Convegno di Roma sul Vaticano II, 16 dicembre. Testo integrale della Relazione del Prof. De Mattei
Sono in grado di pubblicare, per gentile concessione del Prof. de Mattei, il testo integrale del suo intervento al Convegno sul Concilio Vaticano II, organizzato dai Francescani dell'Immacolata, un evento che fornisce materiale e spunti rilevanti per le nostre riflessioni e approfondimenti e sarà fondante per l'evoluzione ulteriore di un discorso serio, ormai ineludibile per il futuro della nostra Chiesa. (il testo che sarà pubblicato tra gli Atti del Convegno sarà arricchito anche delle note)
L'intervento di De Mattei, ricco del pathos dato dal coinvoglimento spirituale dell'autore ma anche del rigore e dell'appassionata ricerca dello storico, delinea il filo conduttore attraverso il quale acquistano collocazione e senso documenti ed immagini di un repentino cambiamento: fatti, concatenamenti, causalità, con un metodo e dei criteri che per la prima volta, dopo anni di egemonia incontrastata, ci consentono di misurarci ad un livello serio e autorevole con la poderosa opera storiografica che, iniziata da Giuseppe Alberigo e poi da Alberto Melloni (la nota "Scuola di Bologna"), aveva prodotto fino a oggi l'unica organica ricostruzione del fenomeno conciliare, che Gnocchi e Palmaro definiscono efficacemente: "Ricostruzione tendenziosa, ideologica e persino eversiva, certo, ma fatta da gente che il mestiere di storico, innegabilmente, lo conosce bene."
E così abbiamo il controcanto di tutto rispetto offerto dal prof. de Mattei, preceduto dalla sua opera storica: Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010, che possiamo considerare una delle strutture portanti - insieme all'opera filosofica di Romano Amerio, a quella teologica di Brunero Gherardini ed agli altri autorevoli e magistrali interventi dei quali proseguiremo l'esame - della ricostruzione sulle macerie della cosidetta "nuova Pentecoste" conciliare.
Esso fornisce a studiosi e fedeli la visione cattolica non 'spuria' né ammaliata dai canti delle sirene delle avventurose arbitrarie innovazioni, foriere per molti di "magnifiche sorti e progressive". Esse stanno aprendo orizzonti nuovi e sconosciuti, avulsi dalla linfa vitale delle Radici della Tradizione perenne, che può essere oggetto di "trasformazione evolutiva", ma nella 'continuità' e non nella 'rottura', come ricordato da Benedetto XVI nel discorso alla curia del 2005. E' questo lo spartiacque che, evidenziando la contrapposizione tra due ermeneutiche del concilio, lungi dall'aver chiuso il discorso, ha di fatto aperto il confronto tra due visioni inconciliabili della chiesa.
Se nel convegno si è evidenziato come la lettura progressista enfatizzi il concilio come "evento" fondante della "nuova Pentecoste" e, dando priorità all'evento-impulso di novità che si voleva imprimere, ha fatto e fa sì che l'evento assorba il testo e lo sposti nella sua ricezione, si è tuttavia constatato proprio con De Mattei come le pericolose spinte eversive, dentro e fuori l'aula conciliare, non abbiano dato vita ad un soggetto in qualche modo nuovo; il che ha espulso dall'orizzonte storiografico il concetto mitico di "evento conciliare", eliminando automaticamente con esso quello di "nuova chiesa".
Inserisco quindi il testo della relazione. Offrirò in apertura della discussione alcune chiavi di lettura, tra le più significative.
Istituto Maria Santissima Bambina
Roma, 16 dicembre 2010
Concilio Vaticano II
1. L’immagine della Chiesa nel 1962
Eccellenze reverendissime, Monsignori, Reverendi Padri, Signore e Signori,
chi vi parla è uno storico ed è dalla storia che vorrei partire, tornando assieme a voi a quel giorno dell’11 ottobre 1962, in cui si aprì a Roma il Concilio Vaticano II, ventunesimo Concilio ecumenico della storia della Chiesa.
Il lungo corteo dei Padri conciliari, che quella mattina uscì dalla Porta di Bronzo e avanzò lentamente all’interno della Basilica di San Pietro stracolma, offriva una straordinaria immagine della Chiesa militante sulla terra.
In testa i superiori di ordini religiosi, gli abati generali e i prelati nullius; quindi i vescovi, gli arcivescovi, i patriarchi, i cardinali, e per ultimo, in sedia gestatoria, scortato dalla Guardia nobile, tra gli applausi della folla, il Papa Giovanni XXIII. Mentre il corteo dei padri incedeva con solennità, i cantori intonarono il Credo e poi il Magnificat. Il corteo era lungo complessivamente circa 4 chilometri; vi partecipavano quasi tremila dignitari della Chiesa. Di essi 2.381 vescovi, direttamente collegati mediante la successione apostolica ai primi Apostoli. Essi erano riuniti attorno al sovrano supremo, il Papa, Vicario di Cristo, con giurisdizione piena e diretta su tutti i vescovi e su tutti i fedeli del mondo.
La presenza del Vicario di Cristo e dei successori degli Apostoli, nel quadro incomparabile della Basilica di San Pietro, fecero di quella cerimonia uno spettacolo unico al mondo. Mai come in questo momento la Chiesa cattolica manifestò il suo carattere, gerarchico e visibile: visibile perché la Chiesa militante, in quanto fondata sull’Incarnazione del Verbo, deve rendere manifesto nella sua struttura il suo aspetto invisibile, come l’organismo umano rende tutto l’uomo visibile, benché la sua anima in sé resti invisibile. Per amare questa gerarchia era, ed è, necessaria una profonda umiltà. Bisogna ammettere che non esiste uguaglianza nel mondo creato, che tutto dipende da Dio, che partecipa l’essere a ogni creatura in maniera diversa: e con l’essere ogni creatura riceve qualità, doni, grazie in base alle quali occupa nella società terrena e in quella soprannaturale un posto diverso. Il primo peccato, quello degli angeli ribelli, fu il rifiuto di riconoscere la sapienza di Dio, nel calare la propria divinità nel seno di un'umile creatura, come avvenne per il Verbo Incarnato, e per elevare questa creatura, Maria, al vertice dell’universo creato. I cori degli Angeli Fedeli esprimono nel cielo questa sublime dipendenza gerarchica e la Chiesa e la società cristiana sono chiamate a riflettere sulla terra la gerarchia dei cori celesti.
Universalità, sacralità, gerarchia: questa era l’immagine che l’11 ottobre del 1962 di sé dava al mondo la Chiesa militante sulla terra, soprannaturalmente unita alla Chiesa sofferente e alla Chiesa trionfante nell’unica Comunione dei Santi. La Chiesa appariva davvero la città posta sul monte di cui parla il Vangelo (Mt, 5,14).
2. Il rapporto tra la Chiesa e il mondo
Ma qual era l’immagine che di sé offriva il mondo all’inizio degli anni Sessanta?
Il mondo di quegli anni era immerso in un clima psicologico di ottimismo, se non di euforia. Tre icone brillavano nel firmamento internazionale, incarnando questo clima di ottimismo: Nikita Sergeevic Krusciov, dal 27 marzo 1958 premier dell’Unione Sovietica; Angelo Giuseppe Roncalli, asceso al soglio pontificio il 28 ottobre di quello stesso 1958 con il nome di Giovanni XXIII e John Fitzgerald Kennedy, che il 21 gennaio 1961 aveva assunto la carica di Presidente degli Stati Uniti.
Il 12 aprile 1961 il maggiore sovietico Yuri Gagarin aveva compiuto il primo volo di un uomo nello spazio. La sua impresa sembrava suggellare un’epoca di trionfo della scienza, campo in cui l’Unione Sovietica contendeva agli Stati Uniti il primato nel mondo. Ma il 13 agosto di quello stesso 1961 era iniziata la costruzione del Muro di Berlino e l’imperialismo sovietico estendeva la sua ombra minacciosa su larga parte del mondo.
L’influenza che il comunismo esercitava sul mondo, più che politica e militare, era culturale e psicologica. La filosofia marx-hegeliana dominava negli ambienti accademici e mediatici e anche nel linguaggio comune correvano termini mutuati da quella filosofia immanentista, come “senso della storia”, “corso dei tempi”, “apertura e chiusura”, “liberazione e repressione”. Si trattava di una visione dialettica che si esprimeva nelle nuove parole d’ordine lanciata dalla propaganda comunista: il “dialogo”, inteso come dissolvimento di ogni certezza e verità; la “coesistenza pacifica”, intesa come processo per disarmare psicologicamente l’avversario; lo “sviluppo” e l’“emancipazione” dei popoli, intesi come rifiuto di ogni autorità e tradizione del passato. L’ideologia soggiacente era quello del progresso inteso come marcia irreversibile e ascensionale dell’umanità per raggiungere una “felicità” sociale presentata come la trasposizione sulla terra del Paradiso celeste.
Nel corso della sua storia, la Chiesa aveva parlato al mondo con il linguaggio dei confessori senza macchia e senza paura, dei dottori inflessibili nelle loro controversie, dei martiri intransigenti nella testimonianza della verità, delle vergini immacolate nella loro fedeltà sponsale. Questi uomini e queste donne avevano preferito essere esclusi, disprezzati, perseguitati, messi a morte dal mondo piuttosto che rinunciare a proclamare la verità e a lottare contro gli errori e le false dottrine. Era questa la strada indicata da confessori della fede come il cardinale Aloisio Stepinac, morto alla vigilia del Concilio, e il cardinale Josef Mindszenty, recluso dal 1956 nell’ambasciata americana a Budapest.
La cultura progressista degli anni Sessanta esercitava il suo fascino anche su alcuni uomini di Chiesa, convinti che fosse necessario mutare l’atteggiamento nei confronti del mondo: rinunciare agli anatemi e alle condanne degli errori per scorgere ciò che di positivo il mondo presentava. Era questa la tesi espressa dal padre domenicano Yves Congar, a cui si deve una delle prime enunciazioni della distinzione tra i dogmi e la loro formulazione. In un’opera di successo, Vera e falsa riforma della Chiesa, Congar affermava che non esistono “germi attivi nei quali non siano pure presenti dei microbi”: ossia errori, in cui non esistono verità. Poiché uccidere i microbi significherebbe uccidere anche i germi vivi, occorreva, a suo avviso, lasciare prosperare gli uni e gli altri. La condanna degli errori da parte della Chiesa, dalle eresie medievali fino al modernismo, aveva spento secondo lui le istanze positive in essi presenti, qualcuno le chiama oggi le istanze “esigenziali”: meglio avrebbe fatto la Chiesa a lasciar vivere e diffondere questi errori. Con questo atteggiamento Congar proponeva di cambiare la Chiesa dall’interno, attraverso “una riforma senza scisma”. “Non bisogna fare un’altra Chiesa – spiegava – bisogna fare una Chiesa diversa”. Quello di modificare la Chiesa dall’interno era l’antico sogno, irrealizzato, dei modernisti. “Fino ad oggi – aveva spiegato il sacerdote apostata Ernesto Buonaiuti – si è voluto riformare Roma senza Roma, o magari contro Roma. Bisogna riformare Roma con Roma; fare che la riforma passi attraverso le mani di coloro i quali devono essere riformati. Ecco il vero e difficile metodo; ma è difficile. Hic opus, hic labor”.
Tra coloro che accoglievano le tesi di Congar era un gruppo di Padri conciliari del Centro-Europa, tra cui spiccava il neo-eletto primate del Belgio, il cardinale Léo-Joseph Suenens. Suenens non aveva ancora 60 anni. Dopo essere stato consacrato arcivescovo di Malines-Bruxelles nel marzo 1962, aveva incontrato a Roma Giovanni XXIII che fu affascinato dalla sua figura e gli chiese di preparargli una nota per il Concilio. Nel mese di giugno 1962 Suenens riunì un gruppo di cardinali al Collegio belga di Roma, tra i quali gli arcivescovi di Monaco Döpfner, di Lille Liénart, di Milano Montini, per discutere un “piano” e una strategia per il prossimo Concilio.
Nel documento che fu redatto, il cardinale Primate del Belgio lanciava la parola d’ordine del “Concilio pastorale”, definendo ciò “un beneficio immenso”, una “grazia di Pentecoste per la Chiesa”. Giovanni XXIII avrebbe seguito questa linea strategica.
3. Giovanni XXIII apre il Concilio
L’allocuzione inaugurale del Papa, Gaudet mater ecclesia dell’11 ottobre fu – come osserva il padre Wenger – la chiave per comprendere il Concilio. “Più che un ordine del giorno, esso definiva uno spirito; più che un programma, dava un orientamento”. La novità non era nella dottrina, ma nella nuova disposizione psicologica ottimistica con cui si impostavano i rapporti tra la Chiesa e il mondo: un rapporto dialogico di simpatia e “apertura”. Coloro che mettevano in dubbio questo spirito irenico e ottimistico venivano definiti dal Papa “profeti di sventura”.
Per Giovanni XXIII, compito principale del Concilio era quello di custodire il Magistero della Chiesa e insegnarlo “in forma più efficace”. Nel suo discorso di apertura egli affermava: “Altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo in cui vengono enunziate, rimanendo pur sempre lo stesso significato e il senso profondo”. “Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che si deve – con pazienza se occorre – tener gran conto”.
Il Concilio era stato indetto, non per condannare errori o formulare nuovi dogmi, ma per proporre, con linguaggio adatto ai tempi nuovi, il perenne insegnamento della Chiesa. La forma pastorale, cioè il rinnovamento del linguaggio dei metodi di azioni e di apostolato, con Giovanni XXIII, diventava la forma del Magistero per eccellenza. Si tratta di un punto centrale. Giovanni XXIII non intendeva avviare una Rivoluzione all’interno della Chiesa. Il suo temperamento era inclinato a un ottimismo che aveva come conseguenza psicologica, più che ideologica, l’idea di “adattamento” o, come poi si dirà, di “aggiornamento”. Egli pensava che il Concilio potesse tenersi in tempi brevi, giungendo ad approvare pochi documenti, magari per acclamazione. Nel luglio del 1962, ricevette in udienza mons. Pericle Felici, che gli presentò gli schemi conciliari rivisti e approvati. “Il Concilio è fatto – esclamò con entusiasmo Papa Roncalli – a Natale possiamo concludere”.
4. Le due minoranze
Il Concilio non durò tre mesi, come aveva immaginato Giovanni XXIII. E Papa Roncalli, che morì il 3 giugno 1963, poté seguirne solo la prima sessione. Paolo VI, eletto il 21 giugno guidò le successive tre sessioni e ne fu il protagonista. Il Concilio non si svolse neppure nell’atmosfera di gioioso consenso immaginata da Giovanni XXIII, ma fu il luogo di drammatici contrasti.
Se ci si limitasse a una storia “ufficiale”, basata sui risultati dalle votazioni, si dovrebbe negare l’esistenza di una lotta interna al Concilio tra opposti schieramenti, visto che i documenti conciliari furono tutti approvati da una schiacciante maggioranza. In realtà, nessun Concilio conobbe, più del Vaticano II, tensioni e conflitti tra gruppi contrapposti.
Gli storici pur non negando quest’evidenza, la riconducono al contrasto tra una “maggioranza” progressista e una “minoranza” conservatrice, destinata ad essere sconfitta. In realtà lo scontro avvenne tra due minoranze che, nel 1963, il teologo di Lovanio Gerard Philips descriveva come due “tendenze” contrapposte della filosofia e della teologia del ventesimo secolo: l’una nelle parole di Philips più preoccupata di essere fedele agli enunciati tradizionali, l’altra più attenta alla diffusione del messaggio presso l’uomo contemporaneo. Nell’articolo del teologo belga le due posizioni venivano poste sullo stesso piano con una netta preferenza dell’autore verso la seconda. La prima “tendenza” era però la posizione ufficiale del Magistero della Chiesa, sempre ribadita fino al pontificato di Pio XII; la seconda “tendenza” era quella eterodossa, ripetutamente censurata e condannata dallo stesso Magistero ecclesiastico.(leggere tutto in :
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