Bux: c'è Messa e Messa.
Il teologo Nicola Bux spiega perchè in cima alle preoccupazioni di Benedetto XVI c'è il "crollo della riturgia. E perchè il restauro delle forme di culto passa necessariamente per il discusso Motu Proprio sul rito in latino.
di Valerio Pece
«In questo modo si impedisce pure “ai fedeli di rivivere l’esperienza dei due discepoli di Emmaus: ‘E i loro occhi si aprirono e lo riconobbero’”». Ecco spiegato in modo mirabile di cosa si parla quando si parla di cattiva liturgia. La citazione è presa da Redemptionis sacramentum, documento fortemente voluto da Giovanni Paolo II.
Sono rimasti in pochi oramai a negare che in campo liturgico ai documenti ufficiali del Concilio Vaticano II si sia sostituito abusivamente un invasivo “Spirito del Concilio”. Due esempi su tutti: il canto gregoriano e il latino, l’uso dei quali era indicato tra le “consegne” liturgiche più importanti del Concilio. Non si sa bene come, nella prassi, com’è noto, tutto è svanito. «Effettivamente come questo sia successo se lo chiedono in molti», dice a Tempi il teologo don Nicola Bux. «È una pagina ancora da chiarire. I fatti sono questi: Paolo VI costituì il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, con il compito, appunto, di “eseguire” ciò che era nella Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium. Su questa esecuzione è poi accaduto di tutto, perché confrontando la lettera del testo e le applicazioni successive appaiono differenze notevoli. Prendiamo il gregoriano. Al numero 116 della Sacrosanctum Concilium si legge che la Chiesa lo riconosce come “il canto proprio della liturgia romana” e come tale gli riserva “il posto principale”. Ora, “canto proprio” è un’espressione specifica, significa che il gregoriano è tutt’uno con il rito latino. Eliminare il canto proprio è come strappare la pelle di dosso a una persona. È quello che è stato fatto». La ragione accampata è che non lo si saprebbe cantare. «Ma questo è un falso problema», spiega il teologo. «Se pensiamo a quanti mottetti la gente canta, solo perché questi sono stati custoditi e perpetuati: la Salve Regina, il Kyrie… E poi basta davvero che il canto sia in italiano perché la gente canti?».
La stessa Chiesa in tutto il mondo
I biografi concordano che il fascino esercitato dal cattolicesimo su convertiti quali Newman, Benson e Chesterton, fu dovuto anche a quell’universalismo della liturgia latina che ancora oggi gioca un ruolo importante nel persuadere molti anglicani a bussare alla Chiesa di Roma. Ebbene, oltre il gregoriano certi occultamenti hanno riguardato anche il latino. Eppure la Sacrosanctum Concilium al n. 36 prescrive espressamente: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini”. «Tradurre le letture nelle lingue parlate – sostiene don Bux – è stata cosa buona, dobbiamo capirla. Ma il Papa ha aggiunto che “una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: Io sono nella stessa Chiesa”. Almeno alla preghiera eucaristica e alla colletta il latino dovrebbe tornare. Tra l’altro Paolo VI stabilì che i messali nazionali fossero pubblicati sempre bilingui, italiano e latino. Per permettere in ogni momento la celebrazione in latino, poi per tenere allenati i sacerdoti, e infine poiché l’italiano cambia e le traduzioni, spesso vere e proprie interpretazioni, tendono sempre più a tradire. C’era una lettera del Papa che lo prescriveva: non gli hanno obbedito».
La liturgia è sacra se ha le sue regole. E se da un lato l’ethos, cioè la vita morale, è un elemento chiaro per tutti, dall’altro lato si ignora quasi totalmente che esiste anche uno jus divinum, un diritto di Dio a essere adorato. Don Bux: «Si dice: Dio, anche se c’è, con la mia vita non c’entra. Invece Dio c’entra con tutto. “Tutto mi appartiene”, si legge nelle Scritture, anche la vita del regista Monicelli gli apparteneva. Attenzione, perché il Signore è geloso delle sue competenze, e il culto è quanto di più gli è proprio. Invece proprio in campo liturgico siamo di fronte a una deregulation». Per sottolineare quanto senza jus ed ethos il culto diventa necessariamente idolatrico, nel suo recentissimo libro (Come andare a Messa e non perdere la fede, Piemme) don Nicola Bux cita un passo dell’Introduzione allo spirito della liturgia di Joseph Ratzinger. Scrive Ratzinger: «In apparenza tutto è in ordine e presumibilmente anche il rituale procede secondo le prescrizioni. E tuttavia è una caduta nell’idolatria (…), si fa scendere Dio al proprio livello riducendolo a categorie di visibilità e comprensibilità». E ancora: «Si tratta di un culto fatto di propria autorità (…) diventa una festa che la comunità si fa da sé; celebrandola, la comunità non fa che confermare se stessa». Il risultato è irrimediabile: «Dall’adorazione di Dio si passa a un cerchio che gira attorno a se stesso: mangiare, bere, divertirsi». Un effetto domino.
È fondamentale notare – scrive don Bux – che «la caricatura del divino in sembianza bestiale» è un chiaro indice del fatto che «lo stravolgimento del culto trascina con sé l’arte sacra». Difficile non pensare all’architettura di tante chiese moderne. Decadimento che riguarda anche musica e costumi, visto che intorno al vitello d’oro si cantava e danzava in modo profano. Insomma, è tutto legato alla liturgia. Non per nulla nella sua autobiografia (La mia vita, San Paolo) Ratzinger dichiarava solennemente: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia» .
Un gesto di ecumenismo
Facilmente, frequentando la Messa per dieci domeniche in parrocchie diverse, capiterebbe di assistere a dieci differenti liturgie. E se è vero che cattolico significa universale, qualcosa forse non torna. Eppure l’enciclica Ecclesia de Eucharistia era stata chiarissima: «La liturgia non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante, né della comunità». La tesi di don Bux è che in soccorso alla liturgia potrebbe andare quel Motu proprio Summorum Pontificum che nel 2007 ha liberalizzato la forma straordinaria del rito latino. Per il teologo «le due forme del rito possono arricchirsi a vicenda, proprio a partire da questo clima religioso di Mistero, il Sitz im Leben, l’ambiente vitale dove è possibile incontrare Dio». Ma si può già fare un primo bilancio del Motu proprio? Don Bux risponde così: «Una settimana fa ero a Parigi. La Messa che dietro richiesta ho celebrato in forma straordinaria era affollatissima di giovani. Il parroco di Sainte-Clotilde mi diceva che celebra tranquillamente con i due riti, senza alcun problema. La verità è che dovremmo tutti liberarci da questa deleteria contrapposizione tra vecchio e nuovo rito, il nostro amato Papa incoraggia e desidera la continuità. E celebrare sia in forma ordinaria che straordinaria significa mettere in pratica questa continuità della Chiesa. Seguiamolo!».
Non si può nascondere, però, che siano molti a boicottare il Motu proprio. Per tutti, l’ex vescovo di Sora, Luca Brandolini, che alla notizia della liberalizzazione del rito straordinario confidò a Repubblica di aver pianto per quel “giorno di lutto”. Eppure in una prospettiva ecumenica la liberalizzazione della Messa antica è un passo avanti. «Lo ha dimostrato – aggiunge don Bux – il defunto patriarca di Mosca Alessio II, il quale applaudì al Motu proprio con parole chiarissime: “Il Papa ha fatto bene. Tutto ciò che è recupero della tradizione avvicina i cristiani tra loro”».
Secondo il teologo «il movimento di giovani creatosi intorno al rito antico è in forte crescita». Ma nessuno, specie se nato negli anni Settanta-Ottanta, può essere “tradizionalista” in nome della nostalgia per i bei tempi che furono. «Molti giovani domandano una sola cosa: incontrare il sacro. Ecco la ragione del successo della Messa gregoriana. Ignorare questa richiesta, che ha un contorno tutto spirituale e per nulla ideologico (come invece si vorrebbe far credere), è almeno contraddittorio per chi, per definizione, dovrebbe “episcopein”, cioè osservare, scrutare». La situazione è paradossale: «Si era fatto di tutto per rinnovare la liturgia e attirare i giovani, e adesso proprio loro non si sentono attratti. È un fatto che con la forma straordinaria del rito non pochi di loro riescano maggiormente ad adorare il Signore. La liturgia serve per dare al Signore la lode e la giusta adorazione. Una liturgia che non mette al primo posto il Signore è una fiction, e loro se ne accorgono. Quando i sacerdoti recitano la preghiera eucaristica (cioè il momento culminante della Messa, quello del Suo sacrificio per noi) continuando a roteare lo sguardo sul popolo invece che guardare alla Croce dinanzi a loro, diventa allora chiaro che non stanno parlando col Signore, non sono rivolti a Lui. E ciò non è senza conseguenze: i fedeli saranno portati a distrarsi, a scapito della partecipazione».
Ma quali “spalle al popolo”
Sta nascendo un movimento liturgico nuovo che guarda al modo di celebrare di Benedetto XVI. «La cosa di gran lunga più importante che il Papa vuol farci comprendere – dice don Bux – è l’orientamento del sacerdote, del suo sguardo soprattutto. “Là dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento” scrive magnificamente Benedetto XVI, ed è appunto questo il nocciolo della questione: il giusto orientamento». Sembra dunque di essere arrivati a uno snodo rischioso. «“In alto i nostri cuori, sono rivolti al Signore”, lo diciamo ma non lo facciamo. Se il sacerdote guardasse la croce, o il tabernacolo, ci sarebbe per i fedeli un effetto fortissimo. Se proprio dall’offertorio alla comunione il sacerdote non vuol stare rivolto ad Dominum, cioè a Oriente, abbia almeno la Croce al centro dinanzi a sé. Si badi bene, questo sarebbe possibile anche con i nuovi altari, per cui senza tornare a distruggere nulla (abbiamo assistito già alla demolizione dissennata di tanti altari antichi e belli), basterebbe porre sull’altare la croce e voltarsi ad essa. Esattamente come fa Benedetto XVI, che interpone la croce tra sé e i fedeli, una croce ben visibile». In fondo Ratzinger aveva in mente proprio questo quando si rammaricava perché «il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso». Eppure – si obietta – dare le spalle al popolo o anche solo interporre la croce sull’altare fa venir meno il senso di convivialità. «Conosco l’obiezione: è l’idea di Messa-banchetto che fa tanto “comunità di base anni Settanta”, dura a morire. Per questo fu coniata l’espressione “Messa di spalle al popolo”. Davvero è pensabile che le spalle al popolo del sacerdote farebbero perdere il senso di comunione? Ma questa, per esser tale, non deve venire prima dall’alto? Davvero il mistero della comunione ecclesiale si risolve nel guardare l’assemblea?», chiosa don Bux.
Gli strani intenti di Bugnini
C’è poi la lezione silenziosa di Benedetto XVI sulla comunione data in bocca e in ginocchio. «Un atteggiamento di riverenza – osserva il teologo pugliese – che rallenta la processione di comunione e rende più consapevoli del gesto. Avendo sempre chiaro che la comunione sulla mano è un gesto permesso da un indulto, cioè un atto dalla durata limitata, che invece è diventato regola». Don Bux aggiunge: «Oggi anche il tabernacolo è diventato “segno di conflitto”. Come non comprendere che se il tabernacolo non è più al centro, non sarà più ritenuto nemmeno il centro?». Da qui la sua proposta ai sacerdoti: uno scambio tabernacolo-sede sacerdotale al centro del presbiterio. «La gente tornerà a credere nel santissimo Sacramento, noi preti guadagneremo in umiltà e al Signore sarà restituito il posto che gli spetta ».
Tornando al Concilio “tradito”, Annibale Bugnini, indiscusso protagonista della riforma liturgica, dichiarava tranquillamente all’Osservatore Romano: «Dobbiamo togliere dalle nostre preghiere cattoliche e dalla liturgia cattolica ogni cosa che possa essere l’ombra di una pietra d’inciampo per i nostri fratelli separati, ossia i protestanti». Anche al di là della sua discussa appartenenza massonica su cui tanto è stato scritto (tra gli altri, dal vaticanista Andrea Tornielli su 30 Giorni), la vera domanda è se un intento come quello riportato sia stato ininfluente rispetto alla situazione in cui oggi versa la liturgia, a quella cioè che Benedetto XVI chiama «deformazione al limite del sopportabile». «Delle sue responsabilità – afferma don Bux – Annibale Bugnini risponderà al Signore. Un aiuto a capire la riforma può arrivare dal libro di Nicola Giampietro che contiene la testimonianza del cardinale Ferdinando Antonelli, autorevole protagonista di quel Consilium deputato a eseguire i documenti della riforma. Antonelli ha scritto cose decisamente forti sul clima che aleggiava in quel Consilium di cui Bugnini era il factotum, nonché sul ruolo di quei sei esperti protestanti che ebbero una funzione molto maggiore di quella di semplici osservatori. Servirebbe certamente pubblicare i diari secretati di Annibale Bugnini. Non foss’altro che per una maggiore comprensione di cosa sia stata davvero la riforma liturgica postconciliare».
Sono rimasti in pochi oramai a negare che in campo liturgico ai documenti ufficiali del Concilio Vaticano II si sia sostituito abusivamente un invasivo “Spirito del Concilio”. Due esempi su tutti: il canto gregoriano e il latino, l’uso dei quali era indicato tra le “consegne” liturgiche più importanti del Concilio. Non si sa bene come, nella prassi, com’è noto, tutto è svanito. «Effettivamente come questo sia successo se lo chiedono in molti», dice a Tempi il teologo don Nicola Bux. «È una pagina ancora da chiarire. I fatti sono questi: Paolo VI costituì il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, con il compito, appunto, di “eseguire” ciò che era nella Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium. Su questa esecuzione è poi accaduto di tutto, perché confrontando la lettera del testo e le applicazioni successive appaiono differenze notevoli. Prendiamo il gregoriano. Al numero 116 della Sacrosanctum Concilium si legge che la Chiesa lo riconosce come “il canto proprio della liturgia romana” e come tale gli riserva “il posto principale”. Ora, “canto proprio” è un’espressione specifica, significa che il gregoriano è tutt’uno con il rito latino. Eliminare il canto proprio è come strappare la pelle di dosso a una persona. È quello che è stato fatto». La ragione accampata è che non lo si saprebbe cantare. «Ma questo è un falso problema», spiega il teologo. «Se pensiamo a quanti mottetti la gente canta, solo perché questi sono stati custoditi e perpetuati: la Salve Regina, il Kyrie… E poi basta davvero che il canto sia in italiano perché la gente canti?».
La stessa Chiesa in tutto il mondo
I biografi concordano che il fascino esercitato dal cattolicesimo su convertiti quali Newman, Benson e Chesterton, fu dovuto anche a quell’universalismo della liturgia latina che ancora oggi gioca un ruolo importante nel persuadere molti anglicani a bussare alla Chiesa di Roma. Ebbene, oltre il gregoriano certi occultamenti hanno riguardato anche il latino. Eppure la Sacrosanctum Concilium al n. 36 prescrive espressamente: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini”. «Tradurre le letture nelle lingue parlate – sostiene don Bux – è stata cosa buona, dobbiamo capirla. Ma il Papa ha aggiunto che “una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: Io sono nella stessa Chiesa”. Almeno alla preghiera eucaristica e alla colletta il latino dovrebbe tornare. Tra l’altro Paolo VI stabilì che i messali nazionali fossero pubblicati sempre bilingui, italiano e latino. Per permettere in ogni momento la celebrazione in latino, poi per tenere allenati i sacerdoti, e infine poiché l’italiano cambia e le traduzioni, spesso vere e proprie interpretazioni, tendono sempre più a tradire. C’era una lettera del Papa che lo prescriveva: non gli hanno obbedito».
La liturgia è sacra se ha le sue regole. E se da un lato l’ethos, cioè la vita morale, è un elemento chiaro per tutti, dall’altro lato si ignora quasi totalmente che esiste anche uno jus divinum, un diritto di Dio a essere adorato. Don Bux: «Si dice: Dio, anche se c’è, con la mia vita non c’entra. Invece Dio c’entra con tutto. “Tutto mi appartiene”, si legge nelle Scritture, anche la vita del regista Monicelli gli apparteneva. Attenzione, perché il Signore è geloso delle sue competenze, e il culto è quanto di più gli è proprio. Invece proprio in campo liturgico siamo di fronte a una deregulation». Per sottolineare quanto senza jus ed ethos il culto diventa necessariamente idolatrico, nel suo recentissimo libro (Come andare a Messa e non perdere la fede, Piemme) don Nicola Bux cita un passo dell’Introduzione allo spirito della liturgia di Joseph Ratzinger. Scrive Ratzinger: «In apparenza tutto è in ordine e presumibilmente anche il rituale procede secondo le prescrizioni. E tuttavia è una caduta nell’idolatria (…), si fa scendere Dio al proprio livello riducendolo a categorie di visibilità e comprensibilità». E ancora: «Si tratta di un culto fatto di propria autorità (…) diventa una festa che la comunità si fa da sé; celebrandola, la comunità non fa che confermare se stessa». Il risultato è irrimediabile: «Dall’adorazione di Dio si passa a un cerchio che gira attorno a se stesso: mangiare, bere, divertirsi». Un effetto domino.
È fondamentale notare – scrive don Bux – che «la caricatura del divino in sembianza bestiale» è un chiaro indice del fatto che «lo stravolgimento del culto trascina con sé l’arte sacra». Difficile non pensare all’architettura di tante chiese moderne. Decadimento che riguarda anche musica e costumi, visto che intorno al vitello d’oro si cantava e danzava in modo profano. Insomma, è tutto legato alla liturgia. Non per nulla nella sua autobiografia (La mia vita, San Paolo) Ratzinger dichiarava solennemente: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia» .
Un gesto di ecumenismo
Facilmente, frequentando la Messa per dieci domeniche in parrocchie diverse, capiterebbe di assistere a dieci differenti liturgie. E se è vero che cattolico significa universale, qualcosa forse non torna. Eppure l’enciclica Ecclesia de Eucharistia era stata chiarissima: «La liturgia non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante, né della comunità». La tesi di don Bux è che in soccorso alla liturgia potrebbe andare quel Motu proprio Summorum Pontificum che nel 2007 ha liberalizzato la forma straordinaria del rito latino. Per il teologo «le due forme del rito possono arricchirsi a vicenda, proprio a partire da questo clima religioso di Mistero, il Sitz im Leben, l’ambiente vitale dove è possibile incontrare Dio». Ma si può già fare un primo bilancio del Motu proprio? Don Bux risponde così: «Una settimana fa ero a Parigi. La Messa che dietro richiesta ho celebrato in forma straordinaria era affollatissima di giovani. Il parroco di Sainte-Clotilde mi diceva che celebra tranquillamente con i due riti, senza alcun problema. La verità è che dovremmo tutti liberarci da questa deleteria contrapposizione tra vecchio e nuovo rito, il nostro amato Papa incoraggia e desidera la continuità. E celebrare sia in forma ordinaria che straordinaria significa mettere in pratica questa continuità della Chiesa. Seguiamolo!».
Non si può nascondere, però, che siano molti a boicottare il Motu proprio. Per tutti, l’ex vescovo di Sora, Luca Brandolini, che alla notizia della liberalizzazione del rito straordinario confidò a Repubblica di aver pianto per quel “giorno di lutto”. Eppure in una prospettiva ecumenica la liberalizzazione della Messa antica è un passo avanti. «Lo ha dimostrato – aggiunge don Bux – il defunto patriarca di Mosca Alessio II, il quale applaudì al Motu proprio con parole chiarissime: “Il Papa ha fatto bene. Tutto ciò che è recupero della tradizione avvicina i cristiani tra loro”».
Secondo il teologo «il movimento di giovani creatosi intorno al rito antico è in forte crescita». Ma nessuno, specie se nato negli anni Settanta-Ottanta, può essere “tradizionalista” in nome della nostalgia per i bei tempi che furono. «Molti giovani domandano una sola cosa: incontrare il sacro. Ecco la ragione del successo della Messa gregoriana. Ignorare questa richiesta, che ha un contorno tutto spirituale e per nulla ideologico (come invece si vorrebbe far credere), è almeno contraddittorio per chi, per definizione, dovrebbe “episcopein”, cioè osservare, scrutare». La situazione è paradossale: «Si era fatto di tutto per rinnovare la liturgia e attirare i giovani, e adesso proprio loro non si sentono attratti. È un fatto che con la forma straordinaria del rito non pochi di loro riescano maggiormente ad adorare il Signore. La liturgia serve per dare al Signore la lode e la giusta adorazione. Una liturgia che non mette al primo posto il Signore è una fiction, e loro se ne accorgono. Quando i sacerdoti recitano la preghiera eucaristica (cioè il momento culminante della Messa, quello del Suo sacrificio per noi) continuando a roteare lo sguardo sul popolo invece che guardare alla Croce dinanzi a loro, diventa allora chiaro che non stanno parlando col Signore, non sono rivolti a Lui. E ciò non è senza conseguenze: i fedeli saranno portati a distrarsi, a scapito della partecipazione».
Ma quali “spalle al popolo”
Sta nascendo un movimento liturgico nuovo che guarda al modo di celebrare di Benedetto XVI. «La cosa di gran lunga più importante che il Papa vuol farci comprendere – dice don Bux – è l’orientamento del sacerdote, del suo sguardo soprattutto. “Là dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento” scrive magnificamente Benedetto XVI, ed è appunto questo il nocciolo della questione: il giusto orientamento». Sembra dunque di essere arrivati a uno snodo rischioso. «“In alto i nostri cuori, sono rivolti al Signore”, lo diciamo ma non lo facciamo. Se il sacerdote guardasse la croce, o il tabernacolo, ci sarebbe per i fedeli un effetto fortissimo. Se proprio dall’offertorio alla comunione il sacerdote non vuol stare rivolto ad Dominum, cioè a Oriente, abbia almeno la Croce al centro dinanzi a sé. Si badi bene, questo sarebbe possibile anche con i nuovi altari, per cui senza tornare a distruggere nulla (abbiamo assistito già alla demolizione dissennata di tanti altari antichi e belli), basterebbe porre sull’altare la croce e voltarsi ad essa. Esattamente come fa Benedetto XVI, che interpone la croce tra sé e i fedeli, una croce ben visibile». In fondo Ratzinger aveva in mente proprio questo quando si rammaricava perché «il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso». Eppure – si obietta – dare le spalle al popolo o anche solo interporre la croce sull’altare fa venir meno il senso di convivialità. «Conosco l’obiezione: è l’idea di Messa-banchetto che fa tanto “comunità di base anni Settanta”, dura a morire. Per questo fu coniata l’espressione “Messa di spalle al popolo”. Davvero è pensabile che le spalle al popolo del sacerdote farebbero perdere il senso di comunione? Ma questa, per esser tale, non deve venire prima dall’alto? Davvero il mistero della comunione ecclesiale si risolve nel guardare l’assemblea?», chiosa don Bux.
Gli strani intenti di Bugnini
C’è poi la lezione silenziosa di Benedetto XVI sulla comunione data in bocca e in ginocchio. «Un atteggiamento di riverenza – osserva il teologo pugliese – che rallenta la processione di comunione e rende più consapevoli del gesto. Avendo sempre chiaro che la comunione sulla mano è un gesto permesso da un indulto, cioè un atto dalla durata limitata, che invece è diventato regola». Don Bux aggiunge: «Oggi anche il tabernacolo è diventato “segno di conflitto”. Come non comprendere che se il tabernacolo non è più al centro, non sarà più ritenuto nemmeno il centro?». Da qui la sua proposta ai sacerdoti: uno scambio tabernacolo-sede sacerdotale al centro del presbiterio. «La gente tornerà a credere nel santissimo Sacramento, noi preti guadagneremo in umiltà e al Signore sarà restituito il posto che gli spetta ».
Tornando al Concilio “tradito”, Annibale Bugnini, indiscusso protagonista della riforma liturgica, dichiarava tranquillamente all’Osservatore Romano: «Dobbiamo togliere dalle nostre preghiere cattoliche e dalla liturgia cattolica ogni cosa che possa essere l’ombra di una pietra d’inciampo per i nostri fratelli separati, ossia i protestanti». Anche al di là della sua discussa appartenenza massonica su cui tanto è stato scritto (tra gli altri, dal vaticanista Andrea Tornielli su 30 Giorni), la vera domanda è se un intento come quello riportato sia stato ininfluente rispetto alla situazione in cui oggi versa la liturgia, a quella cioè che Benedetto XVI chiama «deformazione al limite del sopportabile». «Delle sue responsabilità – afferma don Bux – Annibale Bugnini risponderà al Signore. Un aiuto a capire la riforma può arrivare dal libro di Nicola Giampietro che contiene la testimonianza del cardinale Ferdinando Antonelli, autorevole protagonista di quel Consilium deputato a eseguire i documenti della riforma. Antonelli ha scritto cose decisamente forti sul clima che aleggiava in quel Consilium di cui Bugnini era il factotum, nonché sul ruolo di quei sei esperti protestanti che ebbero una funzione molto maggiore di quella di semplici osservatori. Servirebbe certamente pubblicare i diari secretati di Annibale Bugnini. Non foss’altro che per una maggiore comprensione di cosa sia stata davvero la riforma liturgica postconciliare».
Fonte: settimanale Tempi.it