domingo, 16 de junho de 2019

Don Divo Barsotti “la più grande mistica del nostro secolo”: Itala Mela


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LA SANTISSIMA TRINITA' : Itala Mela , l'ascesi nella luce dell'inabitazione L'ASCESI NELLA LUCE DELL'INABITAZIONE ( in sinu Trinitatis ) di Itala Mela Tu, Lux perennis,Unita Nostris, beata Trinitas, Infunde amorem cordibus. Te mane laudum carmine ,Te deprecarnur vespere; Digneris ut Te supplices Laudemus inter caelites .(1) Festa di S. Luca Evangelista, 1936 1)"Luce perenne, Trinità beata, infondi ai nostri cuori, unico Dio, l'amore. Al mattino, alla sera, Ti lodiamo, Ti preghiamo cantando e il cantico di lode un dì s'eterni in ciel coi Santi, a Te" Indice generale L'ASCESI NELLA LUCE DELL'INABITAZIONE ( in sinu Trinitatis )........................................1 di Itala Mela..........................................................................................................................................1 "Gloria Tibi, Trinitas"......................................................................................................................2 I. Il Peccato ..................................................................................................................................3 2. La Preghiera.................................................................................................................................5 3. Il Raccoglimento..........................................................................................................................5 4. Il Silenzio.....................................................................................................................................6 5. La S. Messa..................................................................................................................................7 6. La S. Comunione.........................................................................................................................8 7. L'Ufficio Divino.........................................................................................................................9 8. L'Orazione....................................................................................................................................9 9. La Carità....................................................................................................................................10 10. L'Umiltà...................................................................................................................................11 11. L'Abbandono............................................................................................................................13 a. La Castità.............................................................................................................................14 b. L'Obbedienza......................................................................................................................14 c. La Povertà.............................................................................................................................14 13. La Mortificazione e il Dolore..................................................................................................15 PREGHIERA ALLA SANTISSIMA TRINITA'...........................................................................17 “Gloria Tibi, Trinitas" Vivere l'Inabitazione è vivere il proprio Battesimo. Sarebbe un grave errore credere che il richiamare le anime a nutrire di questo mistero adorabile la loro vita, sia il richiamarle ad una "devozione" speciale: è piuttosto un invitarle a vivere della grazia che il Battesimo ha loro donato, a penetrare la realtà divina promessaci da Gesù: Veniemus et apud eum mansionem faciemus (2). Noi dimentichiamo troppo che Gesù stesso ci ha lasciato questo insegnamento ed ha istruito i discepoli su questo mistero prima di lasciarli (3): non dimentichiamo che la grande "istruzione" religiosa lasciata dagli Apostoli ai primi cristiani consisteva in un richiamo incessante a questo dono divino che col Battesimo avevano ricevuto (4). L'attingere nel seno della Trinità augusta la luce che ci illumina nell'ascesi non è cosa nuova; anche in questo possiamo dire di Gesù: exemplum dedit nobis (5). Sarebbe interessante ricercare nel Vangelo tutti i passi che ci tramandano l'insegnamento "trinitario" del Maestro; ma basterà ricordare che, quando Gesù volle esortare gli Apostoli alla perfetta carità, quando volle ottenere a loro la grazia, attinse nel seno della Trinità SS. l'esempio: ut unum sint, sicut ego et tu, Pater (6). S. Paolo ripeteva incessantemente ai suoi discepoli il suo mirabile templum Dei estis (7) e lo commentava nelle sue Epistole, senza temere di illuminare le anime -pur indotte, appena "iniziate" - sul dogma più dolce, il possesso del Signore, uno e trino, nel loro santuario spirituale. Il tono delle nostre istruzioni religiose s'è di molto abbassato, in genere: si ha paura, si direbbe, a ricordare alle anime il loro dono, e spesso si preferisce deviarle verso devozioni che, pur essendo buone, non sono essenziali. Capita così che molti religiosi stessi, molte persone piissime e starei per dire molti sacerdoti ignorino praticamente l'Inabitazione. La loro conoscenza dei dogma è puramente teologica ed astratta: non ignorano che Dio è in loro, con una presenza spirituale perenne (finché possiedono la grazia), ma non pensano minimamente a mettere a frutto nel loro sforzo ascetico questa ricchezza. La loro "strategia" spirituale è spesso complicata; ma, mentre compiono tante opere meritorie, dimenticano di rivolgere un semplice sguardo di riconoscente amore a colui che della loro anima ha fatto il suo santuario (8). Dio ha voluto vivere nella intimità più stretta con noi. Non si è accontentato di lasciarci nell'Eucarestia la possibilità di ricevere per pochi istanti nel nostro cuore il Verbo umanato, ma ha voluto che, scomparsa la presenza "fisica" del Cristo (9), l'anima non restasse vuota o sola, ma godesse della presenza delle tre Persone senza interruzione. E mentre Dio ci elargisce questa intimità, noi ci rifiutiamo a gioirne, ad attingere in essa quei doni di luce e santità che essa invece è destinata a portarci. Illuminare le anime su questo grande mistero, renderlo loro "sensibile" per così dire, è una grande opera. E' il continuare e il commentare l'opera di Gesù, che ci ottenne il dono della grazia con la sua morte e che l'Inabitazione promise come suprema ricompensa dell'amore per lui, del nostro "innesto" a lui (10): "chi mi ama, il Padre l'amerà, e verremo e faremo in lui la nostra dimora" (11). Forse attualmente nessuna delle promesse di nostro Signore e delle realtà celesti della vita cristiana è più di questa avvolta nel buio di un oblio pratico fra gli stessi fedeli. (2) Giov. 14, 23. (3) Nell'ultima Cena. Cfr. Giov. cc. 14-17 (4)Rom. 5, 5; 8, 9-27; 1 Cor. 2, 3; 3, 16 s.; 6, 19; 2 Cor. 1, 22; 5, 5; Gal. 4, 6; 5, 22; Ef. 1, 13; Tit. 3, 50; 1 Giov. 1, 1-4; 2, 20-27; 3, 24; 4, 16 ecc. (5) "ci ha dato l'esempio- Cfr. Giov. 13, 15. (6) Giov. 17, 21. (7)"Siete tempio di Dio" Cfr. 1 Cor. 3, 16 s.; 6, 19; 2 Cor. 6, 16; ecc. (8) Itala fa qui, più che un rimprovero, una costatazione amara. Ella aveva fatto, agli inizi della sua vita spirituale, la triste esperienza di S.Teresa d'Avila. Racconta la Santa (Autobiografia c. 18, n. 15) di essersi presentata ad un teologo per esporre il "senso" di una presenza di Dio in sé, onde avere consigli sul modo di comportarsi. Quel teologo ("medio letrado", semidotto) sentenziò che Dio "non stava nell'anima se non per mezzo della Grazia", e cioè che nell'anima c'era solo un effetto dell'azione di Dio (la Grazia, appunto), non Dio personalmente. S.Teresa commenta: "Io non lo potevo credere, perché mi sembrava che Dio fosse veramente presente, e ne sentivo pena. Finalmente un gran teologo dell'Ordine glorioso di S.Domenico mi tolse da questo dubbio, dicendomi che Dio è effettivamente presente, e spiegandomi come si comunica a noi. E ne rimasi consolata". (9)"Presenza fisica", "Presenza spirituale": entrambe sono presenze reali e personali, ma qui, per presenza "fisica" Itala intende presenza anche del corpo, dell'umanità, di Cristo, presenza del Verbo Incarnato, in contrapposizione alla presenza, reale anch'essa, della sola divinità quale si ha nell'Inabitazione. E' chiaro che qui Itala non usa una terminologia tecnica scolastica, ma adopera la parola della lingua italiana secondo l'uso corrente per indicare un fatto: la presenza reale del Corpo di Cristo nell'Eucarestia, che viene a cessare con la corruzione delle specie del pane, mentre la reale presenza delle tre Persone divine in forza dell'Inabitazione rimane (cfr. il periodo seguente e in seguito, al n. 3 Il Raccoglimento: per troppo poco tempo possiamo adorare presente in noi il Verbo fatto carne, mentre sempre possiarno adorare in noi presente il Verbo nella sua unità col Padre e con lo Spirito Santo). Itala non si pone il problema teologico del "modo" di essere presente del Corpo di Cristo nell'Eucarestia. (10) S.Paolo concepisce il Battesimo come una specie di innesto che ci unisce vitalmente a Cristo, in modo da fare scorrere in noi la "1infa" della vita divina (Cfr. Rom. 6, 5; 11, 17-24). (11) Giov. 14, 23. I. Il Peccato L'anima che ha compreso di portare in sé un dono ineffabile nel Dio uno e trino, giunge spontaneamente, non più per timore, ma per amore, all'odio della colpa. Il peccato grave le appare come una orribile profanazione del templum Dei vivi (12). Se la profanazione del tabernacolo, in cui Gesù riposa, le si presenta come una spaventosa follia, non meno grave le sembra lo strappare a se stessa, perdendo la grazia, l'Ospite divino. Che la Trinità si ritiri da lei, che un abisso si frapponga fra se stessa e colui che a lei s'è donato, e di lei ha fatto il suo abitacolo, le appare una mostruosa ipotesi. L'anima comprende che è più comprensibile sacrificare ogni desiderio umano, ogni affetto, ogni cosa più cara, piuttosto che sacrificare il possesso di colui che la divinizza. Il "piuttosto la morte che il peccato mortale" non le appare più come una frase retorica e troppo facile a essere ripetuta senza convinzione, ma come l'espressione di un convincimento profondo, d'una volontà incrollabile. Nelle prove e nelle tentazioni l'anima si stringe a Dio, fa del suo centro la sua roccaforte, cerca di penetrare nel mistero trinitario il segreto dell'amore che l'ha redenta e che la vuole glorificata nei cieli e attinge in questo contatto col segreto di Dio la forza per resistere al nemico. Essa contempla il Padre che l'ha creata e l'ha donata al Figlio perché la redimesse; contempla il Verbo che perpetua nel seno della Trinità la sua offerta al Padre per la salvezza degli uomini; contempla lo Spirito Santo che la santifica, che l'ha precedentemente arricchita del sacro Settenario (13): sente d'essere oggetto d'un amore incomprensibile, sente che, se lei sola esistesse al mondo, per lei sola si consumerebbero nel mistero divino i misteri d'un amore infinito. E in queste luci l'ipotesi d'una ribellione a Dio, d'un disprezzo della carità del Padre, dei Figlio e dello Spirito Santo le sembra una terribile aberrazione. Quando ignorava il suo dono, la spaventava forse meno l'ipotesi d'una scissione fra lei e un Dio pensato lontano, nei cieli remoti, un Dio col quale col tempo avrebbe potuto rimettersi in pace: il pensiero stesso di Gesù eucaristico poteva essere cacciato (vi sono anime che non entrano più in Chiesa, per evitare di trovarsi di fronte al Cristo fisicamente (14) presente quando vogliono tradirlo). Ma se l'anima ha compreso che cosa è la Grazia e l'Inabitazione, trema di più al pensiero di strappare a se stessa la sua ricchezza divina e di ribellarsi a qualcuno che vive non solo accanto a lei, ma in lei. In questa luce lo stesso peccato veniale e l'imperfezione avvertita (15) le appaiono molto più gravi di quello che prima pensava. Anche un piccolo "no" all'amato, posseduto in ogni istante,le sembra ben triste cosa. Essa ha bisogno di stringersi al Verbo "in sinu Trinitatis " per rispondere perennemente al Padre I`"Amen" che accetta ogni sua volontà. Ogni resistenza è una dissonanza fra l'anima e il Signore, ogni "no" è una voce discorde nel tempio in cui Dio eleva a se stesso un cantico di lode. Per quanto i piccoli "no" non privino l'anima dell'Ospite divino, la privano tuttavia d'un possesso più intimo di lui e del suo amore, e risuonano come una voce irriverente nelle profondità santificate dal canticum gloriae. Quanto più l'anima penetra il suo dono, tanto più è trascinata non solo a disubbidire in nulla a Dio, ma ad essere docile ad ogni ispirazione. La voce dello Spirito Santo le si fa sentire di più in più: lo Spirito dell'amore le chiede le opere dell'amore. Piccole o grandi, non importa: esse hanno un valore infinito (16) in quanto le sono suggerite da lui, e il più piccolo "sì" dell'anima è un'offerta celeste in sinu Trinitatis. L'anima lo pronuncia stretta al Verbo negli ardori dello Spirito Santo; e allora il piccolo "sì"si perde nell` "Amen " perenne che a nome di tutti i redenti il Verbo fa risalire al Padre. Il "si" diventa degno di essere presentato al Padre stesso: il Padre si curva con amore immenso sull'anima che ha voluto così testimoniargli la sua fedeltà, secondo le sue piccole forze. E perché ogni si per quanto minimo, aumenta per l'anima la donazione della carità divina, stabilisce fra lei e la Trinità rapporti più stretti d'amore e d'ineffabile intimità. (12) 2 Cor. 6, 26. (13) Il "sacro settenario" (cfr. il testo latino della Sequenza di Pentecoste, strofa 9), è costituito dai sette "doni dello Spirito Santo", i quali sono disposizioni soprannaturali che lo Spirito Santo, donandosi a noi nell'Inabitazione, infonde in noi, ci dona, perché noi possiamo accogliere, senza resistenze, la sua azione santificatrice. Sono in realtà il risultato di un profondo amore per Dio, infuso e accresciuto da Dio stesso, che ci mette in "sintonia" con l'Amore infinito che è lo Spirito Santo, e ci rende docili alle sue ispirazioni e mozioni, al di là delle intuizioni e motivazioni puramente umane. In Itala questa realtà dei "doni" dello Spirito Santo sembra trasparire nel suo atteggiamento e nel suo comportamento costante, specialmente negli ultimi anni (cfr. "amore Supernae Caritatis inclusa",pp.234-240). (14) V. nota 9. (15) L'imperfezione morale avvertita è l'omissione di un bene migliore che percepiamo come tale, per noi, ora, mentre preferiamo scegliere un bene minore. Nel dialogo d'amore tra Dio e noi, l'imperfezione è, in fondo, il rifiuto di un dono più grande che il Signore ci offre, per sceglierne uno minore, ma secondo il nostro gusto, è l'espressione della nostra volontaria non disponibilità totale alle altezze divine. (16) Itala stessa spiega il significato di quello che chiama "Valore infinito": non siamo certo noi a conferire questo valore alle nostre azioni, ma lo Spirito che è in noi. In forza dello Spirito Santo che ci anima la nostra vita, anche nelle più umili manifestazioni, diventa "spirituale", e partecipa della dignità, certamente infinita, dello Spirito Santo, che la introduce così nella vita trinitaria. 2. La Preghiera. Vi sono anime molto pie e anche anime religiose e sacerdotali che ignorano completamente una delle esperienze più dolci della vita interiore: la preghiera messa in relazione col dogma dell'Inabitazione. Senza dubbio il sentire in sé la Trinità, il contemplarla, il perdersi in essa nell'orazione passiva, appartengono a grazie che l'anima riceve se e quando piace a Dio. Ma non vi è dubbio che molte anime sarebbero più disposte a riceverle, se fossero più istruite sull'impostazione da dare alla loro pietà in rapporto al dono che possiedono. Bisogna invitare le anime a uno sforzo attivo di intimità con le tre Persone, perché più facilmente giungano all'età felice in cui il Signore si manifesta nel profondo al loro sguardo rapito. 3. Il Raccoglimento Le anime pie, i religiosi, i sacerdoti, che tanto spesso lamentano la dissipazione di una vita forzatamente tumultuosa, troverebbero ineffabili consolazioni di raccoglimento, se la loro conoscenza teorica dell'Inabitazione si tramutasse in un viverla praticamente. Uno sguardo alla propria anima in mezzo alle agitazioni di un congresso o di un'adunanza, un pensiero alla Trinità che nel profondo dell'anima glorifica se stessa nella pace inalterabile della vita divina, potrebbero aiutare un'anima, anche immersa nell'apostolato più ardente, a conservare il contatto con Dio. Contatto, notiamo bene, non solo utile a mantenere l'anima in una atmosfera di silenziosa adorazione pur fra il chiasso di giornate faticose, ma efficacissimo a salvare l'anima da eccessi di attività, da errori e da cadute, spesso frequenti anche nelle opere di zelo. Questo rapido incontrarsi dell'anima col suo Dio, questo stringersi a Lui per un istante ottiene inevitabilmente all'anima stessa una donazione di lumi. L'anima vedrà che sta per fare o per dire qualcosa che dispiace al Signore vivente in lei, vedrà un altro qualcosa da sostituire al suo, ed eviterà i pericoli della dissipazione molto più facilmente che con complicate strategie spirituali da lei escogitate. Questo contatto potrà essere un semplice sguardo a Dio nel profondo, per anime non del tutto inesperte della intimità con lui, potrà essere, per altre, più portate alla preghiera vocale, un Gloria, una giaculatoria (anche tratta dall'Ufficio della Trinità), una ispirazione, qualsiasi parola detta a Dio con attenzione amorosa, mormorata come un atto di carità, d'implorazione e d'offerta al Signore presente in noi. Quante volte, per esempio, nel pronunciare il Gloria, pensiamo che la nostra lode è raccolta dal Signore così vicino da essere il vivificatore dell'anima nostra? Quante volte il nostro sguardo distratto s'eleva al cielo materiale, senza che mai l'anima lo fissi in quel cielo che è lei stessa (caeli sumus) ? (17) Quante anime anche piissime, si farebbero uno scrupolo di dimenticare certe particolari devozioni (certo buone in sé e utili a loro, se le aiutano a salire a Dio), ma non si fanno mai un rimprovero di dimenticare completamente che la grazia del loro Battesimo e dei sacramenti ha donato loro la Trinità, e che tale dono non basta conoscerlo astrattamente ma è doveroso viverlo? Quante anime che non perdonerebbero (giustamente) a se stesse di abbandonare l'adorazione dei nostri tabernacoli, dove Gesù perenna la sua presenza fisica fra gli uomini, non sanno neppure di dover perdonare a se stesse di disprezzare praticamente (anche se inconsapevolmente) una presenza spirituale (18) di Dio in loro, non meno mirabile, non meno ricca di carità? Quante anime pensano che, se noi possiamo stare normalmente troppo poco ai piedi del Verbo fatto carne, sempre noi possiamo adorarlo in noi nella sua unità col Padre e con lo Spirito Santo? (17) "Siamo il cielo" di Dio. Cfr. anche Sr. Elisabetta della Trinità. (Cfr. Lettere 102, 107, 112, 134, 159, 217 e l'Elevazione alla SS. Trinità in Scritti a cura della Postulazione Generale dei Carmelitani Scalzi, Roma 1967).L'idea si trova già nei Padri dei primi secoli, anche se questi insistono più sull'anima come "immagine e somiglianza" di Dio, mentre Sr. Elisabetta e Itala Mela insistono di più sull'Inabitazione come presenza abituale, immediata, personale, di Dio in noi. (18) Cfr. nota 9. 4. Il Silenzio Da questo contatto con Dio il silenzio deriva con una facilità relativa, che sorprenderebbe molti monaci, purtroppo talora abituati a considerarlo come una penosa costrizione ascetíca. Questo immediato pensarlo in sé porta l'anima, anche la meno sensibile, a una reverente adorazione. Come qualsiasi persona, anche mediocremente formata sente di mancare di riverenza con chiacchiere inopportune dinanzi al tabernacolo, ciascuna anima che pensi all'Inabitazione seriamente, è portata a tacere molte parole inutili e soprattutto a rispettare il silenzio, nelle ore fissate dalla Regola conventuale o personale, per quanto è possibile. Sono queste le ore in cui l'anima può più liberamente prendere contatto col Signore e abbandonarsi alla gioia dell'intimità con lui, gioia non sempre sentita, ma sempre voluta dall'anima consapevole del suo dono. Silentium tibi laus (19). La fedeltà a tale mortificazione può portare all'anima insospettate donazioni d'unione. E' possibile chiedere l'esercizio del silenzio ad anime apostoliche? Senza dubbio alcuno. Una domanda inutile trattenuta, una curiosità mortificata, una conversazione interessante interrotta con garbo, quando più ci avvince, una visita cara rimandata possono dare all'anima più immersa nella vita attiva le grazie che l'esercizio di un silenzio rigoroso conquista spesso ai claustrali. Dio compensa quello che ciascuno può dargli nel suo stato. E se le anime apostoliche perdono talora doni preziosi, possono imputarne la colpa alla loro infedeltà a questo esercizio minimo del silenzio, che riproduce quello regnante nel seno della Trinità SS. In questo seno divino il silenzio e la lode si associano, la pace e l'attività creatrice e santificatrice si disposano: lezione meravigliosa per ogni anima che sappia e voglia apprenderla. S.Benedetto considera il silenzio non solo come mezzo d'unione, ma come espressione dei gradi supremi di umiltà (e quindi di perfezione) raggiunti dal monaco (20). Il grande contemplativo non ignorava che il contatto con il Signore riduce l'anima al silenzio. Se essa si pone accanto a lui, istintivamente è portata a moderare " la espressione di se stessa". Questa forma di abnegazione dell'io sarà da principio solo esteriore, mentre l'anima parlerà ancora a Dio. Ma grado a grado il silenzio l'avvolgerà, procedendo dall'esterno all'interno, fino all'età in cui la sua orazione stessa non sarà che un silenzio profondo. Allora dall'anima salirà a Dio il maximum della lode: essa vivrà nella pienezza il "silentium tibi laus". Sarà questa l'età beata in cui, notiamolo bene, il contatto con la Trinità inabitante avrà raggiunto l'intensità massima, l'età in cui l'anima potrà non solo cercare Dio in sé con uno sforzo attivo di raccoglimento, ma contemplarlo in sé, per una particolare manifestazione concessale dal suo amore. (19) "Per te il silenzio è lode" o, come traduce liberamente Itala (cfr. lettera a P.P. in Lucciardi, Itala Mela, Roma 1963 p. 234) "è il silenzio la nostra lode". Qui Itala parla del silenzio come esercizio ascetico. Non si tratta ovviamente di rifiuto di comunicare col prossimo, ma di un esercizio di umiltà, frutto e coefficiente di raccoglimento, alimento della vita interiore, e, in ultima analisi, condizione per una maggiore disponibilità a Dio e ai fratelli. Ma Itala va oltre questa dimensione ascetica del silenzio per coglierne la dimensione mistica: il "vuoto"che Dio stesso opera nell'anima per aprirla alla sua invasione, cfr. S. Gregorio di Nissa e la sua "lode silenziosa" (Hom. VII, P. G. 44, 728). 20) Cfr. Regola c. VI, Sull'amore al silenzio; c.VII, Sull' Umiltà: nono e undecimo grado; c. XLII, Sul silenzio dopo Compieta; c. IL, Sull'osservanza quaresimale. 5. La S. Messa. Non si può trattare della grande liturgia eucaristica, senza aver prima accennato all'atmosfera del silenzio che l'anima deve formarsi per vivere l'Inabitazione. Si p S.Messa l'anima vede sensibilmente riprodotti i misteri d'amore che si celebrano in lei nel seno di Dio. Il Verbo rinnova la sua Incarnazione e la sua Immolazione per intercedere dinanzi al Padre. Egli consuma la sua oblazione nel fuoco dello Spirito Santo. E col Verbo, nella S.Messa, si offrono e si presentano al Padre per essere sacrificati alla sua gloria tutti i fedeli che penetrino il significato profondo della sacra liturgia; Gesù non rinnova da solo il suo sacrificio: egli stringe a sé tutti coloro che con lui vogliono diventare un'unica ostia, perché l'unità del Corpo mistico col suo Capo non sia un'astrazione o una grazia ricevuta quasi inconsapevolmente, ma una realtà vissuta da ciascuna anima. E' lo Spirito Santo che illumina gli eletti su questi ineffabili misteri, che comunica alle anime generose una scintilla di quella carità consumante che stringe il Verbo al Padre nel seno della Trinità; e che spinge il Verbo a perpetuare sotto i veli eucaristici gli annientamenti della sua Incarnazione e dei suo Sacrificio. Quanto più una anima prende contatto con la Trinità in sé, tanto più la liturgia eucaristica le apparirà luminosa espressione della liturgia celeste e dei misteri di carità che nel seno di Dio si consumano ab aeterno. La liturgia della Messa apparirà all'anima come l'attuazione perenne dell' Ecce venio pronunciato dal Verbo in sinu Patris.(21). L'anima comprenderà in qualche modo l'amore infinito che stringe il Padre all'Unigenito oblato alla sua gloria usque ad mortem e le sarà dato anche di comprendere che tale amore è anche sua eredità, suo possesso, perché il Padre la considera nell'unità col Capo del Corpo mistico: tanto più quanto più generosamente essa si sarà identificata a questo Capo divino attraverso l'amore e il dolore. (21) Cfr. Ebr. 10, 9. 6. La S. Comunione L'anima sentirà allora il bisogno di unirsi al Cristo nella sua partecipazione eucaristica alla S.Messa. Essa comprenderà che solo Gesù potrà svelarle gradualmente i misteri della vita divina: e che stretta a lui le sarà dato scendere in sinu Trinitatis. Mai come negli istanti della S.Comunione potrà sperare d'essere oggetto dell'amore del Padre e dei doni dello Spirito Santo: mai come in questi istanti potrà osare di offrirsi al Padre per glorificarlo nel compimento della sua volontà. Essa potrà chiedere a Gesù di introdurla nel sacrario divino per amare con lui il Padre e per essere avvolta dal suo amore. Gesù, attraverso il suo incruento sacrificio e con la partecipazione alla sua mensa la renderà meno indegna di questo ingresso nel seno della Trinità SS. Non voglio parlare di una grazia "sensibile": ma della grazia reale che ciascuna Comunione può dare all'anima che sappia chiederla e che sia consapevole di riceverla. Poiché Gesù non si può unire ad un'anima senza stringerla a sé in sinu Patris, siamo noi che riceviamo tali grazie senza comprenderle e che spesso non ci curiamo neppure di penetrarle. Noi amiamo esprimere il nostro grazie a Gesù con linguaggio spesso troppo retorico e non sappiamo bene quello che egli fa in noi e per noi quando scende nel nostro cuore. Attraverso il velo della sua umanità adorabile noi giungeremmo alla Trinità SS., se noi sapessimo squarciare con la nostra fede tale velo. Noi contempleremmo allora il Verbo incarnato nella sua unità col Padre e con lo Spirito Santo, e comprenderemmo che stringersi al Cristo è anche stringersi al Padre e allo Spirito Santo: "Chi ha visto me, ha visto anche il Padre" (22). Per questo una pietà Cristocentrica è anche una pietà trinitaria. Siamo nel cuore del dogma e della fede nei suoi cardini: "Unità e Trinità di Dio, Incarnazione, Passione e Morte di N.S. Gesù Cristo". Una tale pietà è eminentemente "sacerdotale". Chi mai, più dei suoi sacerdoti, Gesù desidera introdurre nel mistero della vita divina? A chi più verrà rivelato tale mistero che a coloro che lo rappresentano presso ì fratelli? Alter Christus! Se un sacerdote deve ricopiare in sé quanto è possibile il Maestro, non dovrà forse penetrare in lui, il Verbo, nel santuario celeste, per prendere parte, per così dire, alla sua vita in sinu Trinitatis? Tale vita non offre meno della vita "umana" di Gesù materia di meditazione. Il solo pensiero dell'annientamento (23) che la vita umana rappresenta per il Verbo e dell'amore da cui ha avuto origine basterebbe a nutrire di carità divina, di zelo e di sacrificio una intera vita sacerdotale. In sinu Trinitatis il sacerdote si lascerà avvampare della carità che è Dio, sì lascerà compenetrare della azione illuminante e consumante dello Spirito Santo, per comunicare ai fedeli i suoi lumi e i suoi ardori In sinu Trinitatis, stretto al Verbo, implorerà dal Padre il perdono per i peccatori, il dono di una grazia crescente per i giusti: in sinu Trinitatis contemplerà l'opera della Redenzione, di cui è stato eletto dispensatore e ministro. In questo abisso comprenderà che una sola cosa è essenziale, la gloria di Dio, e imparerà a tutto convergere verso questo fine supremo. La sua vocazione gli sembrerà veramente celeste, simile a quella che il Verbo fece sua per ricondurre al Padre l'umanità. Di più in più il sacerdote vorrà diventare unum col Cristo per la gloria dei Padre e la salvezza dei suoi fratelli. E quanto più questo unum diverrà realtà, tanto più Cristo rivelerà al suo sacerdote il mistero della sua vita divina, della sua unità col Padre e con lo Spirito Santo. (22) Giov. 14, 9. (23) Cfr. Fil. 2, 6-8. 7. L'Ufficio Divino. L'Ufficio divino diventa, per i sacerdoti e per i fedeli che vivono la Inabitazione, la preghiera preferita dopo quella eucaristica. E' la preghiera divina stessa, la preghiera che il Cristo eleva al Padre attraverso il suo Corpo mistico, la preghiera suggerita dallo Spirito Santo. Nei salmi, nelle orazioni, nelle lezioni l'anima coglierà lo splendore delle verità eterne e delle perenni aspirazioni degli uomini. In essi ora sentirà l'eco delle offerte e delle impetrazioni del Verbo, ora l'eco delle promesse e della volontà del Padre. Il Gloria ripetuto ad ogni passo richiamerà l'orante al pensiero del Gloria eterno che risuona nei cieli e che Dio eleva a se stesso nell'anima sua. L'Ufficio non è più allora un peso grave e sgradito, un compito da sbrigare al più presto, ma il centro della propria pietà, il mezzo per unirsi alla lode che tacitamente si perpetua negli abissi dell'anima santificata dalla grazia. Il fedele sente, allora, che, se non sempre questa lode può risuonare nel tempio materiale, sempre può effondersi nel tempio mistico della sua anima per avvolgere come di un'incensazione spirituale il tre volte Santo. Il fedele anelerà ripetere questo Sanctus mirabile che è l'Ufficio divino nel profondo del suo cuore, come i Beati e i Cori angelici lo ripetono nell'alto dei cieli (24). Lo ripeterà non solo a nome suo, ma a nome di tutti i fratelli, cercando di immedesimare questo piccolo Sanctus umano al vero Sanctus, quello che la Trinità ripete a se stessa, l'unico degno di esserle presentato. (24) Cfr. Isaia 6, 2-3. 8. L'Orazione E' difficile dire quanta influenza può avere nello sviluppo dell'orazione il culto della Trinità inabitante. L'anima che sa (e ricorda) di portare in sé il Signore, è inclinata a cercare nel profondo la luce. Bisogna mettere i fedeli a contatto con le tre Persone, bisogna loro insegnare a fare dell'orazione un colloquio intimo con loro, un riposo cuore a cuore con Dio. Si può esigere che tutti possano "sentire" subito questo cuore a cuore e fare orazione senza aiuto di testi? No, certamente. S.Teresa usò i libri di meditazione per diciassette anni. Ma bisogna insegnare ai fedeli a cercare più vicino a loro, in loro, il Maestro. Lo Spirito Santo, con i suoi doni di sapienza, di intelletto, di scienza, segna d'un sigillo divino il nostro spirito. Quanto ricordiamo che tali doni sono nostri? (25) Quanto attingiamo a questa ricchezza per penetrare le cose celesti e le cose terrene nell'orazione? Non è piuttosto una ricchezza abbandonata negli abissi dell'anima, mentre ci lamentiamo di non essere capaci di comprendere le cose divine? Quante volte l'amore di Dio per noi ci sembra inafferrabile solo perché non pensiamo mai a coglierne nel seno della Trinità il centro e la realtà ineffabile? Quante volte il Padre del cielo ci sembra troppo lontano per raccogliere le nostre aspirazioni, i nostri propositi, il nostro dolore, e non comprendiamo che egli compenetra la nostra anima del suo amore e attende che noi gli parliamo come il Figlio al Padre! Quante volte elemosiniamo conforto, luce, aiuto da mille persone, senza che ci venga in mente di ricorrere prima di tutto a chi è in noi per essere l'Amico, il Sostegno, il Maestro, oltre che il Santificatore! A chi solo può dare agli altri la grazia di aiutarci e di illuminarci! Molte anime semplificherebbero di colpo la loro meditazione e soprattutto la vivificherebbero, se al termine della lettura cercassero in sé l'oggetto dei loro sospiri e della loro ascesa: l'unico, il vero Maestro. Molte anime vedrebbero presto cadere il velo e chiuderebbero per sempre i testi per ascoltare la lezione interiore, più efficace dei più sublimi trattati. Dico "molte", non tutte : per lo meno molte che, non illuminate, perdono grazie preziose. (25) Ci sono stati dati e perciò sono divenuti nostri, ne possiamo disporre secondo la loro intrinseca finalità, che è quella di renderci sempre più docili alla azione dello Spirito, più disponibili alle sue esigenze di santità. (cfr. nota 13). 9. La Carità. Ho già scritto ripetutamente che non si può elevare lo sguardo alla Trinità SS. senza cogliere l'essenza della vita divina: la carità, il dono che resterà in eterno, quando la fede e la speranza stesse non avranno più ragione di sussistere. Nei rapporti fra le tre Persone, l'orante coglie l'espressione e la realtà suprema dell'amore. Come ho scritto per la S.Messa, è la visione del Padre che si curva sull'Unigenito del Figlio che si offre alla glorificazione del Padre con un ecce venio spinto fino alla incarnazione e alla morte, dello Spirito Santo, il nodo stesso dell'amore che trabocca dal seno divino sull'umanità: è il Padre che ama nel Figlio tutti gli uomini, eletti a fratelli di Cristo; è il Verbo che ama le creature del Padre fino alla morte, all'Eucarestía, ai Sacramenti tutti; è lo Spirito Santo che lascia loro i doni supremi dell'amore e del Sacro Settenario. Considerando il mistero della vita trinitaria, l'anima non può più dubitare d'essere amata e non può più esitare a contraccambiare l'amore con l'amore. Abyssus Abyssum invocat (26): essa si stringerà con tenerezza filiale al Padre, con riconoscenza inesprimibile al Verbo, con devozione profonda allo Spirito Santo. A un amore senza misura vorrà rispondere con l'amore più grande di cui sia capace un piccolo cuore umano. Questa carità porterà, come ho detto, all'odio del peccato, alla docilità delle ispirazioni, all'offerta generosa di sé, alla gloria di Dio. Il Verbo sarà in quest'ultima cosa il supremo Maestro. Questa carità traboccherà dall'anima sui fratelli come dalla Trinità stessa sul mondo. Noi ameremo col Padre i suoi figli, i redenti di Gesù; con Gesù vorremo conoscere le dedizioni più generose al Corpo mistico; con lo Spirito Santo vorremo illuminare, confortare, irrobustire i fratelli. Saranno le tre Persone che agiranno nell'Apostolo che vuole far sua,quanto è possibile, la loro vita; sarà particolarmente il Cristo che sceglierà fra gli eletti coloro che vuole specialmente deputati a "prolungare" la sua umanità e a continuare la sua opera di Salvatore nella predicazione e nel sacrificio. Quante durezze, quante ingenerosità, quante pigrizie cadrebbero se pensassimo a far nostra la vita divina che è in noi, ed imparassimo, dal Signore uno e trino, ad amare senza tregua, senza limiti, senza condizioni, a donarci anche se incompresi e misconosciuti, come colui che è tanto misconosciuto, a perdonare e a ridonarci senza posa, come colui che non si rifiuta al più piccolo cenno di dolore e di desiderio e che previene spesso anche questo "cenno"! Quanto rispetto per le anime santificate dalla grazia! Quanto desiderio di donare la Trinità a chi è nel peccato, di rivelare la sua presenza a chi la ignora o la dimentica! Quanto apostolato di vera vita interiore, di vera santità! L'apostolo non ha che da affondare il suo sguardo in seno a Dio per comprendere le ragioni supreme della sua opera e la perfetta donazione che essa richiede, per attingere soprattutto in Dio stesso la carità, i lumi, la fortezza che ogni conquista richiede. E se ogni fedele considerasse il mistero della Trinità non come una astrazione, ma come una sorgente viva di luce e di amore, ogni fedele diventerebbe un apostolo. Il Cristo stesso non può essere compreso se non nei suoi rapporti col Padre e con lo Spirito Santo e nella sua unità con loro. Non bisogna dimenticare che Gesù considerava un errore in loro l'amarlo e il pensarlo in sé, come avulso dal Padre celeste; e Gesù cercò di correggere tale concezione errata, richiamando i discepoli a vederlo nella sua unità, e nei suoi rapporti col Padre e con lo Spirito Santo. Chi ama lui ama anche il Padre, chi ha visto lui ha visto anche il Padre: al Padre nella preghiera suprema affida i redenti; è necessario che egli sia glorificato nei cieli perché discenda il Paraclito: e la promessa più grande per i discepoli è la venuta delle tre Persone nel loro cuore: Veniemus (27). E' Gesù stesso che ci ha invitati ad attingere nella Trinità il modello della carità: "Padre, che essi siano uno come io e te siamo Uno" (28). Prima di lasciare gli Apostoli Gesù li ha invitati a levare i loro occhi più in alto che non fossero nella considerazione di lui nella sua umanità. Li ha condotti a fissarli nel mistero della sua vita divina perché dalla sua unità col Padre imparassero ad essere una sola cosa nella consumazione della carità. Questo è stato il testamento del Maestro a coloro che per primi avrebbero dovuto amare i fratelli fino alla morte subita per predicare loro la Verità. Uno dei più grandi alunni del Cristo, S.Paolo, apprese mirabilmente la lezione del Maestro e tradusse con linguaggio divino questa "unità" fra le membra del Corpo mistico, che ha il suo esempio nella Trinità stessa. "Chi è ammalato che io non sia infermo? Chi è arso che io non bruci? Gaudere cum gaudentibus, flere cum flentibus" (29). 1 fedeli sono un unico corpo; il dolore di uno è il dolore di tutti, il merito di uno a tutti appartiene. Ciascuno di noi non è isolato, ciascuno deve pregare, amare, soffrire a nome di tutti i fratelli, perché il Signore ama considerarci nell'unità, la perfezione dell'amore. (26) Salmo 42, 8. L'espressione: "un abisso chiama l'abisso" nel salmo fa parte di una poetica descrizione del luogo dell'esilio, che coi suoi torrenti in piena e colle sue cascate, accresce la tristezza del fedele costretto lontano dal Santuario di Dio e dalle feste che vi radunano il popolo. Ma, divenuta proverbiale, l'espressione può significare l'efficace richiamo dell'amore (come qui) oppure anche il pericolo della sdrucciolevole china del vizio. Itala, citandola, intende dire che l'infinito amore di Dio sollecita la nostra risposta di un amore totale. (27) Giov. 14, 23; cfr. Giov. 8, 9; 12, 26. 44. 50; e i capitoli 14, 15, 16, 17; 1 Giov. 2, 22 ss. (28) Giov. 17, 11. 21 s. (29) Rom. 12, 15: "Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto". La dottrina del "Corpo mistico", per cui la Chiesa è come un soprannaturale organismo dove i fedeli sono intimamente e vitalmente uniti a Cristo e tra loro, dove il principio unificante e vivificante è lo Spirito Santo, è fondamentale in tutto l'insegnamento paolino: cfr. p. e. 1 Cor. 10, 16 s.; 12, 12-30; Ef. 1, 22 s.; 2, 14-16; 5, 23- 30; Col. 1, 18-24; 2, 19; Rom. 12, 4 ss. ecc. Vedi anche Pio XII, Mystici Corporis; Vat. Il, Lumen Gentium n. 7. 10. L'Umiltà. S. Benedetto (30) pone a fondamento della scala dell'umiltà l'esercizio della presenza di Dio: è il primo grado dell'ascesa. Noi non potremmo vivere meglio questa presenza che adorando il Signore nella nostra anima. L'adorazione non sarà soltanto un atto formale, ma una realtà vissuta, quando a Dio vivente in lei l'anima imparerà a sacrificare l'io. L'io è fondamentalmente ammalato di orgoglio: vuole "affermarsi" col suo pensiero, con la sua volontà, con i suoi affetti. L'anima è santificata dalla presenza di colui che è perfezione infinita. Ma l'io vorrebbe in qualche modo scindersi dal suo Signore, vivere indipendentemente da lui, contro di lui; è la superbia della creatura accanto al Creatore. La prima forma dell'umiltà è l'abnegazíone dell'io dinanzi a Dio. S.Benedetto stesso fa salire il monaco dall'esercizio della presenza di Dio all'accettazione della sua volontà in tutte le forme. E' l'io che cede il passo al Signore. E' la creatura che si umilia dinanzi al Creatore. Piegare dinanzi a lui, piegare anzitutto nel profondo: sacrificare il proprio pensiero, la propria volontà, i propri affetti per far nostri quelli di lui. L'anima sacrifica il suo modo di pensare, di volere, di amare, e fa suo quello di Dio: atteggiamento fondamentale dell'umiltà. Essa attinge in se stessa, in quanto tempio di Dio, questo "modo" divino: o meglio in Colui che la inabita. Bisogna lasciare che l'io venga trasformato da Dio: gettarlo nel seno della Trinità SS. perché il suo modo di pensare, di volere e di amare diventi divino. Non vi è vera umiltà, senza questa immolazione profonda dell'io sull'altare della liturgia celeste: questo sacrificio è anzi l'essenza stessa dell'umiltà.(Chiedersi spesso: io considero così questa persona, questo evento; Dio in me li considererebbe nello stesso modo? Io amo questo altro come il Signore e con il Signore, o vi è dualità" La dualità è l'io che vuol vivere contro Dio, è l'orgoglio). La virtù esterna non è che una conseguenza di questo atto indispensabile di rinuncia interiore. Noi non ci esalteremo di fronte ai fratelli se avremo riconosciuto l'infermità del nostro io e la necessità di sacrificarlo al Signore perché non lo offenda. Ogni esaltazione sarebbe una menzogna e un rinnegamento della verità che vive in noi. (L'umiltà è verità non solo perché, come si dice abitualmente, è il riconoscere la nostra vera debolezza, ma anche perché è il nostro perderci in seno a colui che è il vero stesso; è il nutrirci di tale vero nel pensiero, nella volontà, negli affetti, fino a immedesimarci a lui, fino a vivere di lui in lui nell'unità perfetta e nel sacrificio completo dell'io). Solo chi, avendo riconosciuto la miseria della propria natura, ha abbandonato a Dio l'io nell'umiltà della verità; solo chi riconosce tra i fratelli questa sua povertà e insieme la ricchezza divina che può provenirgli da tale abdicazione, può giungere a una unità "sensibile" con la Trinità SS. Quanto più questo "riconoscimento" è profondo e "convinto", tanto più la Trinità si manifesta all'anima perché l'anima è più unita alla verità. L'orgoglio pone un velo fitto fra l'anima e il Signore, anche se non è così grave da separarli decisamente; perché l'orgoglio è opposto al vero e lo rinnega. "Se non diventerete come fanciulli non entrerete nel regno dei cieli" (31): non solo nel regno che è il Paradiso, ma nella sua anticipazione che è l'intimità col Signore su questa terra. Nessuna anima potrà godere di una vera e tenace intimità col suo Dio, pur così vicino ad essa e in essa vivente, se non sarà umile, almeno nella volontà, se non nella realtà pratica (in essa la perfezione dell'umiltà è difficilmente raggiungibile, per la tenacia dell'amor proprio). Ma quando l'anima, riconoscendo il suo nulla, la sua cecità, la sua inclinazione al male, avrà chiesto a Dio di invaderla e di comunicarle le sue perfezioni, quando avrà imparato a volere essere l'ultima dei suoi fratelli, come il Figlio Prodigo, allora il Signore la introdurrà nel suo regno, manifestandosi a lei nel profondo e rivelandole i più sublimi misteri della sua vita. (30) Itala si rifà alla regola di S.Benedetto (c.VII), ma per cogliervi delle indicazioni valide per tutti i cristiani, e non solo per ì monaci, considerando la umiltà più che come una virtù particolare, come l'atteggiamento base onnipresente dell'anima davanti a Dio, in accordo con tutta la tradizione ascetica. (31) Mt. 18, 3. 11. L'Abbandono. Dall'abbandono dell'io interiore a Dio, è facile passare all'abbandono nella vita esteriore.Anche questa è una forma di umiltà. Il Signore che vive in noi non può volere per noi il male. L'anima che è il suo tempio gli è preziosa più che il più ricco tempio materiale. Omnia cooperantur in bonum iis qui vocati sunt sancti (32). La "santità" non è forse nel suo significato fondamentale il possesso della Trinità SS. nella grazia? Dio tutto vuole o permette perché l'anima gli sia sempre più unita, perché sia sempre più sua. Egli non desidera che comunicarsi di più in più alla sua creatura, in questa donazione intima il cui valore comprenderemo solo in cielo. Omnia cooperantur. Nei momenti difficili della vita non cerchiamo sterili compatimenti e non perdiamoci d'animo. Il Padre dei cieli è in noi: in noi è il Verbo che nella sua vita terrena ci ha preceduti nella via del dolore, in noi è lo spirito di fortezza e di consiglio. Stretti al Verbo, sotto l'impulso di questo Spirito d'amore, ripetiamo al Padre; "in capite libri scriptum est de me ut facerem voluntatem tuam: Deus meus, volui" (33)"Omniapossum in eo qui me confortat" (34)."In eo qui me confortat". Che abisso di luce, se l'anima pensa che questo "conforto", questo sostegno, è in lei stessa! Quanto più noi ci abbandoneremo a lui, tanto più egli si abbandonerà a noi. E tale "abbandono" di Dio avviene sempre, ricordiamolo, nel profondo. Molte sono le vie, ma la pienezza dell'unione è sempre segnata dal regno incontrastato della Trinità nell'anima; i germi del Battesimo raggiungono allora il loro massimo sviluppo. E quando Dio si è abbandonato così a una creatura da lasciarsi possedere mirabilmente su questa terra, l'abbandono della creatura a lui non è più difficile. Allora il qui me confortat è pienamente vero, perché nella luce piena l'anima vede che " tutto"veramente ha cooperato alla sua santità. Tuttavia per giungere a questa età in cui l'abbandono è amore e lode sensibile, dobbiamo prima esercitarlo nelle ombre della fede."Beato chi non ha veduto e ha creduto" (35). Adiuvabit eam Deus vultu suo (36): il Signore aiuterà l'anima nelle prove spesso terribili della sua ascesa con la sua presenza adorabile: questa presenza sarà dapprima cercata con uno sforzo attivo, creduta con la cima della volontà in certe ore buie: noi ci abbandoneremo al Signore presente in noi ma nascosto: un giorno colui che sarà stato fedele a cercare Dio nel buio e ad abbandonarsi nelle sue braccia, senza sentire la sua stretta amorosa e rassicurante, potrà forse avere il dono d'essere sorretto dalla contemplazione di lui nelle manifestazioni supreme del suo amore. (32) Rom. 8, 28. Il testo completo nella traduzione della vulgata è "Scímus autem quoniam diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum, iis qui secundum propositum vocati sunt sancti" - "Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati (Santi) secondo il suo disegno". "Santi" è un'aggiunta esplicativa della vulgata: Gli "Eletti", i "Chiamati" per S.Paolo sono cristiani chiamati alla fede e alla giustificazione. (33) Salmo 39 della vulgata, 40 dei testo Massoretico; cfr. Ebr. 10, 5-9. (34) Fil. 4, 13: "Tutto posso in colui che mi dà la forza". (35) Giov. 30, 29. (36) Versetto liturgico che si recitava, prima della riforma, p. e. a terza e a nona dell'Ufficio, delle Vergini: "Dio l'aiuterà colla sua presenza", "mostrando il suo volto". Riecheggia il Salmo 46 (Vulgata 45), 6. 12. Le Virtù Religiose (37). a. La Castità. L'esercizio dei voti religiosi può divenire molto più luminoso se considerato nella realtà della grazia. Non vi è bisogno di fermarsi sull'esercizio della purezza alla luce dell'Inabitazione, sulla necessità di conservare la "consacrazione" battesimale del templum Dei. Ogni profanazione di un tempio è sacrilegio. Forse molte anime giovanili non conoscerebbero certe cadute, se fossero illuminate convenientemente sulla ricchezza che il Battesimo ha deposto in loro; non bisogna avere paura di predicare ai giovani e al popolo le verità dogmatiche più grandi; non bisogna immiserire il dogma. L'esperienza prova che anche i bambini, istruiti in forma elementare sul dono che possiedono nell'Inabitazione, acquistano il senso della gravità di ogni profanazione del templum Dei. S.Paolo non ammoniva altrimenti i primi cristiani, e per sanarli dalle passioni depravanti, da cui alcuni non riuscivano a liberarsi, li metteva a contatto con la realtà divina della grazia, che il Battesimo aveva loro donato. Noi abbiamo immiserito la nostra pedagogia; e dobbiamo accorgerci con spavento che gli appelli al rispetto della natura, alla conservazione della salute, all'ubbidienza a un Dio così poco "nostro" in certe predicazioni non scuotono più le anime. Ma a parte l'esercizio della purezza, senza il quale non vi è grazia e quindi Inabitazione, l'amore della castità si sviluppa alla luce della Inabitazione. E' il conservare tutto per Dio il nostro essere fisico e spirituale, è il voler conoscere solo il suo amore perché più profonda sia l'unione, più grande e tranquilla l'intimità. b. L'Obbedienza. L'obbedienza ha il suo grande esempio nel Verbo, disceso dal seno della Trinità SS. a prendere la nostra carne per compiere la volontà del Padre. Nessuna anima che sia perduta nella contemplazione di questo annientamento, sentirà come sgradito e irragionevole il giogo dell'ubbidienza. Dalla contemplazione della Trinità ogni monaco si sentirà sorretto nelle prove più dure che l'obbedienza monastica può riserbargli. All'ecce venio del Verbo farà eco l'ecce venio dell'anima dinanzi a coloro cha rappresentano il Padre celeste: omnis paternitas a Deo (38). E' ancora lo Spirito Santo che suggerisce all'anima questo "sì" perenne ad ogni ordine: perché il "si" deve scaturire da uno spirito di amore e non di timore. Sarà lui che renderà l'anima assetata di ubbidienza, perché è un unico spirito che fa risalire il Verbo al Padre in un'incessante oblazione, e col Verbo tutti coloro che a lui vogliono essere stretti. Unus Spiritus, unum Baptisma (39). Ogni esitazione svanisce, ogni ribellione si spegne, ogni timore scompare, se il monaco riflette che il Padre celeste ha comunicato la sua paternità a chi lo rappresenta e che come il Verbo si dona al Padre perennemente e si é donato fino all'Incarnazione e alla morte; il religioso deve abbandonare la sua volontà e tutta la sua vita nelle mani dei rappresentanti di Dio, sotto l'impulso dello Spirito d'amore. Abbandonarsi ad ogni esigenza, ad ogni contraddizione, ad ogni incomprensione. L'ubbidienza può stritolare un'anima. Ma nessun annientamento sarà paragonabile a quello non accettato, ma voluto dal Verbo nell'ardore dello Spirito Santo. c. La Povertà Bisogna elevare di tono anche l'esercizio della povertà. Diamo alle anime la coscienza della ricchezza divina che possiedono, la coscienza piena e pratica: immediatamente le cose materiali verranno svalutate ai loro occhi. Quando si sa di possedere in noi Dio uno e trino, il Creatore, il Redentore, il Santificatore; quando lo si sa, non per una conoscenza astratta, ma per una prolungata meditazione su questa realtà ineffabile, è difficile potersi attaccare tenacemente alle cose terrene: rimarrà una sensibilità per esse, certo; ma sarà facile sacrificarle, per non sacrificare a loro un'intimità più grande con Dio (intimità, ricordiamolo, inconciliabile con ogni attaccamento). Molte religiose non si smarrirebbero per l'affetto irriducibile alle loro piccole cose, se riflettessero che possiedono nel loro cuore il Creatore di tutte le cose: se comprendessero che tali affetti pongono un velo fra loro e il Signore e che per rinunciare al possesso o al desiderio di oggetti caduchi, rinunciano ad attingere più largamente al tesoro divino che la grazia pone non accanto a loro, ma in loro. Ma deve pur ricordarsi che l'intimità col Signore distacca dal creato e pur insegna l'amore del creato. L'anima che vive a contatto con Dio sente il "culto" di tutto ciò che la circonda, perché tutto gli appartiene, tutto è reso sacro da questa appartenenza. Ma questo amore, questo rispetto, questa cura di ogni cosa sono del tutto soprannaturali. Il monaco che ha reciso ogni legame fra il suo cuore e le cose create (40) ha stretto legami ineffabili fra il suo cuore e il Creatore, il quale, nella sua liberalità divina, restituisce tutto al suo amore: un amore celeste, che non è più separazione, ma unità con l'amore essenziale. (37) Nei tre paragrafi seguenti Itala si rivolge ai monaci e ai religiosi, per mostrare come nella realtà dell'Inabitazione sia più facile vivere i loro voti specifici, ma quel che dice Itala può avere una utilità spirituale anche per i laici: la castità, l'obbedienza, e la povertà sono virtù cristiane, prima di essere oggetto di un particolare impegno religioso. (38) Cfr. Ef. 3, 15, e Rom. 13, 1 (qui: potestas invece di paternitas): "ogni paternità è da Dio". (39) "Un solo Spirito, un solo battesimo" (cfr. 4, 4 e 5). 13. La Mortificazione e il Dolore. Il Verbo è ormai glorificato nella sua umanità alla destra del Padre. In nome del suo sacrificio cruento di un giorno e dell'incruento sacrificio rinnovato sugli altari incessantemente egli intercede per noi: ad interpellandum pro nobis (41). Ma la sua intercessione non può più essere accompagnata dall'oblazione della sofferenza. E Gesù chiede alle anime generose di "completare" la sua passione, di prolungare nella loro carne e nel loro cuore il suo doloroso sacrificio. Adimpleo ea quae desunt passionibus Christi (42). Se noi consideriamo l'Unigenito fatto carne e immolato per la salvezza delle anime nostre, non possiamo sottrarci al desiderio di partecipare a questa immolazione e di portare il peso del nostro peccato: nostro, di ciascuno di noi e di tutti noi. L'anima che vive a contatto con la Trinità, trova nel mistero divino le ragioni fondamentali di ogni suo sacrificio. Con la carità che attinge nel seno stesso di Dio, si stringe al Verbo e gli offre la sua povera umanità, perché in essa egli possa espiare e meritare, non solo per lei, ma per tutti i fratelli. Una "piccola" creatura porta nel seno della Trinità augusta una "piccola" umanità, perché negli ardori dello Spirito Santo essa sia presentata dal Verbo al Padre, a lui stretta, a lui disposata, e divenga agli occhi del Padre un'unica ostia con l'Unigenito. Quanto più l'anima è generosa nella sua offerta, tanto più lo Spirito d'amore la stringerà al Verbo e nel braciere divino l'ostia sarà consumata per la gloria di Dio. In proporzione del suo desiderio la creatura riceverà la grazia del dolore; in proporzione della sua generosità le verrà accresciuta la forza di cercare volontarie immolazioni e di subire le prove divine. Ma proprio questo bisogna insegnare alle anime: a portare nel seno della Trinità il loro sacrificio. Là esse impareranno a consumarlo dinanzi al Padre, sotto l'impulso dello Spirito Santo, in unione al Verbo; là impareranno a conoscere il segreto di una gioiosa immolazione. Poiché in seno alla Trinità non vi è dolore: la vita divina è pace inalterabile, è gaudio perenne, è lode di gloria, laus gloriae. In questi abissi il dolore, pure restando sensibile alla creatura, che altrimenti non sarebbe più tale, diventa lode. L'anima non lo subisce più, anelando ad esserne liberata, ma lo ama, lo vuole, perché è l'eredità che il Verbo le ha lasciato ascendendo al cielo. Egli ha portato con sé l'umanità adorabile che per noi aveva assunta: noi non possiamo ritrovarla che nel mistero eucaristico attraverso la fede. Ma qualcosa il Verbo non ha potuto portare con sé: qualcosa ci ha lasciato: ciò che aveva meritato alla sua Carne la glorificazione e a noi la grazia. E' il dolore che Gesù ha deposto nelle nostre mani, perché sino alla fine dei secoli sia il nostro orgoglio e la nostra ricchezza. Egli ce lo ha consegnato perché noi ne ammantassimo la nostra povera umanità come di un manto regale: perché lo facessimo nostro con umile gioia, tremando al pensiero che è stato suo, eminentemente suo, perché da lui scelto come mezzo per la Redenzione. "Tutte le cose mie sono tue" (43). Nostro, ma come tutte le cose, che appartengono a lui e a noi insieme. Noi prendiamo questo dono supremo del Maestro e a lui lo riportiamo nel seno della Trinità, a lui, il Verbo del Padre, uno con lui e con lo Spirito Santo: perché questo dono non resti infruttuoso, ma per lui possa essere presentato al Padre e divenga prezioso ai suoi occhi. Allora il dolore di una piccola anima diventa ancora il dolore di Cristo, del Verbo umanato, e si trasforma in sorgente di grazia. Per esso molti peccati vengono cancellati, molte donazioni di luce concesse. L'anima che ha fatto dell'Inabitazione il centro della sua vita, ottiene a mille altre anime la grazia suprema e il possesso e l'intimità col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo. Per questo il dolore si trasforma nella lode ed è una espressione della laus perennis, che risuona in seno a Dio. Esso non interrompe, ma perfeziona il canto dell'anima che, perdendosi nella Trinità SS., ha trasformato la sua vita in una perenne liturgia eucaristica: Eucarestia significa, ricordiamolo, rendimento di grazie. "Vivere l'Inabitazione non è una cosa straordinaria ma la logica conseguenza dei nostro Battesimo"(ms. 39, 141). (40) Il distacco della povertà non è disprezzo o disinteresse per le realtà terrene, non è egoistica evasione, ma un collocare ogni cosa e ogni valore al loro posto. (41) Cfr. Ebr. 7, 25: "essendo Egli sempre vivo per intercedere a loro favore". Itala cita la vulgata: "per intercedere a nostro favore". (42) "Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo" (Col. 1,2 24). Non si tratta di aggiungere qualcosa al valore redentivo della Passione di Cristo, ma di associarsi all'opera redentiva di Cristo per cooperare alla attuazione del disegno divino di salvezza, nel posto e nella misura prevista da Dio stesso. (43) Giov. 17, 10. Va Sottolineato come Itala riesca a trasfigurare la stessa sofferenza che diviene "l'eredità" lasciataci da Cristo, "il nostro orgoglio e la nostra ricchezza", il "manto regale" che riveste la povertà della nostra natura umana. Cristo non ha eliminato il dolore quaggiù; ha fatto molto di più: lo ha piegato a servire alla salvezza e ci ha dato la facoltà e la capacità di fare altrettanto. Itala Mela PREGHIERA ALLA SANTISSIMA TRINITA' Mio Dio, Trinità Beata, io Ti rendo grazie per la Luce e l'Amore di cui - con misericordia infinita - hai colmato l'anima mia, per la vocazione e per i doni che mi hai concesso nella Tua Chiesa, volendo che in Essa e per Essa fossi illuminata e santificata dai miei primi passi nelle Tue vie fino alla Parola confortatrice del Tuo Vicario. Ma io Ti rendo grazie ancora, o Trinità Beata, per tutte le spine che ho trovato sul mio cammino e per tutte le lacrime che ho versato: grazie soprattutto per il presente annientamento della mia anima e della mia vita. Per l'infermità e la povertà: per ogni dovere greve al mio corpo e al mio spirito: per la solitudine, l'isolamento, i distacchi: per ogni incomprensione e umiliazione: per le oscurità, le incertezze, le angosce, le rinunce dell'anima: per la mia stessa miseria ed incapacità a donarti quell'amore perfetto da cui vorrei essere consumata: per lo stroncamento umano di tutta la mia vita e di tutte le mie aspirazioni: per ogni prova da Te scelta e inviata alla mia piccola anima, io Ti ringrazio, o Signore. Fa, o Signore, che da questo profondo annientamento salga a Te la mia preghiera: anzi che questo stesso annientamento esprima l'incessante adorazione del mio essere completamente offerto e immolato dinanzi al Tuo Trono. Fa che io non tenti sfuggire al Fuoco santificante del dolore, ma che in silenzio, immobile sull'Altare del Sacrificio,unita all'Agnello immolato, mi offra al Tuo volere nella pienezza dell'abbandono e della carità, fino all'ultimo istante della mia vita. Fa che questa oblazione sia il mio piccolo tributo allaTua Gloria, sia la supplica che io Ti offro per me e per tutte le anime legate alla mia vocazione, affinchè Tu ci custodisca nella Verità, che salva da ogni illusione e da ogni errore, nella carità pronta ad ogni sacrificio e ad ogni opera. Dona a noi la perfetta intelligenza del Tuo Volere e la Fortezza per compierlo senza incertezze e senza deviazioni: custodiscici in quell'unità perfetta che è pegno della Tua Presenza divina fra le anime. 1. Ascolta la preghiera che Ti rivolgiamo per la Tua Gloria e concedi non ai nostri meriti, ma ai gemiti della Tua Chiesa quella nuova donazione di Luce e di Grazia che Tu hai promesso per illuminare e santificare le anime negli immani travagli dell'ora presente e dell'oscuro avvenire. Se è necessario per questo il sacrificio della mia vita, in questa Festa di S.Pietro, che è festa del Tuo Vicario, io Te ne rinnovo l'oblazione già a Te un giorno presentata per le mani di Maria Immacolata. L'intercessione della Vergine Madre e degli Apostoli Pietro e Paolo accompagni la mia offerta e ne renda meno povera la perfetta consumazione. In quel giorno beato rinnova per me le Tue Misericordie e fa che s'inizi la mia lode celeste, eco dell'inno di adorazione, di ringraziamento e d'amore innalzato a Te, Uno e Trino, da tutte le anime che riceveranno la grazia di possederTi consapevolmente in se stesse e di vivere di questo possesso. "... Non dobbiamo dimenticare che tradire la nostra vocazione alla santità è anche tradire tutti coloro la cui salvezza è legata alla nostra immolazione "(manoscritti. 39, 118) . (1)Itala scrisse questa "preghiera - offerta" il giorno di S.Pietro 1941. Il 21 aprile precedente Mons. A. Bernareggi, in udienza privata presso il S. Padre, presentava 9 Memoriale di Itala che abbiamo pubblicato nel Quaderno n. 5. Il 29 aprile, solo otto giorni dopo, il Papa, attraverso il Card. Maglione, Segretario di Stato, inviava a Itala una lettera di approvazione e di benedizione. La "preghiera - offerta" che pubblichiamo voleva essere un'implorazionedi luce per coloro che, su invito di Pio XII, si sarebbero impegnati in un movimento di studi trinitari, onde preparare un Documento che il Papa aveva fatto sperare a Mons. Bernareggi. Ci furono infatti diversi scritti sull'argomento: sulla Civiltà Cattolica" (P. Filograssi S. I.), su "Vita Cristiana (P. Garrigou - Lagrange 0. P.), su "Vita Spirituale" (P. Teresio e P. Gabriele di S. M. Maddalena 0. Carm.).Il documento pontificio venne, e precisamente due anni dopo, anche se non si limitò alla Inabitazione Trinitaria, ma ne inquadrò la realtà nel contesto della dottrina sul Corpo Mistico (cfr. Pio XII, Mystici corporis 29 giugno 1943). Ritrovato da ARTCUREL: Arte, Cultura e Religione (Art , Culture and Religion) www.artcurel.it --- info@artcurel.it Fonte : http://www.geocities.com/italamela/ascesi2.htm Fonte: http://www.artcurel.it/ARTCUREL/SANTISSIMATRINITA/italamelaascesinellaluceinabitazione.ht m Reimpaginato Valentino Spataro, pregaognigiorno.it