Don Mauro Gagliardi è nato a Salerno nel 1975 ed è sacerdote diocesano del clero di Salerno-Campagna-Acerno dal 1999, ha conseguito il dottorato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana nel 2002, e la laurea quadriennale in Filosofia presso l’Università L’Orientale di Napoli nel 2008. E’ professore ordinario presso la Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum e professore incaricato dell’Università Europea di Roma nelle Facoltà di Storia e di Giurisprudenza, nonché nel Master in Architettura, Arti Sacre e Liturgia. Dal 2008 è Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice e dal 2010 della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Recentemente don Gagliardi ha pubblicato con l’editore Cantagalli un bellissimo libro intitolato “ In memoria di Me” sulla spiritualità sacerdotale. Il libro certamente passerà alla storia della spiritualità del ventunesimo secolo ...
... e consiglio vivamente a tutti i sacerdoti di leggerlo. Nel testo don Mauro si sofferma giustamente sull’importanza dell’abito ecclesiastico come segno importante per l’identità non solo esterna del presbitero e scrive:
“La Chiesa stabilisce che i sacerdoti vestano un abito diverso dagli altri, un abito che li distingue e li rende immediatamente riconoscibili. Essi sono rappresentanti pubblici di Cristo e della Chiesa. L’abito proprio del sacerdote diocesano è la talare.
La Chiesa oggi permette anche di utilizzare la camicia clericale, spesso chiamata clergyman. Sebbene la talare sia un segno di distinzione maggiore, entrambi sono ammessi.
Non è invece contemplata la possibilità che i sacerdote vesta abiti civili, come purtroppo spesso avviene. Di norma, questa abitudine si giustifica dicendo che in questo modo le persone si avvicinano di più a noi, si sentono più libere di esprimersi; invece l’abito sacerdotale crea distanza. Ma è proprio questo il suo valore, lungi dall’essere un danno!
Il sacerdote è a resta uomo, ma l’Ordinazione lo ha reso mediatore tra Dio e gli uomini. Pur essendo completamente al servizio di Dio e, per ciò stesso, del prossimo, egli non può semplicemente essere uno come gli altri. E’ preso di mezzo agli altri per un ruolo unico. Questo deve essere visibile anche nell’uniforme di servizio, nel senso più nobile dell’espressione. Un po’ di sana distanza non guasta.
Schiere innumerevoli di sacerdoti sono stati vicinissimi al loro prossimo e sono stati anche percepiti come veri padri, non nonostante, ma proprio grazie allo speciale rapporto che l’abito sacerdotale contribuisce a costruire. Non si tratta affatto di essere lontani dalla gente, ma neppure di essere semplicemente uno in mezzo alla gente: altrimenti, qual è lo specifico del ministro di Dio?
Nel noto film di R. Scott Il Gladiatore , vi è uno scambio di battute che ci può aiutare. Uno dei senatori giunge al Colosseo per assistere ai giochi e uno dei suoi colleghi lo apostrofa dicendo qualcosa del tipo: mi meraviglio di vederti qui, perché tu cerchi sempre di non mischiarti col popolo. Ma il primo ribatte: non pretendo certo di essere uno del popolo, ma uno per il popolo.
Per il sacerdote questa risposta si applica solo in parte. Egli è e resta uno del popolo di Dio, un battezzato. Ma, in quanto ministro ordinato, egli è anche uno per il popolo, con gli onori e soprattutto le responsabilità che ne conseguono. A volte alcuni sacerdoti meno populisti e più in favore del popolo, del suo vero bene soprannaturale e poi anche sociale.
L’abito sacerdotale è inoltre un aiuto notevole per il sacerdote stesso. Lo aiuta in ogni situazione a dare il meglio di sé, ad essere il più possibile aderente al suo ruolo, uniformando costantemente lo stile di vita al dono ricevuto. Portare l’abito, essere sempre e dovunque sotto osservazione in qualche modo ti forza dolcemente a vivere sempre il Vangelo. Il sacerdote che porta l’abito è riconoscibile subito ovunque e non solo quando celebra all’altare. E qui troviamo un altro aspetto fecondo del rapporto liturgico – vita sacerdotale. Si potrebbe sintetizzare così: non fare nulla nella vita che non faresti sull’altare. La sacralità della liturgia, il senso di raccoglimento necessario, la santità dei messaggi…tutto è scuola.
Il sacerdote deve trasportare nella vita questo stile. All’altare egli non farebbe mai nulla di cattivo, nulla di disordinato, ma anche nulla che sia fuori luogo, non confacente ai misteri di cui è ministro. Con i dovuti adattamenti dovuti alla diversità di situazione, il criterio vale, in generale, per il resto della giornata.
Il sacerdote non salirebbe all’altare senza gli abiti liturgici, così non uscirà per strada senza gli abiti sacerdotali. Il sacerdote non si mette a parlare in modo inappropriato, volgare, o con doppi sensi durante l’omelia; dunque per queste cose non c’è posto nei suoi discorsi, anche fuori. Il sacerdote non salirebbe all’altare senza essere puro nel corpo e nel cuore; dunque anche nella vita deve mantenere la perfetta continenza per il regno.
Il sacerdote non si metterebbe a ballare o saltellare durante la liturgia; dunque è opportuno che eviti ogni spettacolo ridicolo anche all’esterno della chiesa. In qualche modo riflettevamo già su tutto questo quando dicevamo che, anche quando è fuori di chiesa, il sacerdote deve vivere nel mondo con la nostalgia dell’altare, pensando sempre a quel luogo che è suo e dove dovrebbe sempre stare. Se penserà così, non gli verrà neppure in mente di comportarsi in un modo inadatto fuori di esso.
Ovviamente il criterio va applicato con intelligenza e buon senso, ma in generale esso è valido”.
Don Marcello Stanzione