segunda-feira, 14 de março de 2011

Il cardinale Suenens esclamava: «Il Vaticano II è l'89 della Chiesa» ed aggiungeva: «Il Concilio Vaticano Il ha segnato la fine di un'epoca; e per poco che si vada ancora indietro, ha segnato anche la fine d'una serie di epoche, la fine di un'era» cioè il meraviglioso edificio gerarchico che ha alla sommità il Papa, vicario di Gesù in terra


Marcel Lefebvre: "IL VATICANO II È IL 1789 NELLA CHIESA"...



IL VATICANO II È IL 1789 NELLA CHIESA

L'accostamento che ho fatto tra la crisi della Chiesa e la Rivoluzione francese non è una semplice metafora. Siamo veramente in raccordo continuo coi filosofi del XVIII secolo e con lo sconvolgimento portato dalle loro idee nel mondo. Coloro che hanno iniettato alla Chiesa questo veleno lo riconoscono per primi. Il cardinale Suenens esclamava: «Il Vaticano II è l'89 della Chiesa» ed aggiungeva, fra le altre sue dichiarazioni prive di precauzioni oratorie: «Non si comprende nulla della rivoluzione francese o russa se si ignora l'antico regime al quale hanno messo fine... Allo stesso modo, in materia ecclesiastica, una reazione non si può giudicare se non in rapporto allo stato di cose vigente in precedenza». Quello che precedeva ed egli considerava andasse abolito, è il meraviglioso edificio gerarchico che ha alla sommità il Papa, vicario di Gesù in terra: «Il Concilio Vaticano Il ha segnato la fine di un'epoca; e per poco che si vada ancora indietro, ha segnato anche la fine d'una serie di epoche, la fine di un'era»:
Il padre Congar, uno degli artigiani delle riforme, non parlava diversamente: «La Chiesa ha fatto, pacificamente, la sua rivoluzione d'ottobre». Pienamente consapevole notava: «La dichiarazione sulla libertà religiosa dice materialmente il contrario del Sillabo». Potrei citare una quantità di testimonianze del genere. Nel 1976 il padre Gélineau, uno dei capofila del Centro Nazionale per la pastorale liturgica, non lasciava alcuna illusione a coloro che volevano vedere nel Novus Ordo qualcosa di effettivamente un po' diverso dal rito universalmente celebrato fino ad allora, ma nulla di fondamentalmente traumatico: «La riforma decisa dal secondo Concilio del Vaticano ha dato il segnale del disgelo. Intere muraglie crollano... Non ci si inganni: in proposito tradurre non significa dire le stesse cose con altre parole. Vuol dire cambiare la forma... Se le forme cambiano, il rito cambia. Se un elemento viene cambiato, l'insieme risulta modificato... Occorre dirlo senza ambagi: il rito romano come noi l'abbiamo conosciuto non esiste più, è distrutto» (1).
I cattolici liberali hanno veramente instaurato uno stato rivoluzionario. Ecco cosa leggiamo in un libro d'uno di loro, il senatore del Doubs, M. Prelot: «Abbiamo combattuto sull'arco d'un secolo e mezzo per far prevalere le nostre opinioni all'interno della Chiesa e non ci siamo riusciti. Infine è venuto il Vaticano Il e abbiamo trionfato. Oramai le tesi e i principi del cattolicesimo liberale sono definitivamente e ufficialmente accettati dalla Santa Chiesa» (2).
È per la via traversa di questo cattolicesimo liberale che si è introdotta la Rivoluzione; col pretesto del pacifismo, della fraternità universale. Gli errori e le falsità principali dell'uomo moderno sono entrati nella Chiesa e hanno contaminato il clero, grazie a papi essi pure liberali, e con il favore del Vaticano II.
Siccome viene un momento in cui occorre saper rimettere le cose a posto, ricorderò che io non ero contrario al raduno d'un concilio ecumenico nel 1962 ma l'ho accolto con una grande speranza. A testimoniarlo, oggi, esiste una lettera che indirizzai nel 1963 ai padri di Saint-Esprit e che è stata pubblicata in una mia opera precedente (3). Scrivevo: «Diciamo, senza esitazione, che alcune riforme liturgiche sono necessarie e che è auspicabile che il Concilio continui su questa via». Riconosco che un rinnovamento s'imponeva, proprio per mettere fine a una certa sclerosi derivante dal fossato creatosi fra la preghiera, confinata entro i luoghi di culto, e l'azione, la scuola, la professione, la città.
Nominato dal Papa membro della commissione centrale preparatoria, ho partecipato ai lavori con assiduità ed entusiasmo per l'intera sua durata di due anni. La commissione centrale era incaricata di verificare e di esaminare tutti gli schemi preparatori che provenivano dalle commissioni specializzate. Avevo quindi un buon posto per sapere ciò che era stato fatto, ciò che doveva essere esaminato e ciò che doveva essere presentato all'assemblea. Questo lavoro veniva svolto con molta coscienza e precisione. Ho ancora i settantadue schemi preparatori nei quali la dottrina della Chiesa è perfettamente ortodossa e risultava sì adattata in certo modo alla nostra epoca, ma con molta misura e saggezza.
Tutto era pronto per la data annunziata e l'11 ottobre 1962 i padri prendevano posto nella navata della basilica di S. Pietro a Roma. Ma successe un fatto che non era stato previsto dalla Santa Sede: il Concilio, fin dai primi giorni, fu investito dalle forze progressiste. Noi l'abbiamo provato, sentito, e quando dico «noi» intendo la maggioranza dei padri del Concilio presenti in quel momento.
Abbiamo avuto l'impressione che stesse accadendo qualcosa di anormale, e questa impressione ebbe rapida conferma: quindici giorni dopo la seduta di apertura non sopravviveva più neppure uno dei settantadue schemi. Tutto era stato rinviato, respinto, cestinato.
L'operazione andò così. Nel regolamento del Concilio era previsto che occorressero i due terzi dei voti per respingere uno schema preparatorio. Ora, quando si procedette al voto, si ebbe il sessanta per cento contro gli schemi e il quaranta a favore. Di conseguenza gli oppositori non avevano ottenuto i due terzi, per cui normalmente il Concilio avrebbe dovuto svolgersi partendo dai lavori preparatori. Sennonché, allora si mise in luce una potente organizzazione creata dai cardinali delle rive del Reno , con un segretariato perfettamente efficiente. Andarono da papa Giovanni XXIII e gli dissero: «È inammissibile, Santissimo Padre, che ci vogliano far studiare degli schemi che non hanno avuto la maggioranza». Ed ebbero causa vinta: l'immenso lavoro compiuto fu messo nel dimenticatoio, l'assemblea si ritrovò a mani vuote, senza nessuna preparazione. Quale presidente di consiglio d'amministrazione, per piccola che sia la sua società, accetterebbe di affrontare una seduta senza ordine del giorno, senza documenti base? Eppure il Concilio è iniziato così.
Poi ci fu la questione delle commissioni conciliari da nominare. Problema arduo: immaginatevi dei vescovi che giungevano da tutti i paesi del mondo e si ritrovavano improvvisamente insieme nell'aula. Per la maggior parte non si conoscevano, conoscevano appena tre o quattro colleghi e qualcun altro di fama su 2.400 presenti. Come potevano sapere quali fossero i padri più adatti a far parte della commissione del sacerdozio, della liturgia, del diritto canonico, ecc.?
Con procedura perfettamente legittima il cardinale Ottaviani fece passare a tutti la lista dei membri delle commissioni preconciliari, delle persone quindi che erano state scelte dalla Santa Sede e che già avevano lavorato sugli argomenti da dibattere. Questo avrebbe potuto agevolare la scelta, senza per altro imporre alcun obbligo; ed era certamente auspicabile che qualcuna di queste persone esperte figurasse nelle commissioni. Ma allora si levò una voce. Non ho bisogno nemmeno di ricordare il nome del Principe della Chiesa che si è alzato e ha tenuto il seguente discorso: «È una pressione intollerabile esercitata sul concilio fare dei nomi. Bisogna lasciare la libertà ai padri conciliari. Ancora una volta la Curia romana cerca di piazzare i suoi membri». Con i padri un po' spaventati da questo brutale intervento, la seduta è stata tolta, e il pomeriggio il segretario, mons. Felici annunziò: «Il Santo Padre riconosce che forse è preferibile si riuniscano le conferenze episcopali e presentino delle liste».
Le conferenze episcopali erano a quell'epoca ancora in embrione; bene o male però compilarono le liste richieste, senza d'altronde aver nemmeno potuto riunirsi come avrebbero dovuto, perché avevano a disposizione soltanto ventiquattro ore. Coloro però che avevano ordito questo piccolo colpo di stato ne avevano di già pronte, con nominativi ben scelti da diversi paesi. Poterono battere sul tempo le conferenze e ottennero di fatto una forte maggioranza. Il risultato fu che le commissioni vennero formate da membri appartenenti per i due terzi alla fazione progressista, mentre il restante terzo fu nominato dal papa.
Uscirono ben presto nuovi schemi con un orientamento del tutto differente dai primi. Avrei piacere di pubblicare un giorno gli uni e gli altri, perché si possa paragonarli e constatare quale fosse la dottrina della fede il giorno precedente il Concilio. Chi ha qualche esperienza di assemblee civili o religiose, capirà in quale situazione si erano venuti a trovare i padri. Dei nuovi schemi si poteva cambiare qualche frase, qualche proposizione a colpi di emendamento; ma non si poteva cambiare l'essenziale. Le conseguenze sarebbero state pesanti. Non si corregge mai interamente un testo contorto fin dall'origine; esso mantie ne l'impronta del suo autore e del pensiero che lo ispira.
Il Concilio, da quel momento, aveva preso un orientamento pilotato.
Un terzo elemento contribuì a indirizzarlo in senso liberale. Al posto dei dieci presidenti del concilio nominati da Giovanni XXIII, il papa Paolo VI istituì per le due ultime sessioni quattro moderatori, dei quali il meno che si possa dire è che non furono scelti fra ì cardinali più misurati. La loro influenza fu determinante sulla massa dei padri conciliari.
I liberali formavano una minoranza, ma una minoranza agitata, organizzata, appoggiata da una pleiade di teologi modernisti fra i quali si contavano tutti i nomi che non hanno smesso di fare il bello e il brutto tempo: come Ledere, Murphy, Congar, Rahner, Kùng, Schillebeeckx, Besret, Dardonnel, Chenu... Si pensi alla produzione enorme di stampati dell'IDOC, il centro di informazioni olandese sovvenzionato dalle conferenze episcopali tedesca e olandese, che faceva pressione continuamente sui padri perché agissero nel senso desiderato dall'opinione internazionale, creando così una specie di psicosi: non bisognava deludere l'attesa del mondo che sperava di veder la Chiesa adeguarsi alle sue vedute. Gli istigatori di questo movimento ebbero buon gioco ne! chiedere con insistenza l'adattamento della Chiesa all'uomo moderno, all'uomo che vuole liberarsi di tutto. Presentavano una Chiesa sclerotizzata, indisponibile, impotente, battendo le loro colpe sul petto dei predecessori. I cattolici venivano additati come colpevoli, ai par dei protestanti e degli ortodossi delle divisioni passate: dovevano chiedere perdono ai «fratelli separati» presenti a Roma, dove erano stati invitati in gran numero per partecipare ai lavori. La Chiesa della Tradizione era colpevole per le sue ricchezze, per il suo trionfalismo. I padri del concilio si sentivano colpevoli di essere fuori del mondo, di non essere del mondo; arrossivano già delle loro insegne episcopali, presto avrebbero arrossito di presentarsi con la tonaca.
Questa atmosfera di liberazione doveva diffondersi presto in tutti i campi. Lo spirito collegiale sarebbe stato il mantello di Noè che si getta sulla vergogna di esercitare un'autorità personale così contraria alla mentalità dell'uomo del XX secolo, o meglio, dell'uomo liberale! La libertà religiosa, l'ecumenismo, la ricerca teologica, la revisione del diritto canonico avrebbero attenuato il trionfalismo di una Chiesa che si proclamava la sola arca di salvezza. Come si dice che esistono dei «poveri vergognosi», si ebbero dei «vescovi vergognosi», che si potevano influenzare suscitando in loro una cattiva coscienza. È un procedimento che è stato impiegato in tutte le rivoluzioni.
Gli effetti si trovano documentati in molti passi degli atti del Concilio. Rileggiamo a tale proposito l'inizio dello schema «La Chiesa nel mondo contemporaneo», sull'evoluzione del mondo moderno, sul moto accelerato della storia, sui nuovi condizionamenti che affliggono la vita religiosa, sul predominio delle scienze e delle tecniche. Come non vedere in tali testi l'espressione del più puro liberalismo?
Avremmo potuto avere uno splendido concilio, prendendo in materia come guida Pio XII. Non penso ci sia stato un problema del mondo moderno, dell'attualità, che egli non abbia affrontato con tutta la sua scienza; tutta la sua teologia e tutta la sua santità. Vi ha dato una soluzione quasi definitiva, avendo inquadrato veramente le cose sotto l'angolatura della fede. Ma ora non si poteva guardarle in questo modo, dal momento che si rifiutava di fare un concilio dogmatico. Il Vaticano II è un concilio pastorale: l'ha deto Giovanni XXIII e Paolo VI l'ha ripetuto. Durante le sedute, abbiamo voluto più volte far definire dei princìpi, e ci hanno risposto: «Ma qui noi non facciamo dogmatica, non facciamo filosofia, facciamo della pastorale». Cos'è la libertà? Cos'è la dignità umana? Cos'è la collegialità? Si è ridotti ad analizzare indefinitamente i testi per sapere cosa s'intenda significare con queste parole, e non si giunge ad altro che ad approssimazioni, perché i termini sono ambigui. E non per negligenza o per caso. Il padre Schillebeeckx l'ha confessato: «Abbiamo usato dei termini equivoci in concilio, e sappiamo cosa poi ne ricaveremo». Costoro sapevano quel che facevano.
Tutti gli altri concili tenutisi nel corso dei secoli erano dogmatici. Tutti hanno combattuto degli errori. Dio sa se nel nostro tempo non ci siano errori da combattere! Un concilio dogmatico sarebbe stato quanto mai necessario. Ricordo che il cardinale Wyszinsky ci diceva: «Ma fate uno schema sul comunismo: se c'è oggi un errore grave e che minaccia il mondo è proprio questo. Se il papa Pio XI ha ritenuto di dover fare una enciclica sul comunismo, sarebbe altrettanto utile che noi, qui riuniti in assemblea plenaria, dedicassimo uno schema a questo argomento».
Il comunismo, l'errore più mostruoso mai uscito dallo spirito di Satana, ha ingresso ufficiale in Vaticano; la sua rivoluzione mondiale è estremamente facilitata dalla non resistenza ufficiale della Chiesa e altresì dai numerosi appoggi che vi trova, nonostante i disperati avvertimenti dei cardinali che hanno subito la galera nei paesi dell'Est. Il rifiuto di questo concilio pastorale di condannarlo solennemente basta da solo a coprirlo di vergogna davanti alla storia, quando si pensi alle decine di milioni di martiri, ai cristiani e ai dissidenti spersonalizzati scientificamente negli ospedali psichiatrici, utilizzati come cavie da esperimenti. E il concilio pastorale ha taciuto . Avevamo ottenuto ben quattrocentocinquanta voti dai vescovi in favore di una dichiarazione contro il comunismo. Sono stati dimenticati nel cassetto... Quando il relatore della Gaudium et Spes ha risposto alle nostre domande, ci ha detto: «Vi sono state due petizioni per chiedere una condanna del comunismo». - Due?, abbiamo esclamato: sono state più di quattrocento! - «Toh, io non ne sono al corrente». Fatte le ricerche, vennero ritrovate; ma troppo tardi.
Questi episodi io li ho vissuti. Proprio io avevo portato le firme a Mons. Felici, segretario del concilio, insieme a Mons. de Proenca Sigaud, arcivescovo di Diamantina . E debbo dire che sono accaduti dei fatti, per dirla schiettamente, inammissibili. Non faccio per condannare il concilio , ma non ignoro che qui s'annida una forte componente della perplessità di molti cattolici. Perché infine, essi pensano, il concilio è nonostante tutto ispirato dallo Spirito Santo!
Non necessariamente. Un concilio pastorale, non dogmatico, è una predicazione che di per sé non impegna l'infallibilità. Quando noi abbiamo chiesto a Mons. Felici, alla fine delle sessioni: «Non potrebbe lei darci, come dicono i teologi, la nota del concilio?», rispose: «Bisogna distinguere, in base agli schemi e ai capitoli, quelli che già nel passato sono stati oggetto di definizioni dogmatiche; quanto alle dichiarazioni che hanno carattere di novità, bisogna fare delle riserve».
Dunque il Vaticano II non è un concilio come gli altri, ed è per questo che abbiamo il diritto di giudicarlo, seppure con prudenza e riserva. Di questo concilio e delle relative riforme, io accetto tutto ciò che è in piena concordanza con la Tradizione. L'opera da me fondata lo prova ampiamente. I nostri seminari, in particolare, rispondono perfettamente ai desideri espressi dal Concilio e alla Ratio fundamentalis della Sacra Congregazione per l'insegnamento cattolico. Ma è impossibile andare blaterando che solamente le applicazioni post-conciliari sono cattive. Le ribellioni del clero, la contestazione dell'autorità pontificia, tutte le stravaganze della liturgia e della nuova teologia, la desertificazione delle chiese, non avrebbero dunque nulla a vedere, come si è affermato anche recentemente, con il Concilio? Ma andiamo! Ne sono invece i frutti.
Capisco, lettori inquieti, che dicendo questo non faccio che aumentare la vostra perplessità. Eppure anche in questa baraonda è brillata una luce capace di vanificare gli sforzi del mondo, per annientare la Chiesa di Cristo: il Santo Padre ha proclamato il 30 giugno 1968 la sua professione di fede. È un atto che, dal punto di vista dogmatico, è più importante di tutto il Concilio. Questo Credo, stilato dal successore di Pietro per affermare la fede di Pietro, ha rivestito una solennità assolutamente straordinaria. Quando si è alzato per pronunciarlo, anche i cardinali si sono alzati e tutta la folla ha voluto imitarli, ma egli ha fatto sedere tutti; voleva essere solo, come Vicario di Cristo, a proclamare il suo Credo e l'ha fatto con le parole più solenni, in nome della Santissima Trinità, davanti ai Santi Angeli, davanti a tutta la Chiesa. Di conseguenza ha compiuto un atto che impegna la fede della Chiesa.
Abbiamo quindi questa consolazione e questa fiducia di sentire che lo Spirito Santo non ci ha abbandonati. Si può dire che l'arca della fede, dopo aver preso un punto d'appoggio sul Concilio Vaticano I, ne ritrova un secondo sulla professione di fede di Paolo VI.
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