A quasi quarant’anni da quell’evento la liturgia continua a essere un tema d’attualità, come mostrano sia il discreto numero di edizioni e di traduzioni raggiunto dall’Introduzione allo spirito della liturgia (2), del card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, sia le discussioni, non sempre pacate, che ne hanno tratto origine.
Nel solco della migliore teologia il testo vuol essere non un’arida speculazione, ma un’"elevazione" sul tema "liturgia", un’autentica introduzione spirituale alla vita liturgica. Il titolo si ricollega — con maggior evidenza nell’originale tedesco, che è Der Geist der Liturgie. Eine Einführung, "Lo spirito della liturgia. Un’introduzione" — a un’opera famosa, Lo spirito della liturgia, di Romano Guardini (1885-1968) (3), che in Germania — e non solo in quell’area culturale — è stata all’origine del movimento liturgico del secolo XX. L’obiettivo è apertamente dichiarato nella Premessa (pp. 5-6): "Se questo libro riuscisse a sua volta a essere di stimolo a qualcosa come un "movimento liturgico", un movimento verso la liturgia e verso una sua corretta celebrazione, esteriore ed interiore, l’intenzione che mi ha spinto a tale lavoro sarebbe pienamente realizzata" (p. 6).
1. Un delicato restauro
L’opera si apre con una metafora. La liturgia è paragonata a un prezioso affresco molto antico, ormai coperto da un intonaco che impediva di goderne la bellezza, ma che ne aveva preservato intatte le forme. Il movimento liturgico e il Concilio Ecumenico Vaticano II eseguono un restauro e portano alla luce l’opera d’arte rimuovendo l’intonaco. "[...] per un momento restammo tutti affascinati dalla bellezza dei suoi colori e delle sue figure" (ibidem). Succede però qualcosa nel frattempo, perché "[...] a causa dei diversi errati tentativi di restauro o di ricostruzione, nonché per il disturbo arrecato dalla massa dei visitatori, questo affresco è stato messo gravemente a rischio e minaccia di andare in rovina, se non si provvede rapidamente a prendere le misure necessarie per porre fine a tali influssi dannosi" (ibidem). Non si tratta, ovviamente, di coprirlo di nuovo d’intonaco, ma "[...] è indispensabile una nuova comprensione del suo messaggio e della sua realtà, così che l’averlo riportato alla luce non rappresenti il primo gradino della sua definitiva rovina" (ibidem). Si può dire che in queste parole è condensata tutta l’opera: la coraggiosa denuncia del grave rischio di distruzione a cui è sottoposto il patrimonio della preghiera ufficiale romana e il programma di rinnovata attenzione e amore alla liturgia che vuole risvegliare. Molto spesso si è tentati, trattando della riforma liturgica seguita al Concilio Ecumenico Vaticano II, di parlare de la liturgia, mentre bisogna conservare la consapevolezza che si tratta di una liturgia, cioè della liturgia romana. Infatti, vi è tutto il patrimonio delle liturgie orientali che non ha mai conosciuto riforme di tali portata e dimensioni. Lo stesso card. Ratzinger dedica all’argomento dei diversi riti liturgici alcune pagine molto opportune. Rimane tuttavia vero, come molti hanno osservato, che la riforma messa in opera dalla Chiesa di Roma ha un significato vessillare, che travalica i confini, peraltro vastissimi, dei fedeli di rito romano. Si può allora tornare a dire — con queste indispensabili precisazioni — che la posta in gioco è la liturgia.
2. L’"essenza" della liturgia
L’opera si divide in quattro parti: Sull’essenza della liturgia (pp. 9-47), Tempo e luogo nella liturgia (pp. 49-107), Arte e liturgia (pp. 109-152), Forma liturgica (pp. 153-220), e si chiude con una Bibliografia (pp. 221-228).
L’essenza della liturgia, cioè l’irrinunciabile domanda: "Che cos’è?". Al di là di ogni critica all’"essenzialismo", questa è la domanda che l’uomo non può rinunciare a porsi, perché questo domandare è inscritto nella sua natura. Certamente con la consapevolezza che la risposta non può mai esser tale da esaurire la domanda, anche se può esser tale da costituire un criterio, facendo discernere quanto stiamo cercando. La liturgia può essere paragonata a un gioco. Come un gioco non "serve a nulla", cioè non ha uno scopo pratico. Per qualche verso è fine a sé stessa: ha a che fare, infatti, con quanto è "ultimo" e, attraverso essa, l’uomo tocca quanto, essendo definitivo, non può essere finalizzato ad altro. D’altra parte, esattamente come un gioco, ha le sue regole, perché un gioco senza regole non è per nulla divertente. Ciò che fa di questa immagine solo un paragone è la differenza: i giochi sono "per gioco", mentre la liturgia è seria, qualcosa di estremamente serio. Il cardinale non si ferma qui, ma protrae ancora la metafora facendo emergere qualcosa di molto interessante: "[...] il gioco dei bambini appare in molti suoi aspetti una sorta di anticipazione della vita, un addestramento a quella che sarà la loro vita successiva, senza però comportare tutto il peso e la serietà di quest’ultima. Allo stesso modo la liturgia potrebbe ricordarci che noi tutti, davanti alla vera vita, cui desideriamo arrivare, restiamo in fondo come dei bambini o, in ogni caso, dovremmo restare tali; la liturgia sarebbe allora una forma completamente diversa di anticipazione, di esercizio preliminare: preludio della vita futura, della vita eterna, di cui Agostino dice che, a differenza della vita attuale, non è intessuta di bisogno e di necessità, ma in tutto e per tutto della libertà del donare e del dare" (p. 10).
Ciò apre la strada a un’altra considerazione, che fonda nello stesso tempo un’insospettabile attualità della liturgia. Lo scrittore francese Georges Bernanos (1888-1948) ha lasciato queste sagge e ancora profetiche parole: "Non si capisce assolutamente niente della civiltà moderna se non si ammette per prima cosa che essa è una congiura universale contro qualsiasi specie di vita interiore" (4). Il mondo contemporaneo ha solo accentuato questa impressione. L’ansia e la fretta crescente che caratterizzano soprattutto la vita economica odierna — ma non si sta tutto riducendo all’"economico"? — sembrano non lasciare più spazio a niente di libero e di disinteressato. Il card. Ratzinger evoca la figura del Faraone, al quale Mosè chiede che il popolo sia lasciato partire nel deserto. Perché? Non immediatamente per essere libero, ma piuttosto "per servire il Signore" (Es. 10, 26), cioè per sacrificare al Signore. Proprio questa richiesta di prestare a Dio il culto di adorazione provoca l’irrigidimento, la persecuzione e, infine, la drammatica sconfitta del tiranno. Il culto a Dio diventa l’espressione e la causa della libertà del popolo. L’esegesi del cardinale si fa ancor più interessante quando si arriva al "vitello d’oro" (Es. 32), immagine classica del culto idolatrico. In realtà, vien fatto notare, l’idolatria non sta tanto nell’aver scelto un altro dio al posto di quello vero, perché il popolo è convinto di prestar culto al Dio dei padri. Il peccato sta nel non aver saputo aspettare il ritorno dalla montagna di Mosè, che doveva insegnare al suo popolo il modo giusto di prestar culto a Dio, il modo che solo Egli stesso può insegnare. "L’uomo non può "farsi" da sé il proprio culto; egli afferra solo il vuoto, se Dio non si mostra. Quando Mosè dice al faraone: "noi non sappiamo con che cosa servire il Signore" (Es 10, 26), nelle sue parole emerge di fatto uno dei principi basilari di tutte le liturgie" (p. 17). Infatti oggi, di fronte al grigiore della gabbia tecnocratica, la fretta che essa stessa imprime induce molti a cedere alla tentazione del "fai da te". È questa proprio una delle caratteristiche più salienti della Nuova Religiosità. Una libertà frutto di una scelta arbitraria del soggetto è una libertà vana, come una fuga verso il nulla. Solo l’oggettività del Vero e del Bene può costituire il punto d’appoggio della libertà autentica. Ma il Vero e il Bene si sono incarnati in Cristo e a partire da lui hanno tracciato una via che si esprime fontalmente nella liturgia, "culmen et fons" della vita della Chiesa (5). Quando un fuggiasco da questo mondo entra in una chiesa, alzando lo sguardo al soffitto può scorgere — è tipico delle chiese barocche — un cielo aperto: questo è, dovrebbe essere, la liturgia.
3. Liturgia "cosmica" Un altro aspetto dell’essenza della liturgia è il suo orientamento insieme cosmico e storico. Qui il card. Ratzinger tocca un punto oggetto di una vasta discussione sul senso stesso del cristianesimo. È una religione che si fonda tutta su un positivo intervento profetico di Dio, di carattere storico, o ha anche un fondamento nella natura delle cose, nella creazione di Dio? Questa impostazione si ricollega a quella — apparentemente così lontana — dell’enciclica Fides et ratio di Papa Giovanni Paolo II sui rapporti fra fede e ragione (6). Dio si rivela non solo nella storia, ma anche, e previamente, nel cosmo. Così il culto da Lui voluto come via d’accesso dell’uomo a quella vita divina che Egli vuole donare, avrà un carattere non solo storico — cioè riferito agli eventi salvifici con cui Dio è entrato nella storia, dal passaggio del Mar Rosso al sacrificio del Golgota —, ma anche cosmico. Il cielo e la terra, i punti cardinali, il sorgere e il tramontare del sole, e così via, parlano di Dio e segnano indelebilmente il modo con cui l’uomo si può e si deve rivolgere a Dio. Il grande quadro in cui il cardinale inserisce il suo discorso sulla liturgia è quello dell’exitus-reditus: da Dio tutto proviene, a Dio tutto ritorna, non per un processo necessario, che vincolerebbe — contradditoriamente — Dio al mondo, ma per un procedimento che ha nel suo nucleo centrale il fatto della libertà. Dio crea esseri liberi, perché solo nella libertà possono partecipare alla sua vita divina, che è vita d’amore. Non si può amare per costrizione. A percorrere questo cammino è Dio stesso in Cristo. I Vangeli, in modo particolare quello di Giovanni, usano spesso immagini dinamiche per descrivere tutta la vicenda della vita terrena di Gesù e soprattutto la sua Pasqua. Già il termine "pasqua" significa etimologicamente passaggio, attraversamento. "Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv. 13, 1). "Dove vado io voi non potete venire" (Gv. 13, 33; 8, 21), è qui indicato chiaramente che il gesto di Gesù, quello del suo sacrificio che nella risurrezione è destinato a vincere la morte, a "sfondare" le barriere dell’inferno, è irraggiungibile per qualsiasi altro che non sia l’uomo-Dio. Gesto che non è però di un "solitario": "Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via" (Gv. 14, 2-4). Ecco allora che il senso della liturgia diventa chiaro: vuol dire rendere presente in tutta la storia degli uomini l’evento fondante, cioè la Pasqua del Signore, perché tutti vi possano, se lo vogliono, partecipare. Molti elementi, a prima vista poco comprensibili, diventano in quest’ottica evidenti: la necessità dei riti e dei simboli, perché solo essi permettono di partecipare a un evento divenuto ormai eterno e trascendente. La necessità del mistero, perché "Cristo [...], venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna" (Eb. 9, 11-12; 10, 10-12). La liturgia si situa strutturalmente in mezzo, sulla soglia: fra la terra e il cielo, fra un santuario fatto di pietre o di mattoni e il santuario celeste, appartenente a una nuova creazione. La necessità di regole non fatte dall’uomo, o che — se pure sono materialmente tali — si concepiscono sempre come espressione o interpretazione di norme immutabili, che sono la via, non costruita da mani d’uomo, per compiere la volontà di Dio e ritornare a Dio. Il fatto che le leggi liturgiche o sono il risultato di una prassi immemoriale oppure sono promulgate o riconosciute dall’autorità suprema, esprime questa necessità ed è esso stesso un segno liturgico. Inoltre, il fatto che nella liturgia cosmo e storia s’intreccino, anzi esprimano un’unità profonda, è in stretta connessione con un tema teologico che si trova in stretta sintonia con il movimento liturgico, quello dell’assoluto primato di Cristo, non solo nell’ordine della redenzione, ma già anche nell’ordine della creazione. È quello stesso tema che — a livello sociale — si esprime come regalità di Cristo. Il cosmo, e l’uomo in particolare come micro-cosmo, sono stati creati in Cristo, cioè il Verbo — e il Verbo incarnato — è stato il progetto e il modello che ha presieduto alla creazione dell’uomo e del mondo per l’uomo. "Per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui" (Col. 1, 16-17; cfr. Ef. 1, 3-14) (7). 4. I "santi segni" L’ultima parte dell’opera riecheggia I santi segni di Guardini ed è come una manuductio alla comprensione dei fondamentali gesti e simboli liturgici: il segno della croce, l’inginocchiarsi, lo stare in piedi o il sedersi, gli abiti e le suppellettili. Tutto questo è espressione di un determinato modo di atteggiarsi, che non è arbitrario, ma fissato e, per così dire, stilizzato. È il "rito". La mentalità illuministica e l’intellettualismo che essa veicola tende a relegare il rito nell’ambito dell’accessorio, del superfluo, del "superstizioso". Ciò che conta è il comportamento, la morale. Immanuel Kant (1724-1804) ha criticato la religiosità che si esprime nella ritualità, riducendola invece all’essenziale, cioè all’etica. In pochi passaggi il card. Ratzinger fa magistralmente notare come la posta in gioco sia alta: il problema del rito non si riduce solo a un aspetto schiettamente antropologico che lo rende in qualche modo necessario. Oggi proprio le scienze umane attirano l’attenzione sull’irrinunciabilità del rito per l’uomo. Invece anche qui il nocciolo della questione è soprattutto teologico: "[...] l’uomo cerca sempre il modo giusto di onorare Dio, una forma di preghiera e di culto comune che piaccia a Dio stesso e sia conforme alla sua natura. In questo contesto si può ricordare che la parola "ortodossia" all’origine non significava, come oggi quasi sempre si intende, "retta dottrina". Da una parte, infatti, la parola "doxa" in greco significa "opinione", "apparenza"; d’altra parte, nel linguaggio cristiano, essa significa qualcosa come "vera apparenza", vale a dire: "gloria di Dio". Ortodossia significa quindi il modo giusto di onorare Dio e la retta forma di adorazione. In questo senso l’ortodossia è per sua stessa definizione anche "ortoprassi"; il contrasto moderno tra i due termini, nella loro origine si risolve da se stesso. Il punto non sono delle teorie su Dio, ma la vera strada per incontrarLo. Grande dono della fede cristiana fu quello di apprendere ora qual è il vero culto, in che modo si onora davvero Dio — nella partecipazione orante e nella condivisione del cammino pasquale di Gesù Cristo, nel prendere pienamente parte alla sua "Eucharistia", in cui l’Incarnazione conduce alla Resurrezione — sulla via della croce. Si potrebbe dire, parafrasando un’espressione di Kant: la liturgia riferisce tutto dall’Incarnazione alla Resurrezione, ma sulla via della croce. Il "rito" è dunque per i cristiani la forma concreta, che supera i tempi e gli spazi, in cui si è comunitariamente configurato il modello fondamentale dell’adorazione che ci è stato donato dalla fede; a sua volta, questa adorazione [...] coinvolge sempre l’intera prassi della vita. Il rito ha, dunque, il suo luogo primario nella liturgia, ma non solo in essa. Esso si esprime anche in un modo determinato di fare teologia, nella forma della vita spirituale e negli ordinamenti giuridici della vita ecclesiale" (pp. 155-156). In definitiva, l’ostilità nei confronti del rito denuncia un atteggiamento "pelagiano", cioè l’illusione di far da soli, senza porre il dono di Dio, la grazia, a fondamento del proprio essere e del proprio agire. 5. Una polemica L’opera ha subìto sulle pagine della rivista Vita Pastorale, a firma del liturgista padre Rinaldo Falsini O.F.M., una stroncatura radicale (8). Credo valga la pena dedicare un po’ d’attenzione a questa polemica "domestica", sia perché riflette in modo esemplare le discussioni che il saggio ha suscitato un po’ dappertutto nella Chiesa, sia per l’indubbia influenza che Vita Pastorale esercita, soprattutto attraverso il clero a cui si rivolge direttamente, sull’insieme della vita ecclesiale italiana. La critica di padre Falsini si può così riassumere: l’opera del card. Ratzinger è un’ottima meditazione teologica sulla liturgia, ma è pericolosissima nel momento in cui avanza proposte concrete, che sono l’espressione di "pregiudizio anticonciliare" (9) e rischiano di minare la fiducia dei fedeli nella bontà e nella positività della riforma liturgica. Inoltre, le proposte di reintrodurre nella liturgia l’orientamento della celebrazione verso il sole che sorge, di porre il crocifisso sull’altare e di recitare la preghiera eucaristica a voce bassa, sarebbero — secondo padre Falsini — prive di un fondamento storico serio e pastoralmente inaccettabili. La polemica aiuta a evidenziare meglio le finalità precise dell’intervento del cardinale. Come ho già fatto notare, ci troviamo davanti a un testo suscettibile di dare l’avvio a un’ampia riflessione sul valore e sul significato della liturgia, qualcosa che si potrebbe anche chiamare un nuovo movimento liturgico, teso immediatamente non all’introduzione di cambiamenti nella prassi liturgica, quanto piuttosto a una visione più profonda, di carattere teologico, spirituale e pastorale della liturgia e del suo ruolo nell’esistenza cristiana. Il card. Ratzinger non è nuovo a questo argomento, perché alla teologia della liturgia ha già dedicato altre due opere, La festa della fede. Saggi di Teologia liturgica (10), e Cantate al Signore un canto nuovo (11). La teologia liturgica, come egli la concepisce, non si limita a giustapporsi alla liturgia, ma mantiene con essa un collegamento vitale, guarda volentieri alla concreta prassi liturgica e non disdegna dall’avanzare critiche e proposte. Il rischio è quello di recepire solo questi aspetti più appariscenti, tralasciando il contesto teologico da cui procedono e in cui s’inseriscono. Il rischio è soprattutto quello di non cogliere la proposta di fondo: una rinnovata meditazione sulla realtà della liturgia per una rinnovata vita liturgica. Tutto nella polemica sembra ruotare attorno all’altare rivolto a Oriente e alla preghiera eucaristica recitata sottovoce dal sacerdote. L’enfatizzazione della celebrazione versus populum, che è diventata quasi il simbolo della riforma liturgica o addirittura di tutto l’aggiornamento conciliare, è sottoposta dal cardinale a critica serrata. Dopo aver rilevato che i dati sicuri della storia liturgica attestano che la direzione verso oriente della preghiera cristiana è un fatto pressoché unanimemente attestato in Oriente e anche in Occidente, si pone la domanda se questa importante indicazione della storia non possa e non debba ancor oggi giocare un ruolo significativo: "La forma originaria della preghiera cristiana può dirci ancora oggi qualcosa o dobbiamo semplicemente cercare la nostra forma, la forma per il nostro tempo? Ovviamente non vi è solo il desiderio di imitare il passato. Ogni età deve ritrovare ed esprimere l’essenziale. Quel che importa è, quindi, continuare a scoprire quello che è essenziale attraverso i cambiamenti epocali. Sarebbe certamente errato rifiutare in blocco le nuove forme del nostro secolo. Era giusto avvicinare al popolo l’altare spesso troppo lontano dai fedeli [...]. Era anche importante tornare a distinguere con chiarezza il luogo della liturgia della parola rispetto alla liturgia eucaristica vera e propria, dal momento che qui si tratta effettivamente di un discorso e di una risposta e, quindi, ha anche senso che stiano l’uno di fronte all’altro colui che annuncia e coloro che ascoltano, i quali rielaborano nel salmo ciò che hanno ascoltato, lo riprendono interiormente e lo trasformano in preghiera, così che diventi risposta. Resta, invece, essenziale il comune orientamento verso est durante la preghiera eucaristica. Qui non si tratta di qualcosa di casuale, ma dell’essenziale. Non è importante lo sguardo rivolto al sacerdote, ma l’adorazione comune, l’andare incontro a Colui che viene. Non il cerchio chiuso in se stesso esprime l’essenza dell’evento, ma la partenza comune, che si esprime nell’orientamento comune" (pp. 76-77).continua en: http://www.alleanzacattolica.org/indici/articoli/cantonip309.htm |