segunda-feira, 10 de fevereiro de 2020

Don Divo Barsotti : tu devi vivere costantemente nella divina presenza come un pesce nell’acqua.

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CONTINUITA’ FRA LA TERRA E IL CIELO

Noi dovremmo arrivare a questo, e che cosa implica tutto ciò? Una cosa semplicissima: se Dio è questa luce ed io vivo in questa luce, io vivo già un’anticipazione della vita celeste. La vita quaggiù infatti non si oppone mica alla vita del cielo; fra la fede e la visione vi è un cammino continuo. La rottura c’è invece tra la non-fede e la fede, ma tra la fede e la visione c’è un cammino che ci porta alla visione immediata, quando totalmente obliando noi stessi e le cose, tutto ritroviamo in Lui. Infatti, Dio che è creatore non è in opposizione alla creazione, anzi la creazione è in Dio e un giorno conosceremo la creazione più di quanto la conosciamo ora, perchè la conosceremo nella sua sorgente.
Dobbiamo vivere allora il Cristianesimo come economia sacramentale. Quanti sono i sacramenti? Dicono sette; sì, sono sette e pur tuttavia tutto è sacramento – è una sacramentalità che è propria di questo libro, di questo tavolo, degli alberi … – tutto è sacramento perchè tutto per me deve divenire segno di una presenza divina. 
Non vedo che Dio, non conosco che Lui: è la realtà dalla quale veramente io sono totalmente preso, nella quale totalmente vivo. 
Un pesce può vivere fuori dell’acqua? No, dopo un po’ muore, non è vero? Così anche l’uomo: tu devi vivere costantemente nella divina presenza come un pesce nell’acqua. 
Dio deve essere in te, davanti a te, fuori di te: davanti, dietro, sopra, sotto, come dice san Patrizio in una preghiera: “Gesù in me, Gesù fuori di me, Gesù sopra il mio capo, Gesù sotto i miei piedi, Gesù davanti, Gesù alla destra, Gesù alla sinistra, soltanto Gesù, sempre Gesù!”. 
La luce di Dio deve essere tale da investirvi, penetrarvi, abbracciarvi totalmente, sicchè per me diventa quasi impossibile uscire da questa luce, come per noi è impossibile ora uscire da questo mondo. 
L’anima muore se esce dalla visione di Dio.
Don Divo Barsotti

Il Natale oggi per noi. Don Divo Barsotti 24-12-1983 - Ritiro di Natale


Prima Meditazione
Vigilia di Natale - L'incontro con Dio implica una novità assoluta per l'uomo, ed è sempre un morire e un risorgere


Siamo giunti dunque al Natale. Prima dei Vespri noi dobbiamo vivere l'ultima attesa di questo grande mistero. L'imminenza della celebrazione esige in noi un aprirsi di tutta l'anima nel desiderio e nell'attesa, così come fu nel desiderio e nell'attesa che il popolo di Israele si preparò negli ultimi secoli alla venuta del Cristo. Dobbiamo domandarci quale può essere questa attesa e di che cosa può essere questo desiderio per noi, che viviamo oggi l'imminenza della celebrazione natalizia.
Evidentemente, se pensiamo alla nascita di Gesù, non c'è da attendere quello che già è avvenuto. Se pensiamo alla fine del mondo presente per la seconda venuta del Cristo, per la manifestazione della gloria, dobbiamo dire che non siamo ancora preparati a questa venuta, oggi come oggi, dovremmo temerla., perché per la massima parte degli uomini la manifestazione del Cristo si risolverebbe in una grande catastrofe, in una dannazione quasi universale. Infatti gli uomini non sono più aperti ad accogliere la grazia; non conoscono più il Signore; in gran parte lo hanno rifiutato e quelli che non lo hanno rifiutato non lo conoscono più.
Dio ci dona di celebrare il Natale non come attesa dell'ultima manifestazione del Cristo e nemmeno come semplice ricordo di un avvenimento passato, ma ci dà la grazia di vivere questo Natale per un nostro in contro con Lui, incontro nuovo che non determina nulla nel Figlio di Dio, ma determina una vera nascita, un vero rinnovamento per noi.
Si tratta dunque di vivere oggi il Natale del Signore non come un avvenimento che riguarda il Figlio di Dio; del resto la stessa manifestazione ultima della sua gloria, non riguarderà, più l'umanità di Gesù glorificata, riguarderà l'umanità, che lo vedrà, come dice l'Apocalisse.  

un risorgere
Siamo giunti dunque al Natale. Prima dei Vespri noi dobbiamo vivere l'ultima attesa di questo grande mistero. L'imminenza della celebrazione esige in noi un aprirsi di tutta l'anima nel desiderio e nell'attesa, così come fu nel desiderio e nell'attesa che il popolo di Israele si preparò negli ultimi secoli alla venuta del Cristo. Dobbiamo domandarci quale può essere questa attesa e di che cosa può essere questo desiderio per noi, che viviamo oggi l'imminenza della celebrazione natalizia.
Evidentemente, se pensiamo alla nascita di Gesù, non c'è da attendere quello che già è avvenuto. Se pensiamo alla fine del mondo presente per la seconda venuta del Cristo, per la manifestazione della gloria, dobbiamo dire che non siamo ancora preparati a questa venuta, oggi come oggi, dovremmo temerla., perché per la massima parte degli uomini la manifestazione del Cristo si risolverebbe in una grande catastrofe, in una dannazione quasi universale. Infatti gli uomini non sono più aperti ad accogliere la grazia; non conoscono più il Signore; in gran parte lo hanno rifiutato e quelli che non lo hanno rifiutato non lo conoscono più.
Dio ci dona di celebrare il Natale non come attesa dell'ultima manifestazione del Cristo e nemmeno come semplice ricordo di un avvenimento passato, ma ci dà la grazia di vivere questo Natale per un nostro in contro con Lui, incontro nuovo che non determina nulla nel Figlio di Dio, ma determina una vera nascita, un vero rinnovamento per noi.
Si tratta dunque di vivere oggi il Natale del Signore non come un avvenimento che riguarda il Figlio di Dio; del resto la stessa manifestazione ultima della sua gloria, non riguarderà, più l'umanità di Gesù glorificata, riguarderà l'umanità, che lo vedrà, come dice l'Apocalisse. Ma noi non vorremmo la novità ultima, sentiamo di non essere preparati. È preparata la nostra umanità ad accogliere il Cristo? L'incontro vero e definitivo anche per noi, sarà la morte. Vivere il Natale vuol dire per noi vivere il "dies natalis"? vivere la nostra morte? Sembra strano di unire il Natale col nostro morire e invece sarebbe la cosa più conforme a verità unire proprio la festa di Natale alla nostra morte, perché il vero "dies natalis", per noi, non può essere la Natività di Gesù, ma il nostro nascere alla gloria nella visione di Colui che è già nato, di Colui che già ci ha redenti. Tuttavia anche questo ci sembra prematuro. Nessuno di noi si sente preparato a morire questa notte e non vorremmo moire stanotte, prima di tutto per non dare noia agli altri. Un giorno di festa così sarebbe un disastro se la nostra famiglia dovesse avere un morto in casa. Prima di tutto per la nostra famiglia, ma forse anche per noi, perché credo che nessuno si senta preparato a questo incontro supremo e definitivo col Cristo.
E allora celebrare il Natale che cosa vuol dire per noi? Se il giorno di domani ci lascia così come siamo oggi, evidentemente noi non celebriamo il Natale. Se noi domani dovessimo vivere soltanto la gioia di un incontro fra noi, il ricordo soltanto di un avvenimento passato, noi non avremmo celebrato il Natale, perché è vero che il Natale oggi riguarda noi più ancora di quanto non riguardasse noi la sua nascita temporale a Betlem: quella nascita si fa viva oggi per me, oggi però che io vivo. È vero dunque che riguarda noi, ma noi in quanto siamo toccati da Lui, noi in quanto ci incontriamo con Lui, noi in quanto, al contatto col Cristo, viviamo un nostro rinnovamento interiore. Non si tratta nemmeno di una nascita, perché la nostra vera nascita, indipendentemente dalla nostra morte, è anche il battesimo. E il battesimo per noi è già avvenuto; e la nascita vera, che è la morte, ancora è da venire.
Che cosa per noi vuol dire questo Natale? Celebrare il Natale vuol dire comprendere che cosa il Natale è, oggi, per, noi.
Si è detto che in questa imminenza della festa noi dobbiamo vivere il desiderio e l'attesa. Desiderio e attesa di che? Miei cari fratelli, l'incontro con Dio implica sempre una novità assoluta per l'uomo. Se noi crediamo di conoscere Dio e di vivere la vita che abbiamo vissuto finora, certamente queste nostre parole di volerci incontrare con Lui sono vane, sono vuote di senso. L'incontro con Dio non è un avvenimento che si scrive negli avvenimenti comuni della nostra vita, implica sempre una frattura. Vi ricordate quello, che dicono i salmi? "Tocca i monti e fumano". È impossibile che la creatura sia toccata da Dio, si incontri realmente con Lui rimanendo quella che è. Sia pur santa quanto si voglia, nessuna creatura può veramente essere visitata in un modo reale da Dio, senza che non subisca un trauma, non subisca una frattura nella sua vita interiore. Dio non lascia mai le anime così come le trova; non le può lasciare, perché Dio è tale che la creatura non regge al suo incontro. "Nessuno può vedermi e vivere". Giustamente, si deve morire, non della morte ultima, ma di una morte sì; di una morte a noi stessi, ai nostri pensieri, ai nostri programmi, alle nostre idee, a tutto quello che finora costituiva il nostro vivere, perché se Dio ci tocca, il tocco di Dio per sé determina questa frattura dell'essere creato. "Nessuno può vedermi e vivere". Rimane vero anche per noi, per tutti e sempre Questo vuol dire certamente che non si muore una volta sola; questo vuol dire che anzi vivere un contatto con Dio vuol dire morire continuamente. Sì, anche risuscitare, in un certo modo, ma prima di tutto morire.
Ci può essere una identificazione dell'essere umano coll'Essere divino? del vivere umano, sia pure in san Francesco, con la vita divina? Non c' e, non ci può essere una equivalenza. Allora se Dio ti tocca, anche se sei san Francesco, muori e risorgi: muori a. te stesso, al tuo pensiero, alle tue idee, ai tuoi propositi, alle tue virtù e ti apri ad accogliere Dio che è sempre assoluta novità.
Siamo disposti a vivere questo Natale in un desiderio vivo di una vita nuova, in una attesa viva di qualche cosa che veramente trasformi fino nelle radici la nostra vita e l'essere nostro? C'è in tutti noi certo, un desiderio di essere migliori, ma attenti, questo essere migliori non mi soddisfa. Essere migliori vuol dire che c'è una continuità di cammino in un certo processo etico della vita per il quale cerchiamo pian piano di modificare il nostro carattere, di modificare il nostro modo di sentire e di vivere, ma tutto questo è proprio dell'uomo, il quale vive secondo una norma che è quella di vivere come si deve vivere, di essere quello che deve essere. Ma qui non si tratta di essere quello che dobbiamo, si tratta di divenire, in qualche modo, compagni di Dio, in qualche modo amici di Dio, cioè di trascendere infinitamente l'umano. Attendere a Dio non si può che in quanto noi viviamo un salto qualitativo, non in quanto camminiamo. Camminare non ci porta mai lontano, non ci porta mai più vicini a Dio, perché non c'è una vicinanza di Dio: o sei in Dio o non sei.
Infatti, voi lo sapete benissimo, uno che abbia ammazzato cinquecento persone, se si converte e si pente, è subito in Dio perché la vita divina non si raggiunge attraverso un cammino, ma attraverso una rottura. È quello che si diceva: l'incontro con Dio opera una frattura nell'uomo, è sempre un morire e risorgere. Noi dobbiamo capire questo. Molto spesso abbiamo concepito la vita cristiana come un cammino continuo. Non è un cammino continuo; anche se c'è un processo nella vita cristiana, questo processo però avviene attraverso un continuo morire e un continuo risorgere.
Come tante altre volte si è detto anche in Comunità, la vita cristiana implica. per sé una conversione perenne. Cos'è la conversione perenne? È uno strapparci alle proprie radici, è un tendere verso Dio, è un essere presi da Lui. Tutto questo vuol dire continuamente morire a noi stessi per risorgere in Lui, in un modo sempre nuovo, perché Dio rimane sempre l'eterna Novità, ma è sempre un morire e risorgere.
Ora, per vivere il Natale, bisogna dunque sentire prima di tutto il bisogno di morire a noi stessi, bisogna sentire e vivere questa volontà di morire a noi stessi per essere presi da Lui, posseduti da Lui. Sentiamo tutto questo? Sentiamo, come sentivano i primitivi anche nella religione cosmica, che ogni anno la creazione precipita come nel vuoto, come nel nulla, come nella morte e Dio la riprende sempre all'ultimo tuffo per farla rivivere? Noi qualche cosa di simile dobbiamo vivere nel nostro rapporto con Dio. La continuità è soltanto apparente; perché di fatto, se tu non muori a te stesso, le tue virtù di oggi divengano, invece che virtù, impedimento all'unione con Dio.
Anche questo si è detto più volte, ora lo esprimo con altre parole e in un'altra luce, ma rimane sempre la stessa verità. Che cosa si è detto? Si è detto che se uno si ferma, precipita; che se uno si ferma non vive più nessuna perfezione ed è più perfetto colui che comincia il cammino verso Dio. Ma quando si parla di cammino il nostro linguaggio è un linguaggio non proprio, perché non vi può essere cammino che porti l'anima a Dio, se Dio è l'Infinito, se fra la creatura e Dio rimane questa distanza infinita; sempre s'impone il salto qualitativo, sempre, e il salto qualitativo implica per sé, necessariamente che ogni atto dell'uomo che voglia incontrarsi con Dio sia un atto di conversione interiore, sia un atto in cui l'uomo vive la sua "abneget semetipsum". È quello che il Signore vi chiede stasera, prima di celebrare il Natale; che chiede a tutti noi stasera, prima che noi celebriamo il Natale. "Abneget semetipsum"; questo rinnegamento di sé questo morire a noi stessi, per aprirci ad accogliere Dio, secondo quella misura che noi gli offriamo, offriamo alla grazia, perché Egli si doni. È certo che c'è un processo, dicevo, ma attraverso dei salti, non attraverso un cammino continuo; attraverso una conversione perenne. E davvero non c'è processo senza questa conversione, appunto perché non c'è continuità tra la creatura e Dio. Tu lo accogli nella misura che ora la tua morte rende possibile a Dio di donarsi, o meglio, rende possibile a te di riceverlo, perché Egli si dona sempre. Siamo noi che rimaniamo incapaci di accoglierlo nella sua infinità.
Se dunque noi ora viviamo l'attesa ultima della celebrazione natalizia, dobbiamo vivere questa attesa in un bisogno di venir veramente meno a noi stessi, nel sentimento della povertà dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti, nel sentimento vivo della mediocrità di tutta la nostra vita; nel bisogno di un rinnovamento interiore che ci strappi alle nostre consuetudini, alle nostre abitudini, a tutto quello che siamo, a quello che viviamo, perché un Altro viva in noi. Quando l'uomo risorge non è mai quello di prima. Nella religione cosmica, sì. Infatti quello che chiede l'uomo nella religione cosmica è precisamente la continuità di una vita che si esprime attraverso le stagioni, e le stagioni riportano sempre, con la primavera, la vita di prima. Ma nel cristianesimo, nella vita religiosa non è così. La risurrezione dona all'uomo veramente, una vita diversa.
Dobbiamo dunque vivere questa attesa di Dio, questo bisogno di una risurrezione, vivendo già ora questa volontà di venir meno a noi stessi per far posto nella nostra anima a Lui.
Importa poco, diceva, il Silesio - quasi quattrocento anni fa - che Gesù sia nato a Betlem; se Egli non nasce in te nulla vale la sua nascita temporale. La nascita a Betlem di Gesù è in ordine precisamente a noi. Per noi infatti Egli è nato, ma Egli è nato per noi solo nella misura in cui la sua nascita opera in noi questo rinnovamento, realizza per noi questa frattura, compie in noi questa conversione, questa morte e questa risurrezione in Lui. C'è in noi - ecco la prima cosa che dobbiamo domandarci - questo desiderio di essere nuovi? C'è in noi questa volontà di aprirci a Lui che viene, anche se questo aprirci a Lui che viene implica per noi un morire, una rinunzia, cioè una abnegazione di tutto quello che siamo e viviamo? Troppo spesso noi identifichiamo vita morale e vita religiosa. La vita religiosa non è una vita morale, non è che sia immorale, evidentemente, ma non è una vita morale. La morale è propria dell'uomo, la vita religiosa è la vita di. Dio, non è l'adempimento di una norma che fa parte della nostra natura, ma piuttosto un essere presi da Dio e sollevati a Lui; strappati a noi stessi per essere in Lui.


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