domingo, 13 de março de 2011

Methods of Hearing Mass . Mensagem do Cardeal Piacenza aos sacerdotes na Quaresma 2011. "La Messa di sempre " di Cristina Siccardi ( 3 articoli ).

Methods of Hearing Mass



Mensagem do Cardeal Piacenza aos sacerdotes na Quaresma 2011.

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Caríssimos Irmãos,
O tempo de graça, que nos é dado a viver em conjunto, chama-nos a uma conversão renovada, da mesma forma como sempre é novo o Dom do Sacerdócio ministerial, através do qual o Senhor Jesus torna-se presente nas nossas existências e, através delas, na vida de todos os homens. Conversão, para nós, Sacerdotes, significa, antes de tudo, adequar sempre mais a nossa vida à pregação, que cotidianamente nos é dado oferecer aos fiéis, tornando-nos, desse modo, “trechos do Evangelho vivente”, que todos podem ler e acolher.
Fundamento de uma tal atitude é, sem dúvida, a conversão à própria identidade: devemos converter-nos àquilo que somos! A identidade, recebida sacramentalmente e acolhida pela nossa humanidade ferida, demanda a progressiva conformação do nosso coração, da nossa mente, das nossas atitudes, de tudo quanto nós somos à imagem de Cristo Bom pastor, que, em nós, foi sacramentalmente impressa.
Devemos entrar nos Mistérios que celebramos, especialmente na Santíssima Eucaristia, e deixarmo-nos plasmar por eles; é na Eucaristia que o Sacerdote redescobre a própria identidade! É na celebração dos Divinos Mistérios que se pode perceber o “como” ser pastores e o “que” seja necessário fazer para sê-lo verdadeiramente ao serviço dos irmãos.
Um mundo descristianizado requer uma nova evangelização, mas uma nova evangelização reclama Sacerdotes “novos”, não certamente no sentido do impulso superficial de toda a efêmera moda passageira, mas naquele de um coração profundamente renovado por cada Santa Missa; renovado segundo a medida da caridade do Sacratíssimo Coração de Jesus, Sacerdote e Bom Pastor. Particularmente urgente é a conversão do rumor ao silêncio, do preocupar-nos com o “fazer” para o “estar” com Jesus, participando sempre mais conscientemente do Seu ser. Cada agir pastoral deve ser sempre eco e dilatação daquilo que o Sacerdote é!
Devemos converter-nos à comunhão, redescobrindo o que ela realmente é: comunhão com Deus e com a Igreja, e, nessa, com os irmãos. A comunhão eclesial caracteriza-se fundamentalmente pela consciência renovada e vivida de viver e anunciar a mesma Doutrina, a mesma tradição, a mesma história de santidade e, por isso, a mesma Igreja. Somos chamados a viver a Quaresma com profundo sentido eclesial, redescobrindo a beleza de estar em um êxodo do povo, que inclui toda a Ordem Sacerdotal e todo o nosso povo, que aos seus Pastores olha como a um modelo de segura referência e, desses, espera renovado e luminoso testemunho.
Devemos converter-nos à participação cotidiana no Sacrifício de Cristo sobre a Cruz. Como Ele disse e realizou perfeitamente aquela substituição vicária, que tornou possível e eficaz a nossa Salvação, assim cada sacerdote, alter Christus, é chamado, como os grandes santos, a viver em primeira pessoa o mistério de tal substituição, ao serviço dos irmãos, sobretudo na fiel celebração do Sacramento da Reconciliação, procurado para si mesmos e generosamente oferecido aos irmãos, em união à direção espiritual, e na cotidiana oferta da própria vida em reparação dos pecados do mundo. Sacerdotes serenamente penitentes diante do Santíssimo Sacramento, capazes de levar a luz da sabedoria evangélica e eclesial nas circunstâncias contemporâneas, que parecem desafiar a nossa fé, tornando-se na realidade autênticos profetas, capazes, por sua vez, de lançar ao mundo o único desafio autêntico: aquele do Evangelho, que chama à conversão.
Às vezes, o cansaço é muito grande e fazemos e experiência de sermos poucos, frente às necessidades da Igreja. Mas, se não nos convertemos, seremos sempre menos, porque somente um sacerdote renovado, convertido, “novo” torna-se instrumento através do qual o Espírito chama a novos sacerdotes.
À Beata Virgem Maria, Rainha dos Apóstolos, confiamos esse caminho quaresmal, implorando da Divina Misericórdia que, a partir do modelo da Mãe celeste, também o nosso coração sacerdotal torne-se “Refugium peccatorum”.

Cardeal Mauro Piacenza
 

"La Messa di sempre " di Cristina Siccardi ( 3 articoli )



Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI - Parte I

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di Cristina Siccardi

Una volta placate le più accese polemiche, che hanno preceduto ed immediatamente seguito la pubblicazione della Lettera Apostolica, motu proprio data, Summorum Pontificum di Benedetto XVI, possiamo tornare a ragionare di liturgia e valutare la grandissima portata che tale atto giuridico riveste in tutta la vita della Chiesa e come esso si inscriva nella concezione della Chiesa di questo Papa, costituendone, anzi, una pietra miliare.
Da sempre la Chiesa ha considerato la Liturgia, detta Lex orandi, vale a dire Legge del pregare, come inscindibile dalla Fede, detta Lex credendi, cioè Legge del credere, tanto da ritenere la prima come specchio della seconda e sua propagatrice nel cuore dei cristiani. Non è, quindi, possibile alterare la Liturgia, senza alterare il contenuto della Fede, che essa rappresenta ed insegna. Ma, allo stesso tempo, la Liturgia, otre ad essere espressione dell’offrire «alla Divina Maestà un culto degno» (Motu proprio Summorum Pontificum), è, come abbiamo detto, educazione del cuore dei fedeli e, dunque, deve essere da loro percepita come strumento atto ad elevare la loro anima a Dio. Risulta, per conseguenza, ovvio che anche la sclerotizzazioni della Liturgia in formule immutabili sia, di fatto, una indebita e, per di più, incontrollata variazione della Lex credendi, poiché le parole che avevano un significato in una data epoca, con il trascorrere del tempo, ne vengono ad assumere un altro, tendono a perdere ricchezza e coloriture o, al contrario, ad assumere accezioni nuove. Ecco che la Chiesa, tenendo sempre presente l’effetto che la Liturgia ha sul fedele, effetto non solo razionale, ma anche spirituale, emotivo e psicologico, ha sempre aggiornato, ma mai stravolto, questa che è il mezzo principe della catechesi.
È per questo motivo che gli aggiornamenti apportati alla Liturgia sono sempre stati molto prudenti e, per quanto possibile, hanno sempre mantenuto in vita le precedenti versioni, salvo, ovviamente, intervenire quando fosse stata violata o, anche solo, messa in dubbio l’ortodossia della Fede. Esempio emblematico è il Messale di San PioV (1570), che rendeva ufficiale per tutto l’Orbe cattolico l’allora Messale romano, ma permetteva l’uso di tutti i Messali che avessero un’antichità dimostrata di almeno duecento anni; e ciò in ossequio al principio che, in quanto tale antichità assicurava la mancanza in essi di infiltrazioni ereticali (pre-protestanti e protestanti), non era opportuno proibire l’uso di una Liturgia che, pienamente corretta sul piano della Fede, ancora rappresentava un efficace mezzo di elevazione per molte persone. Tanto come dire che l’unità della Fede e la comunione dei credenti era assicurata più dalla comunione dei riti che dall’imposizione di un rito uguale per tutti.
Unico caso, nella bimillenaria storia della Chiesa, in cui le regolamentazioni della Liturgia precedente furono così stringenti da far pensare ad una vera e propria proibizione, fu la riforma del 1970. L’impressione generale fu di una rottura con il passato, quasi di una rivoluzione; idea questa sostenuta da tutta una chiassosa minoranza, che, oltre tutto, invece di applicare la riforma stessa ne prendeva spunto per “ardite”, quando non blasfeme, sperimentazioni liturgiche. I sentimenti di Joseh Ratzinger, allora neo professore ordinario di Dogmatica e storia dei dogmi all'Università di Ratisbona furono, come racconta egli stesso, di profondo disagio. «Il secondo grande evento all'inizio dei miei anni di Ratisbona fu la pubblicazione del messale di Paolo VI, con il divieto quasi completo del messale precedente, dopo una fase di transizione di circa sei mesi. Il fatto che, dopo un periodo di sperimentazioni che spesso avevano profondamente sfigurato la liturgia, si tornasse ad avere un testo liturgico vincolante, era da salutare come qualcosa di sicuramente positivo. Ma rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l'impressione che questo fosse del tutto normale. Il messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito al concilio di Trento; era quindi normale che, dopo quattrocento anni e un nuovo Concilio, un nuovo papa pubblicasse un nuovo messale. Ma la verità storica è un'altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli. Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui, pero, la continuità non veniva mai distrutta. Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. C'è solo la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica. Il nuovo, dopo il concilio di Trento, fu di altra natura: l'irruzione della riforma protestante aveva avuto luogo soprattutto nella modalità di "riforme" liturgiche. Non c'erano semplicemente una Chiesa cattolica e una Chiesa protestante poste l'una accanto all'altra; la divisione della Chiesa ebbe luogo quasi impercettibilmente e trovò la sua manifestazione più visibile e storicamente più incisiva nel cambiamento della liturgia, che, a sua volta, risultò parecchio diversificata sul piano locale, tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano ben difficili da definire. In questa situazione di confusione, resa possibile dalla mancanza di una normativa liturgica unitaria e dal pluralismo liturgico ereditato dal medioevo, il Papa decise che il Missale Romanum, il testo liturgico della città di Roma, in quanto sicuramente cattolico, doveva essere introdotto dovunque non ci si potesse richiamare a una liturgia che risalisse ad almeno duecento anni prima. Dove questo si verificava, si poteva mantenere la liturgia precedente, dato che il suo carattere cattolico poteva essere considerato sicuro. Non si può quindi affatto parlare di un divieto riguardante i messali precedenti e fino a quel momento regolarmente approvati. Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell'antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. Come era già avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell'introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l'edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti. Non c'è alcun dubbio che questo nuovo messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest'ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l'impressione che la liturgia sia "fatta", che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di " donato ", ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un'autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna " comunità " voglia darsi una propria liturgia. Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l'incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita. Per la vita della Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l'unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita "etsi Deus non daretur": come se in essa non importasse più se Dio c'è e se ci parla e ci ascolta. Ma se nella liturgia non appare più la comunione della fede, l'unità universale della Chiesa e della sua storia, il mistero del Cristo vivente, dov'è che la Chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale? Allora la comunità celebra solo se stessa, senza che ne valga la pena. E, dato che la comunità in se stessa non ha sussistenza, ma, in quanto unità, ha origine per la fede dal Signore stesso, diventa inevitabile in queste condizioni che si arrivi alla dissoluzione in partiti di ogni genere, alla contrapposizione partitica in una Chiesa che lacera se stessa. Per questo abbiamo bisogno di un nuovo movimento liturgico, che richiami in vita la vera eredità del concilio Vaticano II» (JOSEPH RATZINGER, La mia vita: ricordi, 1927-1977, Cinisello Balsamo: San Paolo, 1997, pp. 110-113).


 
Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI – Parte II

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di Cristina Siccardi

La riforma liturgica del 1970 rappresenta la massima realizzazione della montante marea del desiderio di rinnovamento all’interno della Chiesa, di cui il Concilio Vaticano II fu il vessillo, più che la base dottrinale. In contrasto con quanto stabilito dalla Costituzione Conciliare Sacrosantum Concilium, la quale prevedeva il mantenimento dell’idioma di Cicerone e di Sant’Agostino quale lingua liturgica per tutta la Chiesa latina, la riforma in parola decretò il passaggio alle lingue nazionali di tutta la Liturgia. La portata del mutamento fu enorme, anche in quanto, al di là delle differenze contenutistiche dei riti, l’abbandono della lingua dei Cesari decretò la morte del concetto stesso di lingua sacra all’interno della Chiesa cattolica, eliminando questo strumento che l’aveva accompagnata, almeno nella sua parte occidentale, fin dal suo sorgere, prima con il greco e, poi, con il latino.
Il «fenomeno generale delle lingue sacrali […], ampiamente diffuso, scaturisce dalla tensione che l’uomo avverte tra la vita di ogni giorno e ciò che per l’uomo religioso appartiene al mondo soprannaturale, divino. Tale tensione ha conseguenze per la lingua umana, strumento così profondamente umano e al contempo così delicato. […]
Questo carattere sacrale dell’antica liturgia latina, manifestantesi in una stilizzazione rigida, monumentale, che solleva letteralmente la preghiera al di sopra delle banalità della vita di ogni giorno, ha entusiasmato, ha infiammato i fedeli nel corso dei secoli. Si desidererebbe che nelle traduzioni dei testi liturgici nelle lingue nazionali si conservi qualcosa della loro grandezza sacrale. [Concetto che Benedetto XVI riprende nella Lettera inviata ai Vescovi in accompagnamento al motu proprio Summorum Pontificum]. Purtroppo ci si imbatte in grosse difficoltà; molti fedeli del nostro tempo hanno perso il senso del sacrale. Ma anche quando si cerca onestamente di conservare il carattere sacrale dei testi latini non è facile trovare una forma equivalente nelle lingue nazionali moderne. La maggior parte di esse è così “laicizzata” da non possedere più, o quasi più, i mezzi per una stilizzazione sacrale. Ciò che sono riusciti a realizzare i cristiani latini dei primi secoli soltanto in un periodo avanzato, attingendo alla pienezza dell’uso linguistico cristiano, potrà maturare soltanto lentamente nelle nostre lingue, se si vuol conservare il carattere sacrale dei testi liturgici. Richiederà molto sforzo ed una ricerca “amorosa” delle possibilità offerte dalla propria lingua il tentare la realizzazione di traduzioni corrispondenti al nostro tempo: traduzioni che non pregiudichino la ricchezza spirituale dei testi liturgici.
[…] La secolare tradizione letteraria di Roma, sia nella sua forma profana che cristiana, sopravviverà nel latino medievale. Con ciò inizia però una nuova fase della vita del latino, in cui si incontrano e si alimentano reciprocamente nel corso dei secoli le due suddette tradizioni. Questo latino medievale, lingua ufficiale della Chiesa, dell’insegnamento, all’inizio soprattutto nelle mani di ecclesiastici, e lingua universale di una cultura in lenta ascesa, costituirà per secoli il fermentum e il vinculum unitatis dei popoli dell’Europa occidentale. Più di ogni altro elemento esso ha favorito il sorgere di una cultura cristiana occidentale.» (Christine Mohrmann, Unità e continuità del latino cristiano antico nella Chiesa d’occidente, in Osservatore Romano, inserto speciale per l’ottantesimo compleanno di Sua Santità Papa Paolo VI f.r., 25 settembre 1977).
La perdita della lingua sacrale della Chiesa ha vieppiù acuito il senso di novità e la rottura con tutta la tradizione precedente, soprattutto perché alcuni settori del mondo cattolico e della stessa gerarchia vedevano in ogni cambiamento il presupposto e la premessa per un’ulteriore smantellamento dell’edificio ecclesiale. Essi si autodefinivano come gli interpreti dello «spirito del Concilio», termine assai vago, dietro il quale si nascondeva un desiderio di una sorta di «rivoluzione permanente», che non voleva l’applicazione dei testi conciliari, quanto la loro sublimazione: il Concilio non era visto come un evento, da cui scaturivano dei portati da applicare, ma come un momento rivoluzionario, il cui valore non stava tanto in ciò che affermava, quanto nel fatto che poteva essere inteso come il grimaldello, con cui scardinare la Chiesa della Tradizione, per sostituirla con una nuova, in cui non esistesse il concetto stesso di stabilità, ma tutto fosse in divenire. È l’applicazione alla Chiesa della sindrome rivoluzionaria, che condanna i regimi sedicenti completamente nuovi e negatori di ogni continuità con il passato ad una deriva estremistica indeterminata, fino al loro crollo o alla loro trasformazione violenta, entrambi necessitati dalla materiale impossibilità di proseguire su quella strada, impossibilità normalmente rappresentata dalla fame e dalla miseria che colpiscono la stragrande maggioranza della popolazione. Gli esempi più eclatanti sono rappresentati dalla Rivoluzione francese e da quella russa.
Nella Chiesa, però, questo meccanismo non si è innescato, in quanto, la riforma liturgica non è stata presupposto di ulteriori cambiamenti, ma ha segnato, di fatto, un argine invalicabile, oltre il quale, nonostante abusi, “sperimentazioni” e “tentativi di sfondamento”, non si è andati. Si è, così, venuta a creare una situazione di stallo, nella quale l’ondata degli “innovatori” è stata arginata, ma, allo stesso tempo, il senso di cesura tra la “Chiesa post-conciliare” e la “Chiesa tridentina”, come spregiativamente veniva chiamata dai suoi detrattori la chiesa precedente al Vaticano II rimaneva profondo, sia nel sentire dei fedeli, che nei documenti ufficiali. Si aveva quasi la sensazione che il Concilio Vaticano II avesse segnato la nascita di una nuova Chiesa, molto, se non del tutto, diversa dalla precedente, ma che, allo stesso tempo, questa Chiesa nuova non fosse più in grado di rinnovarsi e che, quindi, il cammino fosse interrotto. E tutto ciò nella cornice di una progressiva marginalizzazione della Fede cattolica dal contesto sociale.
Un primo grosso scossone a questo stato di cose è stato dato da Giovanni Paolo II, che ha segnato un primo passaggio dal contenimento dell’attacco modernista, caratteristica del Pontificato di Paolo VI, all’offensiva, con il rilancio della spiritualità popolare, così censurata ed insultata dagli “innovatori”. Ma è con Benedetto XVI che la cesura è annullata e che il Concilio è letto alla luce della Chiesa di sempre; che la storia della Sposa di Cristo viene letta come un flusso ininterrotto, sia pure contrassegnato da errori e peccati, di attuazione della parola portataci dalla Parola, cioè da Gesù. Si è cessato, in altre parole, di leggere la storia della Chiesa alla luce del Concilio, ma si è iniziato a leggere il Concilio alla luce di Cristo, attualizzato nella storia dalla Sua Chiesa, in ogni epoca, senza sterili contrapposizioni.
Non è un caso che il primo atto legislativo del nuovo Pontefice sia stato il motu proprio che ha, di fatto, liberalizzato e, senza dubbio, anche se indirettamente, incoraggiato l’uso della liturgia precedente alla riforma. Essa è, per limitarci alla Santa Messa, la Liturgia del Santo Sacrificio che, con lievi ritocchi nei secoli, ha caratterizzato la Chiesa latina a partire, almeno, dal IV-V secolo. Con la profondità teologica che lo contraddistingue, Benedetto XVI ha identificato nella Messa il cuore della vita della Chiesa e nella sua Liturgia la manifestazione esterna, quindi fruibile da parte dei fedeli, di tale cuore. E, già da Cardinale, Joseph Ratzginer preannunciava ciò che avrebbe fatto, poi, da Pontefice, dimostrando come questo atto, centrale nel suo pontificato, sia il frutto di anni di riflessione e di preghiera. «Personalmente ritengo che si dovrebbe essere più generosi nel consentire l'antico rito a coloro che lo desiderano. Non si vede proprio che cosa debba esserci di pericoloso o inaccettabile. Una comunità mette in questione se stessa, quando considera improvvisamente proibito quello che fino a poco tempo prima le appariva sacro e quando ne fa sentire riprovevole il desiderio. Perché le si dovrebbe credere ancora? Non vieterà forse domani, ciò che oggi prescrive? Ma un semplice ritorno all'antico non è una soluzione. La nostra cultura si è così trasformata negli ultimi trent'anni che una liturgia celebrata esclusivamente in latino comporterebbe un'esperienza di estraniamento, insuperabile per molte persone. Quello di cui abbiamo bisogno è una nuova educazione liturgica, soprattutto dei sacerdoti. Deve diventare nuovamente chiaro che la scienza liturgica non esiste per produrre continuamente nuovi modelli, come può valere per l'industria automobilistica. Esiste per introdurre l'uomo nelle feste e nella celebrazione, per disporre gli uomini ad accogliere il Mistero.» (cfr. Joseph Ratzginer, Il sale della terra. Cristianesimo e Chiesa Cattolica nella svolta del terzo millennio. Un colloquio con Peter Seewald, Cinisello Balsamo: Ed. S.Paolo, pp. 199-202).

 
Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI – Parte III

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di Cristina Siccardi

Dopo aver esaminato le valutazioni di ordine dottrinale e pastorale, che hanno indotto il santo Padre a promulgare la Lettera Apostolica, motu proprio data, Summorum Pontificum, può essere interessante esaminarne il testo.
La parte introduttiva, che precede il contenuto immediatamente giuridico e vincolante, si apre con il ribadire l’eternità, per il passato come per il futuro, del principio, secondo il quale «ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa universale, non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni sacramentali, ma anche quanto agli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica, che devono essere osservati non solo per evitare errori, ma anche per trasmettere l’integrità della fede, perché la legge della preghiera della Chiesa corrisponde alla sua legge di fede»1. Il termine “concordare” deve essere inteso in un significato molto simile a quello che ha in campo musicale. Come l’armonia è data da note diverse che cooperano e non da un unica nota ripetuta, così la liturgia della Chiesa è sempre stata rappresentata da riti diversi che, con sensibilità diverse e con diversi accenti esprimevano, però, un’unica fede, con l’unità che promana dall’adesione a Cristo, quale la Sua mistica Sposa ce lo ripresenta, mediante l’Eucaristia, e ce lo annuncia da duemila anni.
Su questa premessa, Benedetto XVI innesta una rapidissima disamina della storia liturgica della Chiesa latina. Più che un’analisi tecnica dell’evoluzioni della liturgia, si tratta di una messa a fuoco dell’idem sentire (comunanza di sentimenti), che ha caratterizzato tutti i grandi Papi riformatori in questo ambito, da san Gregorio Magno a Giovanni XXIII. Tra tutti si staglia la figura di san Pio V, «il quale sorretto da grande zelo pastorale, a seguito dell’esortazione del Concilio di Trento, rinnovò tutto il culto della Chiesa, curò l’edizione dei libri liturgici, emendati e “rinnovati secondo la norma dei Padri” e li diede in uso alla Chiesa latina.
[…] Fu questo il medesimo obbiettivo che seguirono i Romani Pontefici nel corso dei secoli seguenti assicurando l’aggiornamento o definendo i riti e i libri liturgici, e poi, all’inizio di questo secolo, intraprendendo una riforma generale»2.
Il fine che ha sempre guidato tutti questi grandi Papi riformatori è stato il desiderio di preservare la continuità spirituale della preghiera della Chiesa. Ogni mutamento, ogni aggiornamento altro non era, in realtà, che l’adeguamento ritenuto necessario alla perpetuazione dell’eterno adorare Dio della Sua Chiesa.
Anche il Concilio Vaticano II e la riforma liturgica di Paolo VI viene letta in questa chiave, sottintendendo, in maniera esplicita, quanto l’allora teologo Joseph Ratzinger aveva già scritto in più occasioni, vale a dire che il cosiddetto “spirito del Concilio”, cioè il tentativo di distruggere ogni eternità ed ogni stabilità spirituale all’interno della Chiesa, non era e non è contenuto né nel Vaticano II, né, tantomeno, nella riforma montiniana: sono gli abusi di una parte minoritaria del clero che hanno lasciato intendere che esistesse una contrapposizione tra la Chiesa conciliare e la Chiesa che l’aveva preceduta.
Il documento papale passa, poi, ad esaminare il periodo seguito alla riforma e, dalle poche parole con cui viene affrescato, s’intende chiaramente la partecipazione del Pontefice al dolore ed allo smarrimento che l’applicazione della riforma suddetta, spesso infedele ed ispirata ad attese rivoluzionarie non sue proprie, ha ingenerato in moltissimi fedeli. Chiaro è anche il partecipativo affetto con cui Papa Ratzinger parla di coloro che «aderirono e continuano ad aderire con tanto amore ed affetto alle antecedenti riforme liturgiche».
In questo quadro, viene sottolineata l’azione regolatrice e riformatrice del pontificato di Giovanni Paolo II, prima con lo speciale indulto Quattuor abhinc annos del 1984, con cui la Congregazione per il Culto Divino, «concesse la facoltà di usare il Messale Romano edito dal B.Giovanni XXIII nell’anno 1962», poi, «con la Lettera Apostolica “Ecclesia Dei”, data in forma di Motu proprio», che «esortò i Vescovi ad usare largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero».
Dopo questa importante premessa, il Motu Proprio entra nel vivo della sua parte normativa. L’art. 1 chiarisce che la Messa nuova rimane la Lex orandi ordinaria, mentre la cosiddetta Messa tridentina acquisisce la valenza di Lex orandi straordinaria, formalmente non solo lecita, ma esplicitamente riconosciuta dalla Chiesa, contro ogni interpretazione abrogazionista: nulla di ciò che la Chiesa ha considerato sacro per secoli può divenire proibito o dannoso o, peggio, malvagio!
Nell’art. 2 è stabilito che ogni sacerdote abbia la facoltà di celebrare la Messa «senza il popolo» nella forma che predilige e che «non ha bisogno di alcun permesso, né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario», vale a dire del suo Vescovo. A tale Messa «possono essere ammessi – osservate le norme del diritto – anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà» (art. 4).
All’art. 3 è stabilito che «le comunità degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica» possono celebrare la santa Messa nella forma che ritengono opportuna, purché rispettino le loro gerarchie interne.
All’art. 5, forse il più innovativo di tutto il Motu proprio, è stabilito che «nelle parrocchie, in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica, il parroco» è obbligato ad accogliere le loro richieste per la celebrazione secondo il “rito tridentino”, tanto nei giorni feriali, che nelle domeniche e nelle festività. Il parroco è, altresì, tenuto a permettere ai sacerdoti ed ai fedeli che lo richiedano «le celebrazioni in questa forma straordinaria anche in circostanze particolari, come matrimoni, esequie o celebrazioni occasionali, per esempio pellegrinaggi».
«Se un gruppo di fedeli laici […] non abbia ottenuto soddisfazione alle sue richieste da parte del parroco, ne informi il Vescovo diocesano. Il Vescovo è vivamente pregate di esaudire il loro desiderio. Se egli non può provvedere per tale celebrazione, la cosa venga riferita alla Commissione Pontificia “Ecclesia Dei”» (art.7).
Anche tutti gli altri sacramenti possono essere celebrati secondo l’antico rito, secondo il prudente apprezzamento del sacerdote o del Vescovo cui competono (art. 9).
L’art. 10, inoltre prevede la possibilità, per il Vescovo, di erigere parrocchie personali per coloro che desiderano vivere la propria vita cristiana alla luce dell’antico rito, qualora lo ritenga opportuno.
Questo documento si presenta come innovativo sotto vari aspetti: la forma è assolutamente scarna; vi si esalta la libertà del singolo fedele; e, infine si ribadisce la centralità del primato petrino.
Il testo è decisamente breve, non esiste una casistica minuta ma, al contrario,m è articolato per principi generali ed astratti, denotando un introiettamento dei principi giuridici più moderni. L’assenza di norme minute, inoltre, denota, già nella forma, una grande fiducia nell’autodeterminazione del fedele.
Questa impostazione formale trova un fortissimo riscontro nei contenuti, con la rigida tutela dei diritti del singolo Christifidelis, tramite il diretto rapporto tra questi e le autorità centrali vaticane in modo speciale la Commissione Ecclesia Dei.
La forzata armonizzazione del potere di regolamentazione della vita liturgica in capo ai Vescovi con le direttive papali rappresenta la più esplicita riaffermazione del primato petrino, sopra e oltre ogni interpretazione estensiva della collegialità dalla celebrazione del Concilio Vaticano II.
Questo Motu proprio, primo atto giuridico del pontificato di Benedetto XVI è stato presentato da molte parti come un ritorno, quasi irrazionale, ad un passato , privo di ogni ragion d’essere. Esso, invece, rappresenta la dimostrazione pratica di come , attraverso la riscoperta e la valorizzazione di tutti gli strumenti più tradizionali del culto cattolico,di fatto si riaffermi , in forme sempre nuove, il servizio di tutta la Chiesa al singolo fedele ed al suo cammino verso la Salvezza. Come Cristo è morto in Croce per espiare i peccati di ciascuno di noi, così il suo Corpo Mistico aiuta, con l’insegnamento, con la correzione e con la promozione della responsabile libertà personale, oltre che, ovviamente, attraverso i sacramenti, ciascuno di noi a giungere all’abbraccio con il Padre, che come nei confronti del Figliol prodigo, ci attende, per una eternità di divina gioia.
1 Ordinamento generale del Messale Romano, 3a ed., 2002, n. 397.
2 Giovanni Paolo II, Lett. ap. Vicesimus quintus annus, 4 décembre 1988, 3: AAS 81 (1989), 899.
Ultimo aggiornamento ( Wednesday 16 September 2009 ) 
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Motu Proprio SUMMORUM PONTIFICUM 

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