal nulla, nel suo stesso mistero. Dio l'ha stabilita nell'essere, ma per Iddio l'averla creata è soltanto condizione per poi trarla nel suo segreto, nel suo mistero, nel suo intimo Seno.

Questo processo onde la creature è tratta nel segreto di Dio è il cammino della vita religiosa, è il cammino stesso della rivelazione divina, il cammino perciò della gloria.
Questo processo termina con la morte, perciò con la morte l'uomo esce definitivemente da questa realtà creata e precipita nella Realtà divina: questo è l'ultimo atto di una comunicazione che Dio mi fa di Se stesso, comunicazione che esige precisamente la fine della condizione di vita che è propria della creatura come tale.

All'inizio Dio si rivela, si direbbe, nel modo più clamoroso. La trascendenza di Dio si svela agli uomini nei fenomeni più straordinari, negli avvenimenti cosmici, nella creazione intera.
Avanti di Abramo e anche dopo nelle religioni che non hanno acceduto alla rivelazione profetica, Dio è conosciuto attraverso i grandi avvenimenti del cosmo: le stagioni, l'uragano, il terramoto, l'immensità dei mari... sono manifestazioni di Dio. Dio esce nella sua gloria dal suo segreto: e attraverso questi avvenimenti l'uomo è chiamato a percipire un'altra Realtà, a rendersi conto del peso di un altro mistero di cui questi avvenimenti sono il segno soltanto.

Nella religione cosmica il rapporto con Dio si stabilisce attraverso questi avvenimenti straordinari di una imponenza magnifica che schiacciano l'uomo, lo atteriscono, tuttavia principalmente sul piano fisico. L'uomo si sente minacciato e sgomento. Dio non si fa vicino all'uomo che suscitando lo sgomento della morte.

Quando Dio si fa più vicino, la rivelazione si fa meno impressionante sul piano esterno e l'uomo è sollecitato ad entrare finalmente nel mistero di Dio.

Mentre nella rivelazione cosmica Dio rimane lontano, nella rivelazione profetica Egli si fa vicino all'uomo, entra nella sua storia. La manifestazione della gloria di Dio non ha più un legame soltanto con gli avvenimenti del cosmo, ha un legame con la storia dell'uomo. Dio si è fatto più vicino all'uomo e l'uomo Lo scopre, ora, nella sua medesima vita, nella sua medesima storia.
Ma la rivelazione ultima è quella del Cristo: Dio non soltanto si fa vicino ma veramente si dona e si comunica nell'umiltà più profonda di una vita comune.
Via via che Dio si avvicina all'uomo e la rivelazione divina si fa più piena, ma anche più intima all'uomo, anche l'uomo procede in un cammino di libertà e di responsabilità. All'inizio quando Dio gli parlava attraverso la natura era difficile e quasi impossibile per l'uomo poter sottrarsi alla sua luce, allora l'umanità poteva essere idolatra, ma era religiosa; oggi, al contrario, ci si domanda se è possibile che permanga la fede senza la religione. Sembra che l'umanità proceda verso una età che non avra più religione. Forse è esagerato, anzi forse è del tutto impossibile che l'umanità si incammini verso questa età. 

Tuttavia è vero che il processo della rivelazione divina terminando nel Cristo non riconosce più nella natura il 'segno' più alto di Dio. Il 'segno' più alto di Dio è l'uomo. Ma l'uomo può negarsi ad essere segno. Di qui il carattere di maggiore discontinuità che ha il fenomeno religioso per il mondo di oggi. 

La fede che l'uomo presta a Dio diviene sempre più un atto libero - non si fonda più sul rapporto necessario che l'uomo ha con una natura ancora sacra e rivelatrice di Dio. In questo cammino se Dio dunque si fa più intimo all'uomo, anche più si nasconde. La 'secolarità' del mondo moderno di cui spesso si parla, è ambigua - può essere la testimonianza più alta di un'esperienza di Dio non pero 'altro' dall'uomo ma divenuto veramente uno con lui nel primo fulgore della rivelazione cristiana, ma può essere anche l'essenza vera di Dio, può essere per l'uomo 'la morte di Dio'.

È estremamente difficile vivere il Cristianesimo: noi siamo ancora dei primitivi, nella nostra religione ancora si avverte più Dio nel terremoto o nell'immensità del mare, di quanto non si avverta nel Cristo, di quanto non si avverta e non si comunichi con Lui nel Mistero eucaristico.

Siamo estranei ancora al mistero di Dio. In realtà la gloria più alta di cui l'uomo abbia mai avuto esperienza quaggiù è stata ed è la rivelazione che Dio ci ha fatto di Sè, nell'umiltà di Gesù. La rivelazione della gloria nell'umiltà di Gesù è veramente per l'uomo un discendere, un entrare proprio nell'intimo seno della divinità. In Cristo infatti veramente la natura umana è stata assunta da Dio. La gloria di Dio non più come nella rivelazione cosmica manifesta Dio nel peso di uno sgomento di morte, la gloria ha invece il peso di un amore che l'uomo non riesce a concepire e a contenere in sè. La creatura non saprà mai credere pienamente a questo amore.

Anche per i Santi la cosa più difficile è credere all'amore di Dio nel Cristo. Credere cioè che l'Infinito, l'Immenso in tal modo ci abbia amato da farsi davvero nostro fratello, da divenire veramente figlio dll'uomo così che l'uomo lo possa portare sulle braccia, lo possa stringere al cuore.

Altro il peso della grandezza divina che ti minaccia di morte nel terremoto, altra la rivelazione dell'amore di Dio nell'umiltà di Gesù! L'umiltà, la debolezza dell'infanzia del Cristo è qualche cosa che non ha proporzione assolutamente nè con tutta la creazione nè con tutta la storia del mondo. È un abisso, una immensità infinitamente più vasta di ogni tuo spirito. Come non vi è proporzione fra la materia e lo spirito, così non vi è proporzione fra una gloria che si manifesta nella potenza degli avvenimenti del cosmo e la rivelazione della gloria che si manifesta invece nella delicatezza, nell'umiltà di un amore che si spoglia di tutto per tutto donarsi.
La rivelazione suprema di Dio è questo 'sparire' di Dio nella umiltà del Cristo. E questo 'sparire' di Dio nell'umiltà del Cristo accenna e prepara il totale sparire di Dio come 'altro da te' nella vita futura

Nella vita futura la gloria è semplicemente il superamento della dualità: Dio non è più 'altro da te', rimane la distinzione della creatura da Dio, ma la distinzione sussiste nella unità: tu non dici che Dio, tu non sei più che Dio, tu sei la sua santità, la sua vita. Non puoi cercare al di fuori di te una visione di Dio: la visione beatifica si identifica al possesso di Dio, si identifica alla tua 'Unità' con Lui alla tua trasformazione in Dio stesso. Rimane la distinzione ma nella unità. In questa unità non è soltanto l'uomo che sparisce come altro da Dio, è anche Dio che 'sparisce' come altro dall'uomo. Sparisce come 'altro' da te.

Il cammino della gloria è precisamente un cammino di umiltà. È il cammino infatti onde l'uomo entra sempre più nell'abisso di Dio e sparisce e non rimane più che la luce divina. Dio si comunica in tal modo all'uomo che l'uomo non lo può trovare più al di fuori di sè. Prima lo vedeva nel cosmo, poi lo riconosceva nella sua medesima storia, poi Dio entrava nella sua medesima vita finchè Egli diveniva Uomo diveniva lui stesso. Di fatto, nella misura che Dio rimane 'altro' dall'uomo l'uomo è nell'inferno. L'inferno è la divisione. (Non la distinzione perchè la distinzione rimane eterna, ma la divisione).

È per noi estremamente difficile vivere la festa della gloria nel seno del Cristianesimo.

Per noi Dio sembra manifestarsi di più nella luce di un tramonto o nella solennità del silenzio dei monti, che nella nostra umile vita, che nei nostri poveri sentimenti umani. Di fatto tuttavia, l'atto supremo di una comunicazione di Dio nella vita presente è la semplicità di una Comunione Eucaristica. L'atto supremo della gloria quaggiù è perciò una comunione onde Dio si dona a te ed entra in te e tu Lo possiedi nella umiltà di un suo nascondimento totale, che implica anche un tuo nascondimento in Lui. In tanto Egli di fatto si manifesta nel suo nascondimento e tu Lo ricevi in quanto tu stesso entri nel suo occultamento divino.

La rivelazione suprema della gloria non potrà mai avvenire, comunque, nella vita presente, ma avviene con la morte, perchè è precisamente con la morte che l'uomo precipita definitivamente nel silenzio di Dio. Così la gloria d'identifica al silenzio e alla morte.
Ma è nel Cristo ora che Dio si rivela (e non è detto che anche domani non debba essere il Cristo, ma domani in quanto in Lui io sono già trasformato, oggi in quanto il Cristo ancora mi parla come fosse altro da me) 'Filippo chi vede me, vede il Padre'.
Proprio per questo la gloria di Dio è sollecitata oggi dell'uomo nel mistero della Epifania e della Trasfigurazione.

Nell'Epifania è Dio che si rivela al 'mondo'. L'accento vien posto su Dio. Nella Trasfigurazione è l'uomo 'il mondo di quiaggiù', che sia pur furtivamente, entra nella gloria divina. L'accento vien posto sull'uomo.
È la medesima gloria, ma noi la contempliamo in due misteri distinti: nell'atto onde Dio si rivela agli uomini, nell'atto onde gli uomini entrano in questa gloria. Nella prima festa la Chiesa celebra l'Epifania di Dio nella debolezza e nella impotenza di Gesù Bambino, nella seconda, al contrario, celebra la Trasfigurazione dell'Uomo Gesù investito della gloria di Dio.

La gloria di Dio si manifesta nella debolezza dell'infanzia perchè questa debolezza non suppone alcuna collaborazione dell'Umanità di Gesù alla manifestazione della gloria: nella sua debolezza, nella sua impotenza Egli è la Gloria. Il Vangelo insiste in modo particolarissimo nel farci riconoscere nei misteri dell'infanzia la manifestazione della gloria. Il Verbo non ha bisogno di particolari atti compiuti dalla sua Umanità per riverlarsi al mondo: nel suo stato di debolezza, di umana impotenza, di umiltà, Egli è la Gloria. 'Gloria a Dio nell'alto dei cieli', hanno cantato gli Angeli sopra la grotta di Betlem.
Da adulto la gloria si rivela in Cristo attraverso una collaborazione della sua Umanità all'azione di Dio che si comunica al mondo. Così il mistero della Trasfigurazione è legato, nei Vangeli sinottici, alla Passione. Nella Trasfigurazione è veramente l'Umanità che entra nella gloria ed è trasfigurata da Dio, ma vi entra attraverso una partecipazione, una collaborazione, consapevole, libera e piena di amore.

Nella misura che l'uomo è quello che è, povero, debole, impotente, Dio già lo fa segno della sua presenza, perchè Egli l'ha assunto e ne ha fatto lo strumento e il sacramento della sua gloria immensa.
Ma l'uomo deve anche entrare progressivamente in questa luce collaborando all'azione stessa di Dio. Così il mistero dell'Epifania e quello della Trasfigurazione sono celebrati proprio perchè la celebrazione è anche partecipazione al mistero.

Ognuno di noi è segno già di una presenza di Dio, lo è non nella misura che è grande, che è potente, ma nella misura della sua impotenza, della sua debolezza, della sua umiltà. Dio che ha assunto la natura umana in Cristo per rivelarsi in questa natura, in atto primo ha assunto anche ogni uomo.

E tu devi riconoscere il segno di Dio nella umiliazione dell'uomo, nella sua povertà. Così insegna giustamente la spiritualità ortodossa e specialmente russa. Ecco come noi dovremmo avvicinarci (perchè altrimenti non sapremmo riconoscere in Gesù bambino il Figlio di Dio) ai poveri, ai sofferenti, agli umili; a questi uomini che sembrano non valere, non essere nulla agli occhi del mondo: essi sono il segno di Dio.

Dio non si rivela più tanto negli avvenimenti cosmici e nemmeno negli avvenimenti storici, ma nella debolezza di un Bambino che non sa parlare, si rivela nell'impotenza di un Bambino che ha bisogno di difesa, si revala null'umiltà di un Bambino deposto su una mangiatoia. La gloria di Dio non si rivela nei miracoli del Cristo come si rivela in questa sua debolezza ed impotenza.
Proprio nella misura che Dio si fa presente, riduce l'apparato della sua grandezza. 

E ogni uomo participa del mistero della gloria di Dio che si rivela nell'impotenza, nell'umiltà di Gesù bambino, nella misura che ogni uomo è povero, debole come Lui, nella misura che è quello che è, una povera creature. Non potremo avere una rivelazione più alta della gloria divina che di saperci, di sentirci il termine di un Amore immenso.

E la nostra povertà che potrebbe sembrarci un ostacolo insuperabile è il segno precisamente della più meravigliosa rivelazione dell'amore divino; proprio perchè siamo poveri si manifesta più grande l'amore di Dio in noi. Noi non possiamo che aprirci a uno stupore senza fine nel saperci amati, nel sentirci amati per nulla.
È proprio la povertà dell'uomo che dice l'incommensurabilità dell'amore divino; è proprio la nostra debolezza che dice l'insondabile ricchezza della misericordia infinita. Dio si rivela precisamente in questo come Dio, per il fatto che ci ama, per il fatto che si dona a noi, per il fatto che Egli ha voluto esser una cosa sola con noi, non scegliendo la grandezza umana, ma scegliendo la nature umana spoglia di qualsiasi valore che non fosse la sua debolezza e la povertà di creatura.
Realizzare tutto questo vuol dire vivere veramente il nostro cristianesimo nel senso più pieno e più vero.

Per il mistero della Trasfigurazione l'uomo partecipa alla gloria attraverso una sua collaborazione umana. Ma la collaborazione è sempre ben povera cosa.
Se l'atto supremo onde l'uomo entra nella gloria è la morte, il sottrarsi definitivo dell'uomo alla vita presente, tuttavia la morte non può mai che essere accettata dall'uomo. La collaborazione che Dio chiede all'uomo non sarà che l'impegno di una volontà che si libera, si scioglie da ogni legame e si offre puramente a Dio. Non si vuole appartenere più, si lascia investire da Dio, si lascia possedere da Lui, si strappa a se stessa per abbandonarsi all'amore di Dio come alla morte.
* * *
Per noi cristiani, la gloria di Dio dunque non è più (anche se non è esclusa) la rivelazione che Dio fa di Se stesso attraverso la creazione e non nemmeno più la rivelazione che Dio fa di Se stesso attraverso una storia in cui Egli stesso interviene: è l'uomo che Egli ha assunto in unità di persona.

A una prima visione sembrerebbe che la gloria di Dio, nella sua manifestazione, vada diminuendo. Da una manifestazione di avvenimenti cosmici a una manifestazione di umiltà; da una manifestazione di potenza ad una manifestazione che si riduce quasi al nulla. In realtà se noi siamo scandalizzati da questo processo, lo siamo perchè noi rimaniamo estranei al processo stesso, non abbiamo cioè camminato con Dio.
Se tu rimani estraneo a Dio, Dio, per te, si occulta sempre di più. Se invece ti lasci prendere da Lui, tu stesso entri nel segreto divino, tu stesso entri in Dio.
L'occultamento di Dio allora è il to stesso occultamento in Lui. Non è perchè Egli ti è estraneo che rimane nascosto, è al contrario perchè tu stesso ti assimili a Lui e quasi in Lui stesso ti perdi.

Per chi rimane al di fuori di Dio, certo, il Bambino Gesù non sembra più nulla. Mentre nessuno può rimanere indifferente a uno sconvolgimento cosmico, molti possono rimanere indifferenti di fronte al sorriso di un bambino. Se noi non rimaniamo indifferenti ad una rivelazione che ci colpisce dall'esterno (appunto perchè viviamo all'esterno) possiamo rimanere invece indifferenti ad un rivelazione che si fa soltanto nell'intimo.

Proprio perchè Dio si è comunicato più intensamente, più personalmente, questa comunicazione di Dio non avviene più in tal modo da colpirti dall'esterno: deve invece realizzarsi nel più intimo del cuore. Se tu rimani fuori di te, nessuna rivelazione si compie per te: Dio si fa vicino ma tu non ti incontri con Lui. È proprio avvicinandosi all'uomo che Dio gli diviene sempre più estraneo se l'uomo non entra in se stesso, non lo cerca nel suo intimo cuore.
La maggior parte, anche degli uomini sente ancora la presenza di Dio più dinanzi all'immensità dei mari che in una piccola cappella odorante di incenso.
Così avenne anche fra i popoli in mezzo ai quali viveva Israele: Israele sapeva riconoscere Dio nella sua storia, gli altri popoli no. Ma soprattutto, così è avvenuto per la maggior parte degli uomini quando Dio si è fatto uomo: pochissimi seppero riconoscerlo. 

Perfino agli Apostoli, che erano vissuti con Lui per tanto tempo, Gesù deve dire: 'Filippo, da tanto tempo io sono con voi e ancora non me avete conosciuto. Filippo, chi vede me, vede il Padre'.
L rivelazione suprema implica l'occultamento più grande. Quanto più la nostra vita religiosa diviene profonda, tanto più, non solo diviene segreta, ma divience semplice, perde ogni apparato esterno, si spoglia, si fa pura come la luce. Non è' così la vita di Maria SS? Forse la stessa Annunciazione si è compiuta in una ispirazione interiore (e san Luca, forse, ha dovuto descriverla in termini di visione, perchè altrimenti noi non avremmo capito): Maria SS. che viveva nell'intimità più profonda sapeva discernere la venuta di Dio, anzi viveva più grandemente la visione della gloria quanto più la visione era intima e segreta.

Veramente quanto più Dio si comunica all'uomo e l'uomo entra nella gloria divina, tanto più rimane nascosto da questa medesima luce. La realtà dello spirito è più proporzionata a Dio della realtà fisica. È questa realtà che perciò è maggiormente significativa di Dio. La visione della gloria è più pura e più grande quanto più è spirituale. Più che nei grandi avvenimenti, è nel piano personale di una comunione di amore che si manifesta la gloria di Dio.
La suprema manifestazione della gloria è l'amore di un Dio che muore per l'uomo. È il dono dello Spirito onde Dio si fa intimo all'uomo. Mai nessuna filosofia, nessuna religione avrebbe potuto immaginare una cosa simile. La fede cristiana veramente sconcerta, scandalizza e sgomenta. E se noi non siamo sgomenti e sconcertati è perchè noi ripetiamo sì le formule del catechismo, ma non ci preoccupiamo di realizzare quello che esse vogliono dire per noi.

Vorrei dirvi quello che ho provato ieri, per due minuti, forse anche meno, durante la mia adorazione della sera: sentivo che il mio atto era tutta la vita, tutta la realtà: Dio si comunicava a me nella umiltà di quella mia esperienza umana, di quel mio vivere l'istante: Cristo era in me. E non esisteva più nulla al di fuori di me. Come potrei di fatto ricevere il Cristo, come potrebbe il Cristo communicarsi a me, se io non vivessi in quell'atto tutta la vita? Non è il Cristo tutto Dio e tutto l'uomo? Così al di fuori di quell'atto non c'era più nulla, e io vivevo in quell'atto la mia comunione col Cristo.
Eppure com'è difficile per noi vivere questo! Come pochi sono sensibili a Dio nella rivelazione cristiana! La rivelazione suprema di Dio si realizza per l'uomo quando egli si sottrae a tutto il visibile e precipita per sempre nella luce infinita: la morte. Allora davvero non rimane più che Dio. Dio si è comunicato finalmente all'uomo, così da divenire per l'uomo tutta la vita e tutta la realtà, così da non esistere più per l'uomo che Dio.

Parliamo con un linguaggio più semplice e più diretto: in che modo noi viviamo il nostro rapporto con Dio? sappiamo riconoscere Dio nella nostra umile vita, nella nostra esistenza reale? Come viviamo la nostra comunione con Lui?
Dobbiamo essere sensibili ad una divina presenza, ad una presenza che dà al minimo atto dell'uomo una grandezza che ha le misure stesse di Dio, perchè nell'atto dell'uomo, se l'uomo ha fede, confluisce nell'istante tutto il bene divino.

S'impone per me, non soltanto vivere nella presenza di Dio, come comunemente s'intende, quasi nel sentimento di una infinità nella quale sono sommerso, si tratta di vivere l'imensità di un amore che ha per termine me! che ha per termine questo mio istante di vita sul quale pesa l'immenso peso di gloria e di amore: Dio che mi ama!

La testimonianze che sembrano anche le più alte di una mistica religiosa non cristiana, sono ben povera cosa nei confronti di una vita cristiana. Fuori del Cristianesimo non è mai realizzata da impazzire di gioia se noi veramente vivessimo questa esperienza: Dio, cioè, che si comunica a ciascuno e tanto più si manifesta quanto più si manifesta come Amore che ha per termine nessun altro che l'uomo, ogni uomo cui totalmente Egli si dona.
Ma noi siamo come ciechi, viviamo immersi in questa luce, siamo l'oggetto di questa tenerezza infinita e ne rimaniamo come estranei, come estranei erano alla presenza del Cristo coloro che vivevano con Lui, i suoi 'fratelli'; i suoi discepoli stessi durante la sua vita mortale.

A noi, ora, si dona anche di più di quando Egli viveva nella sua vita mortale. Nel dono del suo Spirito ora Egli è veramente presente a ciascuno, ora veramente Egli si è fatto cibo dell'uomo per vivere in lui e per assumerlo in Sè. Veramente nel dono del suo Spirito Dio si comunica intimamente agli uomini e fa sì che gli uomini che lo ricevono, oggi e qui, possano vivere una vita divina!

È proprio per questo che il mistero dell'Epifania non è soltanto il mistero di una manifestazione della gloria di Dio nell'umanità di Gesù. È anche il mistero della manifestazione della presenza di Dio nell'umiltà del Cristo. E Cristo siamo tutti noi che siamo le sue membra. E Dio si rivela proprio nelle nostra povertà, e Dio vuole veramente esser presente e vive nella nostra umiltà; si rivela ed è presente, non a noi ma in noi e per noi al mondo.

Ognuno di noi, se è cristiano, è epifania del Signore. Essere cristiani vuol dire così essere della famiglia di Dio, vuol dire esser già entrati nel segreto di Dio, perchè, se Dio ci ha donato il suo Spirito, Dio in qualche modo ma realmente non è più senza di noi nè noi siamo senza di Lui. E noi siamo nella gloria; non vediamo semplicemente la gloria, in questa gloria già siamo in qualche modo trasformati.

Di qui nasce l'obbligo fondamentale della vita cristiana: la glorificazione di Dio. È il dovere che praticamente riassume tutta la legge del cristiano: essere la lode, essere la gloria di Dio.
E vuol dire lasciarsi investire, lasciarsi possedere da Dio. Altra gloria non puoi dare a Lui che quella di manifestarLo in te, che quella onde Lo riveli.

Il Verbo di Dio è la gloria sostanziale del Padre precisamente perchè il Padre tutto si comunica al Figlio e, nel Figlio, tutto Egli possiede. Così il cristiano tanto glorifica Dio quanto si lascia investire da Dio finchè egli non riveli più se non Dio solo. La glorificazione dell'uomo non è l'atto dell'uomo ma di Dio, è come un essere consumati dal fuoco della Divinità, così che nell'uomo non viva più che la Sua luce, non si faccia presente che la sua volontà. Certo, l'uomo rimane, ma rimane per attestare Dio. L'uomo rimane ma non dice più che Lui.

La vocazione dell'uomo è quella di essere Dio. L'uomo realizza se stesso soltanto se muore a una sua indipendenza, a una sua autonomoia nei confronti del Creatore e, lasciandosi investire dalla sua presenza, fa sì che Dio vive attraverso di lui, Dio si esprima, Dio si manifesti, Dio si riveli, Dio dica Se stesso attrverso l'essere creato.
Questo avviene nel Cristo.
La natura umana in tal modo è stata assunta dal Verbo che il Verbo ora 'si esprime' attraverso questa natura creata che è l'uomo.
L'uomo singolo che nacque dalla Vergine e tuttavia ogni uomo in cui in qualche modo si estende l'incarnazione divina. 

Quello che è avvenuto nell'uomo Gesù, questo deve avvenire così in ciascuno di noi. È vero che noi siamo persone distinte dalla Persona del Verbo, ma è anche vero che noi viviamo la nostra vocazione personale in quanto ci doniamo al Cristo e siamo posseduti da Lui sì da divenire con Lui un solo corpo, uno spirito solo.

Che cosa vuol dire glorificare Dio? Vuol dire lasciarsi investire da questa presenza in tal modo che tutto quello che in noi è 'proprio' sia consumato come ruggine dal fuoco e non rimanga che l'amore onde Egli ci ama e ci fa suoi.
Questa è la gloria che l'uomo deve dare a Dio: un lasciarsi possedere, investire, trasformare da Lui così che al termine Lui solo rimanga.

Ricordo che un amico mi fece leggere alcune pagine di un romanzo di cui non ricordo più il titolo. L'autore americano, Huxley mi sembra, imposta il suo romanzo a Firenze. Il suo protagonista è un libertino che, quando muore precipita nella Realtà. L'autore ci descrive l'esperienze di quest'anima che vuole difendersi dall'invasione della luce divina. Quest'anima sfugge a questa luce, ma pian piano questa luce (l'autore pensa che l'inferno non c'è) nonostante la resistenza dell'uomo, lo invade, lo trasforma e lo assimila a sè. Secondo l'autore la vita del cielo è questa luce pura, senza ombra alla quale domani ogni anima si dovrà identificare. 
Non possiamo dire che ogni anima si identifica a Dio, questa identificazione sarebbe un processo che dovrebbe escludere la responsabilità personale dell'uomo ed escluderebbe anche l'amore personale di Dio. Una concezione come quella di Huxley più che cristiana è gnostica. Tuttavia c'è qualcosa di vero in quello che egli dice. 

Mantenendo fermo che l'amore dell'uomo a Dio è un amore personale, libero, che implica una nostra responsibilità (Dio aspetta da noi una risposta); mantenendo fermo che l'amore di Dio ugualmente è un amore personale e non è una necessità di natura, possiamo accettarlo veramente: non vi è possibilità di un incontro fra l'uomo e Dio che se cessa il senso della dualità: Dio è l'Unico.
L''Advaita' degli indù non è ancora per sè il monismo assoluto: la 'non dualità' non è ancora l'unità in qui scompare ogni distinzione di Dio e della creatura ma è il riconoscimento dell'unità nella loro distinzione eterna.
Dio non più comunicarsi a te e divenire una 'tua' richezza, una 'tua' vita (sarebbe un negare Dio che Egli possa essere qualcosa e non tutto, possa essere qualcosa e non l'unico). Se Dio è Egli è tutto. Tu non puoi riceverlo che in quanto in Lui ti trasformi.

Qual è la gloria che tu puoi dare a Dio? Lasciarti possedere da Lui. Che Lui sia.
Che Dio sia Dio. In queste parole è la nostra risposta.
Che Dio sia Dio, è già ora la nostra preghiera. Perchè questo avvenga, si direbbe, che Dio nell'avvicinarsi all'uomo debba in qualche modo sparire, perchè anche l'uomo sparisca in Dio. È veramente un processo di amore. Nell'amore ognuno che ama vuole l'altro prima di sè. Dio, che ama, tanto più si avvicina tanto più si fa povero, diviene quasi nulla: il Dio creatore 'diviene' il Dio creature, il Dio Bambino. Ma anche l'uomo, nella misura che ama, l'uomo peccatore, che contro la volontà di Dio difende una sua libertà e vuole affermare se stesso anche contro Dio, rinunzia a ogni 'suo' volere, a ogni 'sua proprietà' per abbandonarsi come la Vergine Maria e si lascia possedere e non vive più una sua vita finchè non vive più che la sua morte. Non vivendo più che l'amore non vive più di fatto che la morte, perchè l'amore è la morte, è la morte di sè.

Tanto da una parte che dall'altra è un processo di umiltà e di morte. Ma Dio muore per vivere in te, e tu muori per vivere in Lui. Ed ecco che Dio, ora, non è più in Se stesso ma in te e tu, non vivi più in te stesso ma in Lui. Così come il Padre vive nel Figlio e il Figlio vive nel Padre. Non cercare più Dio fuori di te, Egli ora è soltanto in te, perchè Egli ti ama. Se fosse al di fuori di te non sarebbe l'Amore. Ma anche tu, se tu ami, non puoi trovarti più in te stesso, non ti ritrovi più che in Dio, non vivi più che in Lui solo.
Estratto dalla Rivista di Ascetica e Mistica (San Domenico di Fiesole, Firenze) 2 (1968), 119-133, Casa San Sergio-Settignano (Firenze).


quinta-feira, 13 de junho de 2019

quarta-feira, 12 de junho de 2019

Don Fabio Rosini: «Cari giovani, saper pregare è la via della felicità»


Siamo nel cuore di Roma. Dalle finestre della chiesa delle Santissime Stimmate di San Francesco osserviamo in silenzio largo Argentina. C’è il sole. Siamo qui per incontrare don Fabio Rosini e per trovare una risposta a tante domande.
Perché questo sacerdote severo, ma anche pieno di umanità, è da anni un punto di riferimento per tanti ragazzi della capitale? Perché le sue catechesi sono così partecipate, così apprezzate, così “contagiose”? Perché il suo primo libro, Solo l’amore crea, resta in testa alle classifiche da settimane senza nessuna vera promozione? Don Fabio non ama le interviste. Teme di non essere capito. Di apparire diverso da quello che è. Noi apriamo il suo libro e leggiamo una paginetta scritta in corsivo. È la dedica alla mamma e al papà che non ci sono più. «… Da loro ho avuto tante buone certezze, i migliori insegnamenti, eppure con loro sono stato ignorante e cattivo, li ho addolorati, offesi e spazientiti. Ma nessuno ha pregato per me più di loro. I conti non tornano». Quelle ultime quattro parole ci fanno pensare. «È così, i conti non tornano. Quello che faccio per Gesù Cristo è nulla rispetto a quello che Gesù Cristo fa per me». Ancora una pausa leggera. «Penso sempre all’oceano di generosità che Lui mi regala ogni giorno». Per qualche secondo gli occhi del sacerdote si fermano su un crocifisso. Era sul letto dei suoi genitori. «Papà, ordinario di fisica dell’atmosfera alla Sapienza. Era un uomo limpido, giusto. Mamma, con i suoi difetti, mi ha insegnato la forza della misericordia. E poi mi ha regalato la vocazione al sacerdozio».
Ci racconta quel “regalo”?
«Ero un diciasettenne con le asprezze di tanti diciassettenni. Ero arrabbiato. Qualche volta aggressivo. Un giorno passai il limite e umiliai mamma, davanti ad altre persone, con un disprezzo arrogante. Lasciò Roma disperata e si rifugiò in un paesino delle Marche. Passò ore nella cappellina dei frati cappuccini proprio accanto al cimitero. Pregò da sola. In silenzio, con le lacrime agli occhi, davanti all’immagine di Maria. Vede, ancora una volta, i conti non tornano: alla mia cattiveria, lei risposte con la sua umanità. Sette anni dopo, mentre partivo missionario per la Thailandia, mi raccontò la preghiera di quel giorno: «Sapevo che finiva così, sapevo che il Signore ti prendeva».





Chi è don Fabio Rosini?
«Ho sempre nella testa il ritratto che mi fece una mia collaboratrice. “Fabio, tu sei semplice quando parli perché sei complicato dentro”. È un po’ così: capisco le persone perché ho tante debolezze, tanti bivii aperti sul rettilineo. Sono un uomo molto debole, ma anche molto fortunato».
Fortunato?
«Sì, fortunato perché ho un alleato incredibile. Ho Lui al mio fianco. Guardo Cristo Crocifisso e scopro che per Lui valgo più della sua vita. Qualche volta uso un’immagine facile per farmi capire. Se San Marino dichiara guerra all’Italia ci facciamo una gran risata, ma se prima San Marino si allea con gli Stati Uniti non ridiamo più… Le grandi opere si fanno insieme a Dio, con il suo sostegno, con il suo sorriso. Da soli riusciamo a fare cose piccole, cose mediocri, cose destinate a non durare».
Lo dica con altre parole.
«Noi abbiamo potenzialità meravigliose se partiamo da quanto Dio ci vuole bene. Se partiamo da noi stessi siamo una delusione».
Che cos’è la preghiera?
«È l’alleanza che facciamo con Dio prima di andare a combattere. E l’alleato insieme al quale combattiamo».
Questa società sa pregare?
«Troppo spesso no. Troppo spesso è autoreferenziale, è ossessionata dal proprio ego. Spesso non centriamo il punto: pensiamo che il Cristianesimo sia una somma di regole e invece il Cristianesimo è una relazione. È innamorarsi di qualcuno. È un dialogo. Dio non è norma, è Padre».
Che vuol dire «sono un uomo debole»?
«So molto bene che mi manca tanto per essere quel prete che potrei e dovrei essere; in molte cose sono debitore – verso le persone che devo servire – di un amore maggiore, di un’attenzione molto più profonda, di una carità molto più vera».
Nell’estate del 1993 comincia quell’esperienza di catechesi per i giovani che va sotto il nome dei 10 comandamenti. Di che si tratta?
«Non c’è un’appartenenza. È un’esperienza di riconciliazione con Dio. Vera, profonda, contagiosa. La Verità è il perno. Tanti di quelli che fanno questo percorso mi dicono che la vita ha due parti: prima e dopo i 10 Comandamenti».
E com’è il prima e com’è il dopo?
«Prima è una vita a casaccio. Dopo una vita piena, dove si comincia a distinguere la luce dal buio. Si esce resettati. È come un’analisi del sangue: si capisce come si sta messi davvero».
Ma perché questa esperienza cambia la vita? Perché oggi è in ottanta diocesi in Italia e anche all’estero?
«Perché la gente non deve mai andare via da una Chiesa senza le tasche piene di speranza».
I giovani scommettono su don Fabio, ma lei scommette sui giovani?
«Credo nei giovani. Mi fido dei giovani. Perché sono fragili e poveri. Non hanno più punti di riferimento come nel passato e hanno fame di Gesù Cristo e di misericordia».
Ma sono o no superficiali?
«È una assurdità, una menzogna. I giovani hanno una bellezza interna strepitosa, basta dare loro una chance. Hanno una straordinaria voglia di vivere, ma va concessa l’opportunità di esprimersi dandogli credito. Se viene fatto questo loro volano».
Ma questo troppo spesso non viene fatto.
«È difficile per i giovani sopravvivere ad un mondo ambiguo, poco protettivo, scoraggiante. I ragazzi oggi non vengono curati, formati, aiutati, accolti, compresi, capiti. Penso poi alle vocazioni. Il problema non è che manchino i pesci da pescare, è l’acqua che manca. È un luogo dove prendere sul serio la vita dei ragazzi, dargli dignità, sostanza. Dare loro il diritto alla bellezza».
Che cosa fa soffrire? «Non è il corpo, è il cuore. Non è il dolore, è il non senso. Non è l’amore, è la solitudine».
E che cosa rende felici?
«Amare e lasciarci amare».
Amare non è facile.
«Se voglio fare cose mediocri basto io, se voglio vivacchiare basto io; ma se voglio amare non basto io. La Misericordia di Dio cerca la nostra povertà e la ama. E la nostra povertà, una volta amata, diventa Misericordia».
Sono passate quasi due ore da quando siamo entrati nella chiesa. Fuori c’è ancora il sole. Mentre scendiamo le scale ed entriamo in chiesa parliamo, per qualche minuto, del libro. Rileggiamo il titolo: Solo l’amore crea. Ci fermiamo sul sottotitolo: Le opere di misericordia spirituale. «Ho scritto davanti al Santissimo nella mia rettoria. Tante volte piangendo. Facendomi male. Lasciandomi inondare dalla tenerezza di Dio. Lasciandomi guidare su come si fa a spiegare un concetto. Ho voluto fare un viaggio da un contenuto al mio stesso cuore », ci ripete il sacerdote. Vogliamo capire ancora. Perchè quel titolo? «Sono parole di san Massimiliano Kolbe prima di essere ucciso ad Auschwitz. Solo l’Amore crea, solo l’amore dà forma meravigliosa a tutto ciò che compiamo». E perché la decisione di scrivere? «Perché il Cristianesimo troppo spesso appare brutto e invece va mostrato in tutta la sua bellezza. Perché Dio ci cerca nella nostra povertà e troppe volte non ce ne rendiamo conto».

Le opere di misericordia

Un libro significativamente uscito a conclusione dell’Anno Santo, di cui raccoglie numerosi spunti significativi a futura memoria. Solo l’amore crea. Le opere di misericordia spirituale (San Paolo, pp. 208, euro 9,90) è il primo libro di don Fabio Rosini, frutto di una lunga esperienza pastorale, che lo ha portato a diventare uno dei sacerdoti più amati della capitale. Il saggio di don Rosini, 55 anni, biblista, direttore del Servizio per le Vocazioni della Diocesi di Roma, titolare di una rubrica di commento al Vangelo su Radio Vaticana, già cappellano alla Rai, è noto soprattutto per le catechesi dei Dieci Comandamenti e dei Sette Segni, che porta avanti dal 1993, per mezzo delle quali ha aiutato molti giovani a ritrovare la fede o a scoprire una vocazione sacerdotale o religiosa. Tra le tante catechesi tenute da Rosini durante il Giubileo, un ciclo è stato dedicato proprio alle opere di misericordia, che hanno costituito la base per il suo saggio, accompagnato dalla prefazione di monsignor Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna (fino a un anno fa vescovo ausiliare di Roma).