Era a portata di mano ma al tempo stesso irraggiungibile, vicino e lontano, scolaro e maestro, umile e gigante: ecco come appariva don Divo Barsotti, di cui quest’anno si ricorda il centenario della nascita.
23 Settembre 2014 |
Nel 2014 avrebbe compiuto 100 anni don Divo Barsotti, figura di rilievo della Chiesa italiana spentasi a Firenze nel 2006. Definito e riconosciuto come «l’ultimo mistico del ’900», scrittore fecondissimo, originale teologo e autore di spiritualità (con oltre centosessanta titoli, tradotti anche in varie lingue), padre spirituale di innumerevoli persone e fondatore di una comunità religiosa di carattere monastico, don Divo era noto nel mondo dei sacerdoti e dei religiosi, ma forse meno conosciuto dalla gente comune, per via della sua indole che non ricercava pubblicità o consensi popolari.
Eppure non era un solitario, un «ritirato dal mondo», anzi! La sua spiritualità lo spingeva a portare tra la gente la ricchezza della vita monastica, testimoniando la semplice presenza di Dio, alla portata di ogni uomo e ogni donna. «La vita monastica – diceva – non ha che un fine: realizzare Dio. Le congregazioni religiose moderne hanno lo scopo che le giustifica anche quando i religiosi non fossero dei santi: le opere che intraprendono, il servizio immediato alla Chiesa. Ma una congregazione monastica non può avere altra giustificazione che quella della santità di coloro che ne fanno parte. Il nostro servizio alla Chiesa è la rivelazione di Dio. Realizzare Dio». Per questo motivo gli piacevano molto Francesco d’Assisi e il russo Serafino di Sarov, santi che affascinavano non tanto per le loro opere, ma per il mistero e il senso di presenza di Dio che emanavano. Erano uomini pieni di luce.
È facile essere santi a questa maniera? È facile e difficile. Occorre però crederci. Insisteva don Divo: «Il monaco non deve cercare nulla di particolare. Deve solo semplicemente vivere, perché chi innalza se stesso innalza il mondo». Ed egli era così: affabile e luminoso, sempre, anche quando andava a fare la spesa al mercato, compito che avocava sempre a sé anche dopo aver compiuto gli 80 anni di età. Disdegnava il supermercato, «troppo impersonale» a sua detta, preferendo piuttosto aggirarsi tra le bancarelle del mercato di San Lorenzo a Firenze, dove si intratteneva con fruttivendoli e pollivendoli interessandosi delle loro famiglie, curando quell’aspetto umano che, in ogni caso, viene prima di tutto. Questione di vita. Ancor di più: di vita cristiana. «La vita cristiana – affermava don Barsotti – è l’esperienza di un’esperienza e rapporto con un Dio vivente. Se il Cristo non fosse vivo e presente, la Chiesa stessa si risolverebbe in una società umana e si sfascerebbe. Al contrario, la Chiesa è in quanto può testimoniare la sua Presenza viva e il cristiano è essenzialmente colui che Lo ha veduto, che lo vede e gli parla».
Dio lo si può «vedere», incontrare? Certo: i santi non erano diversi da noi. Loro per primi hanno fatto esperienza di Dio e ora ci sono vicini per aiutarci nel cammino, vivi e presenti. «Hai mai fatto colazione con san Giovanni della Croce?» chiedeva ogni tanto don Divo a qualche confratello. «Oggi sei andato a fare due passi insieme a santa Teresa di Gesù, o a san Filippo Neri?». La gente non sapeva che cosa rispondere, ma avvicinare don Barsotti era così: un immergersi nel suo mondo, popolato dai santi. E per diventare santi occorre «libertà assoluta, perché coi patteggiamenti si tradisce Dio e l’anima si perde. La santità è fulgore; il santo, dal momento che possiede Dio nel suo cuore, deve sentirsi debitore nei confronti di tutti». Ancora, come scrive don Divo nei suoi diari: «Dio si fa presente nel santo precisamente in quanto lo assume; non è la sua attività apostolica, non è l’esercizio delle sue virtù. Tu ti lasci possedere da Lui, non vuoi più che la sua presenza, non sopporti nemmeno il ricordo di te, ma vuoi che anche l’universo sia invaso dalla sua Gloria, che tutto, tutti facciano posto a Dio. Tutto e tutti Egli possegga, così che attraverso di tutto, di tutti, Egli possa dire Io sono. La fede non è ricerca e possesso di verità, ma un essere stati cercati e posseduti da essa».
Il monachesimo vissuto nel mondo
Questo è solo un assaggio del ricchissimo pensiero spirituale di don Divo. Che non fosse una persona qualsiasi lo si intuì già negli anni del seminario diocesano di San Miniato (Pisa), dove cominciò a manifestare la sua «inquietudine di Dio»: sentiva di essere chiamato ad andare in missione per testimoniare la bellezza della vita contemplativa.
Una volta sacerdote, fu trasferito a Firenze per interessamento di Giorgio La Pira, da cui era stato contattato per via di alcuni articoli scritti su «L’Osservatore Romano». Nel capoluogo toscano ebbe modo di entrare in relazione con alcune figure di spicco del cattolicesimo fiorentino (e non solo) del dopoguerra, come Nicola Lisi, padre David Maria Turoldo, Giampaolo Meucci, don Enrico Bartoletti, Giovanni Papini. Grazie al successo del suo libro Monachesimo russo, col quale introdusse in Italia le figure dei monaci dell’Oriente cristiano, intraprese poi un rapporto epistolare con i grandi nomi della riflessione teologica del Novecento, come Henri-Marie de Lubac, Hans Urs von Balthasar, Pavel Evdokimov, Jean Danielou, Thomas Merton. leggere...
Eppure non era un solitario, un «ritirato dal mondo», anzi! La sua spiritualità lo spingeva a portare tra la gente la ricchezza della vita monastica, testimoniando la semplice presenza di Dio, alla portata di ogni uomo e ogni donna. «La vita monastica – diceva – non ha che un fine: realizzare Dio. Le congregazioni religiose moderne hanno lo scopo che le giustifica anche quando i religiosi non fossero dei santi: le opere che intraprendono, il servizio immediato alla Chiesa. Ma una congregazione monastica non può avere altra giustificazione che quella della santità di coloro che ne fanno parte. Il nostro servizio alla Chiesa è la rivelazione di Dio. Realizzare Dio». Per questo motivo gli piacevano molto Francesco d’Assisi e il russo Serafino di Sarov, santi che affascinavano non tanto per le loro opere, ma per il mistero e il senso di presenza di Dio che emanavano. Erano uomini pieni di luce.
È facile essere santi a questa maniera? È facile e difficile. Occorre però crederci. Insisteva don Divo: «Il monaco non deve cercare nulla di particolare. Deve solo semplicemente vivere, perché chi innalza se stesso innalza il mondo». Ed egli era così: affabile e luminoso, sempre, anche quando andava a fare la spesa al mercato, compito che avocava sempre a sé anche dopo aver compiuto gli 80 anni di età. Disdegnava il supermercato, «troppo impersonale» a sua detta, preferendo piuttosto aggirarsi tra le bancarelle del mercato di San Lorenzo a Firenze, dove si intratteneva con fruttivendoli e pollivendoli interessandosi delle loro famiglie, curando quell’aspetto umano che, in ogni caso, viene prima di tutto. Questione di vita. Ancor di più: di vita cristiana. «La vita cristiana – affermava don Barsotti – è l’esperienza di un’esperienza e rapporto con un Dio vivente. Se il Cristo non fosse vivo e presente, la Chiesa stessa si risolverebbe in una società umana e si sfascerebbe. Al contrario, la Chiesa è in quanto può testimoniare la sua Presenza viva e il cristiano è essenzialmente colui che Lo ha veduto, che lo vede e gli parla».
Dio lo si può «vedere», incontrare? Certo: i santi non erano diversi da noi. Loro per primi hanno fatto esperienza di Dio e ora ci sono vicini per aiutarci nel cammino, vivi e presenti. «Hai mai fatto colazione con san Giovanni della Croce?» chiedeva ogni tanto don Divo a qualche confratello. «Oggi sei andato a fare due passi insieme a santa Teresa di Gesù, o a san Filippo Neri?». La gente non sapeva che cosa rispondere, ma avvicinare don Barsotti era così: un immergersi nel suo mondo, popolato dai santi. E per diventare santi occorre «libertà assoluta, perché coi patteggiamenti si tradisce Dio e l’anima si perde. La santità è fulgore; il santo, dal momento che possiede Dio nel suo cuore, deve sentirsi debitore nei confronti di tutti». Ancora, come scrive don Divo nei suoi diari: «Dio si fa presente nel santo precisamente in quanto lo assume; non è la sua attività apostolica, non è l’esercizio delle sue virtù. Tu ti lasci possedere da Lui, non vuoi più che la sua presenza, non sopporti nemmeno il ricordo di te, ma vuoi che anche l’universo sia invaso dalla sua Gloria, che tutto, tutti facciano posto a Dio. Tutto e tutti Egli possegga, così che attraverso di tutto, di tutti, Egli possa dire Io sono. La fede non è ricerca e possesso di verità, ma un essere stati cercati e posseduti da essa».
Il monachesimo vissuto nel mondo
Questo è solo un assaggio del ricchissimo pensiero spirituale di don Divo. Che non fosse una persona qualsiasi lo si intuì già negli anni del seminario diocesano di San Miniato (Pisa), dove cominciò a manifestare la sua «inquietudine di Dio»: sentiva di essere chiamato ad andare in missione per testimoniare la bellezza della vita contemplativa.
Una volta sacerdote, fu trasferito a Firenze per interessamento di Giorgio La Pira, da cui era stato contattato per via di alcuni articoli scritti su «L’Osservatore Romano». Nel capoluogo toscano ebbe modo di entrare in relazione con alcune figure di spicco del cattolicesimo fiorentino (e non solo) del dopoguerra, come Nicola Lisi, padre David Maria Turoldo, Giampaolo Meucci, don Enrico Bartoletti, Giovanni Papini. Grazie al successo del suo libro Monachesimo russo, col quale introdusse in Italia le figure dei monaci dell’Oriente cristiano, intraprese poi un rapporto epistolare con i grandi nomi della riflessione teologica del Novecento, come Henri-Marie de Lubac, Hans Urs von Balthasar, Pavel Evdokimov, Jean Danielou, Thomas Merton. leggere...