sábado, 6 de novembro de 2010

Card. Darío Castrillón Hoyos: «Sull’obbligo dell’abito ecclesiastico»: il segno dell’abito sacerdotale, proprio perché segno di appartenenza totale a Cristo e alla Chiesa, non è facoltativo ma risponde all’esigenza intrinseca del sacramento dell’ordine di testimonianza pubblica della nuova identità conferita al ministro ordinato. È, quindi, allo stesso tempo un diritto e un dovere: di rendere evidente ciò che si è diventati, manifestandolo pubblicamente agli altri anche nel modo di vestirsi, che non può essere arbitrario ma deve corrispondere alla nuova identità, di cui ci si è lasciati liberamente rivestire da Cristo.

 


Card. Darío Castrillón Hoyos
Sull’obbligo dell’abito ecclesiastico
*




La peculiarità dell’abito sacerdotale viene efficacemente descritta nel n. 66 del “Direttorio per la vita e il ministero dei presbiteri”, intitolato: “Obbligo dell’abito ecclesiastico”; vale la pena perciò citarlo per intero corredato anche delle sue note:
«In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista, dove anche i segni esterni delle realtà sacre e soprannaturali tendono a scomparire, è particolarmente sentita la necessità che il presbitero – uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri – sia riconoscibile agli occhi della comunità, anche per l’abito che porta, come segno inequivocabile della sua dedizione e della sua identità di detentore di un ministero pubblico [1]. Il presbitero dev’essere riconoscibile anzitutto per il suo comportamento, ma anche per il suo vestire, in modo da rendere immediatamente percepibile ad ogni fedele, anzi ad ogni uomo [2], la sua identità e la sua appartenenza a Dio e alla Chiesa.
Per questa ragione, il chierico deve portare “un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza episcopale e secondo le legittime consuetudini locali” [
3]. Ciò significa che tale abito, quando non è quello talare, deve essere diverso dalla maniera di vestire dei laici, e conforme alla dignità e alla sacralità del ministero. La foggia e il colore debbono essere stabiliti dalla Conferenza dei Vescovi, sempre in armonia con le disposizioni del diritto universale.
Per la loro incoerenza con lo spirito di tale disciplina, le prassi contrarie non si possono considerare legittime consuetudini e devono essere rimosse dalla competente autorità [
4].
Fatte salve situazioni del tutto eccezionali, il non uso dell’abito ecclesiastico da parte del chierico può manifestare un debole senso della propria identità di pastore interamente dedicato al servizio della Chiesa. [
5]»
Come si può ben vedere, in questo numero del Direttorio sono state condensate, in poche righe, le direttive della Chiesa riguardo all’obbligo dell’abito sacerdotale, segno della propria consacrazione sacerdotale al servizio di Cristo e della sua Chiesa.
Noi tutti sappiamo quanto i segni siano, da sempre, elementi significativi nella vita e nella cultura dell’uomo, di ogni latitudine e longitudine, essendo essi parte della stessa convivenza umana; non è Dio ad aver bisogno di segni per se stesso, ma è l’uomo che ne ha reale necessità.
I segni, infatti, sono parte integrante dell’umanità e ad essa appartengono. Fin da fanciulli abbiamo pure imparato ad esprimerci, ad interpretare la realtà ed a porci dinanzi ad essa attraverso i segni.
Ora, il segno dell’abito sacerdotale, proprio perché segno di appartenenza totale a Cristo e alla Chiesa, non è facoltativo ma risponde all’esigenza intrinseca del sacramento dell’ordine di testimonianza pubblica della nuova identità conferita al ministro ordinato. È, quindi, allo stesso tempo un diritto e un dovere: di rendere evidente ciò che si è diventati, manifestandolo pubblicamente agli altri anche nel modo di vestirsi, che non può essere arbitrario ma deve corrispondere alla nuova identità, di cui ci si è lasciati liberamente rivestire da Cristo.
L’abito sacerdotale, come ribadisce anche il Direttorio, è dunque un segno irrinunciabile per chi ha scelto di essere nel mondo sacerdote di Cristo, cioè suo rappresentante sacramentale.
Su questo argomento il Santo Padre Giovanni Paolo II, indirizzando una Sua lettera all’allora Vicario di Roma, il Cardinale Poletti, l’8 settembre 1982, evidenziava chiaramente lo scopo evangelizzatore dell’abito ecclesiastico:
“Inviati da Cristo per l’annuncio del Vangelo, abbiamo un messaggio da trasmettere, che si esprime sia con le parole, sia anche con i segni esterni, soprattutto nel mondo odierno che si mostra così sensibile al linguaggio delle immagini. L’abito, pertanto, giova ai fini dellíevangelizzazione ed induce a riflettere sulle realtà che noi rappresentiamo nel mondo e sul primato dei valori spirituali che noi affermiamo nell’esistenza dell’uomo”.
Quale presbitero che si presenta visibilmente come tale, non ha già fatto l’esperienza di dare testimonianza proprio per il fatto di essere riconosciuto dall’abito che indossa, sul treno o sulla strada, interpellato magari da una persona che non avrebbe altrimenti mai osato di suonare alla porta di una canonica per chiedere di parlare con un sacerdote? Oggi, nel tempo della Nuova Evangelizzazione, il mondo ha bisogno che i sacerdoti ascoltino l’appello del Santo Padre “Duc in altum”, facendosi vedere dagli uomini con l’abito che li contraddistingue come tali, dappertutto, per rispondere così ai loro bisogni spirituali.
Un’altra ragione che spiega la rilevanza dell’abito ecclesiastico è quella che il sacerdote è testimone di Cristo attraverso il suo comportamento evangelico, mediante ciò la sua carità pastorale che attira gli uomini al Signore. Anche se tale dimensione è innanzitutto interiore, bisogna diffidare di trascurare mezzi esteriori che ci aiutano a vivere con fedeltà questo cammino spirituale. Il nostro essere sacerdoti ci fa manifestare agli uomini come “uomini di Dio”; l’abito ecclesiastico ci obbliga, quindi, a comportarci di conseguenza e non già come se non lo fossimo. Pertanto, esso ci invita a sviluppare sempre di più la coerenza tra la nostra consacrazione sacerdotale interiore ed il nostro agire esterno, davanti agli uomini. Il sacerdote si presenta così come un uomo vero, quindi libero.Perciò la fedeltà all’abito ecclesiastico è, se ben capita, fedeltà che rimanda al Vangelo ed è, innanzitutto, per tale ragione che la Chiesa, custode del Vangelo, chiede ai suoi ministri di essere visibilmente riconosciuti come tali in mezzo agli altri uomini.
Auspico di cuore che ogni studio, approfondimento o insegnamento qualificato su questa delicata materia, sia sempre animato dall’autentico spirito cristiano, che non potrà mai non essere anche autenticamente ecclesiale.
Darío Card. Castrillón Hoyos
Prefetto della Conregazione per il clero
Dal Vaticano, 8 dicembre 2003
NOTE
*Premessa di Sua m.za Rev.ma Card Darío Castrillón Hoyos a: MICHELE DE SANTI, L’abito ecclesiatico. Sua valenza e storia, Ravenna: Edizioni Carismatici Francescani, 2004, con un contributo di FRANCO CARDINI.
[
1] Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lettera al Card. Vicario di Roma (8 settembre 1982): “L’osservatore Romano”, 18-19 ottobre 1982.
[
2] Cf. PAOLO VI, Allocuzioni al Clero (17 febbraio 1969; 17 febbraio 1972; 10 febbraio 1978): AAS 61 (1969). 190; 64 (1972), 223; 70 (1978), 191; GIOVANNI PAOLO II, Lettera ai sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1979 Novo incipiente (7 aprile 1979), 7: AAS71, 403 – 405; Allocuzioni al Clero (9 novembre 1978; 19 aprile 1979): Insegnamenti di Giovanni Paolo II, 1 (1978), 116; II (1979), 929.
[
3] C.I.C., Can 284.
[
4] Cf. PAOLO VI, Motu Proprio Ecclesiae Sanctae, 1, 25, 2d: AAS 58 (1966), 770; S. CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Lettera circolare a tutti i Rappresentanti Pontifici Per venire incontro (27 gennaio 1976); S. CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Lettera circolare The document (6 gennaio 1980): “LíOsservatore Romano” suppl., 12 aprile 1980.
[
5] Cfr. PAOLO VI, Catechesi nell’Udienza generale del 17 settembre 1969,Allocuzione al Clero (1 marzo 1973); Insegnamenti di Paolo VI, VII (1969), 1065; XI (1973), 176.


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