Abbandonata la presidenza della Cei, Siri concluderà la sua vita cercando di fare della propria diocesi un argine, un luogo di resistenza a quelle innovazioni da lui ritenute ingiuste o inopportune, ma agendo sempre, come mi racconta un vecchio collaboratore di Renovatio, Piero Vassallo, cercando di coniugare “l’intransigentissima verità con la tollerantissima carità”.
Un ricordo semplice del Cardinal Siri, ma bellissimo, uscito sul Foglio di oggi. By Francesco Agnoli.
Il recente convegno organizzato a Genova in suo ricordo, alla presenza del cardinal Angelo Bagnasco, la pubblicazione di alcune sue omelie da parte di un’ editrice cattolica emergente, e in rapida espansione, “Fede & Cultura”, segnano, insieme ad alcune nomine papali strategiche di alcuni suoi discepoli, il ritorno del cardinal Giuseppe Siri e del suo magistero nella vita della Chiesa. Il tempo, dunque, è stato ancora una volta galantuomo: i nuovi teologi francesi, tedeschi, olandesi, osteggiati a lungo, apparentemente senza successo, dal cardinale di Genova, dopo aver imperversato nel post concilio, beandosi della loro “originalità” e “indipendenza”, cadono pian piano nell’oblio, e le loro novità si rivelano sempre più figlie del loro tempo, effimeri tributi allo spirito di un’epoca, incapaci di resistere alla prova della storia.
Chi veniva esaltato, acclamato come voce profetica, che predice e anticipa il futuro, è oggi sempre più dimenticato; chi era considerato un residuo del passato, da dimenticare per sempre, viene oggi pian piano riscoperto. Questo perché Siri fu fedele al motto di cui ogni ministro di Dio, dovrebbe fregiarsi, per evitare di cadere nella vanagloria, nell’orgoglio, nella presunzione: Non nobis Domine, sed Nomini Tuo da gloriam. Questa certezza, che tutto ciò che facciamo dobbiamo giudicarlo come Lui lo avrebbe giudicato, permise a Siri di costruire la sua vita sulla roccia, per affrontare il successo, con equilibrio, quando innegabilmente ci fu, e l’ostracismo, l’incomprensione, l’odio, quando necessario.
Da giovane sacerdote Siri è ben cosciente di quanto il fascismo sia incompatibile con la fede, per la sua concezione hegeliana della storia, per il suo nazionalismo e per il suo “panstatismo”. A 38 anni diviene il più giovane vescovo italiano e durante l’occupazione tedesca è costretto a vivere clandestinamente, sull’appennino ligure, ricercato dai tedeschi. Nell’aprile del 1945 è tra coloro che convincono i tedeschi ad abbandonare Genova senza distruggerla, senza inutili rappresaglie e spargimenti di sangue. Proprio questo suo ruolo, la sua fama di antifascista, le sue grandi opere di carità, gli ottengono una notevole stima e influenza, presso gli ambienti più diversi. Ma la caduta del fascismo non pone certo fine alla storia della lotta tra bene e male, come l’ ideologia vorrebbe far credere. C’è, in agguato, il fascino del comunismo, e Siri si trova a vivere in una città particolarmente influenzabile: reagisce mantenendo ferma la barra dell’anticomunismo, cercando la collaborazione degli imprenditori, attentissimo ad essere, nel contempo, il difensore del suo popolo. Ai suoi sacerdoti chiede povertà, vieta loro, se non in casi particolari, l’uso dell’automobile, e di ogni ostentazione di ricchezza. Vuole sacerdoti che siano poveri, capaci di sacrificio, vicini alla gente, ma anche distinti: i suoi “cappellani del lavoro” non si confondono, né quanto a veste, né ad atteggiamenti, ai preti operai, ma nello stesso tempo partecipano delle ristrettezze e delle urgenze anche materiali del proletariato e degli operai della città. Vive, lui stesso, in povertà, ed accoglie persone in cerca di lavoro, le aiuta, paga bollette a questo e a quello, come un vero padre affettuoso e premuroso.
Amatissimo da Pio XII, che lo vorrebbe a Roma, come Segretario di Stato, fa di tutto per rimanere nella sua Genova. A Roma però va spesso, per il Concilio, perchè chiamato a consulto dai papi, cui non di rado, con umiltà, esprime il proprio parere, trovandosi non di rado in disaccordo, come Paolo con Pietro, con Giovanni XXIII, ad esempio sulle persecuzioni a padre Pio, che non comprende, o con Paolo VI, sulle sue aperture politiche, al centro sinistra, e dottrinali. Il periodo sicuramente più travagliato della sua vita è però quello del Concilio e del post Concilio. Siri è uno dei tanti principi della Chiesa che accolgono con forte contrarietà l’indizione del Concilio: il momento non gli appare opportuno, ed anche l’ottimismo di Giovanni XXIII sui segni dei tempi lo trova perplesso. “Ho capito poco del discorso del papa- scriverà alludendo all’ apertura del concilio-, in quel poco ho subito avuto modo di fare un grande atto di obbedienza mentale”. Siri è inoltre indignato per lo spirito di non pochi padri conciliari, per la verbosità dei documenti, in cui gli sembra che alcune proposizioni possano risultare “incerte”, ambigue; per le “pillole democratiche” ingerite dai padri che vogliono limitare l’autorità papale a vantaggio dell’assemblea; per l’avversione di alcuni alla Tradizione; per tante idee sull’ecumenismo che gli sembrano confinare con l’indifferentismo ed il sincretismo, e per la nuova concezione della “libertà religiosa”, sostituita alla più tradizionale “tolleranza religiosa”.
Scrive: “Se la Chiesa non fosse divina, questo Concilio l’avrebbe seppellita”. Soprattutto Siri segue con particolare apprensione le innovazioni liturgiche, critica aspramente l’operato di Bugnini e Lercaro, lamenta l’accento posto maggiormente sull’idea di Cena, piuttosto che sul Sacrificio, l’eliminazione della centralità del Tabernacolo, la protestantizzazione dei preti e delle cerimonie, la comunione sulla mano (un Dio che non viene ricevuto, accolto, ma “preso”)… Abbandonata la presidenza della Cei, Siri concluderà la sua vita cercando di fare della propria diocesi un argine, un luogo di resistenza a quelle innovazioni da lui ritenute ingiuste o inopportune, ma agendo sempre, come mi racconta un vecchio collaboratore di Renovatio, Piero Vassallo, cercando di coniugare “l’intransigentissima verità con la tollerantissima carità”.
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