* * * 1. C’era una volta un libro, un libro però del tutto speciale: esso aveva il pregio assolutamente unico di fabbricarsi le sue pagine da sé, una dopo l’altra, ogni giorno che passava: ogni giorno, una pagina. Dall’inizio del mondo, con l’aiuto di inchiostro, penna, ago, filo e colla, una sopra l’altra, si venivano a formare le sue pagine con regolarità preziosa: una volta che la penna aveva scritto tutto quel che c’era da scrivere, la nuova pagina si andava a mettere sopra quella del giorno prima e la colla si incaricava di attaccarla per bene, dopo che ago e filo l’avevano cucita al faldone.
Però un giorno le forbici, che stavano in un canto a guardare senza far niente, invidiose della bellezza che veniva fuori da tanta serena maestria, cominciarono ad armeggiare intorno al libro, e, fatta fuori con pochi colpi la pacifica colla, ne tagliarono via tutte le pagine, che volarono al vento, e danzando e ballando su quel che rimaneva tutte felici cominciarono a cantare: “È vero! È vero: per fare un libro ci vuole la colla! Ma non quella lì: siamo noi la colla!”.
Questo è un po’ ciò che successe per una non piccola parte del mondo cattolico quarantacinque anni fa, quando l’apertura del Vaticano II sancì definitivamente la fine di un’epoca: la fine del “Regno della Tradizione”. Oggi la colla viene chiamata “ermeneutica della continuità”, e son molte le forbici che si fanno chiamare colla e ancor di più sono le colle scadenti che si fan passare invece per colle DOC.
A scombinare i giochi, o forse piuttosto a imporsi – per restare all’apologo – come ben capace scopritore della vera colla, quella con tanto di marchio depositato (nelle sacre Scritture) e di origine controllata (del più rigoroso tomismo), ci ha pensato la Casa editrice Lindau, la quale, ripubblicando in contemporanea due libri che molti avrebbero preferito dimenticati, Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX e Stat Veritas. Seguito a «Iota unum», già editi a suo tempo dalla Ricciardi a merito di Raffaele Mattioli e più ancora del figlio Maurizio, con doppia e ben cogitata mossa mette (dovrebbe poter mettere) in scacco progressisti, relativisti, «neoterici» ed «ecumenisti», ossia tutte le tante forbici che si fanno passare per mastici DOC, riportando alla ribalta attenzionale del gran mondo culturale e religioso la personalità straordinaria ma misconosciuta – misconosciuto: ‘vittima di incomprensione e ingratitudine’ – del filosofo cattolico di cui stiamo parlando, Romano Amerio. IL PRIMATO DEL LOGOS SULL’AMORE PER STARE ALLA REALTÀ. 2. Questo tutto speciale umanista del secolo passato è forse l’uomo che potrebbe restituire – o almeno dare un contributo decisivo perché venga restituita – la sospirata continuità ermeneutica, la colla DOC che si diceva, fondata essenzialmente sulla qualità del ragionamento: nel ragionamento si trovano o il paralogismo e il sofisma uscenti dall’intralcio di spurie seconde intenzioni, o la pura teoresi.
È qui che per Amerio si dispone il “metodo della vita”, anzi: il solo metodo possibile della vita, appoggiato com’è alla costituzione metafisica di Dio, all’ordine delle essenze trinitarie: prima essere, poi intelligere (o conoscere) infine amare (o volere).
Amerio parrebbe l’unico filosofo – cattolico o non cattolico, non ha importanza –, ad aver tematizzato al massimo livello, ossia metafisicamente, la necessità, per restare nel vero e da qui nel reale, di compiere qualsiasi pensiero, ragionamento, conoscenza, discussione, su qualsivoglia soggetto, tenendo a pietra d’inciampo, a principio primo, unicamente il logos, il pensiero, cioè la teoresi stessa, e invece ogni cosa estranea (sentimenti, emozioni, preoccupazioni, fossero anche l’amore, l’amicizia, la pace, la libertà, la propria volontà) dietro e sotto, pena la fuoruscita dalla realtà.
Questa metodica innerva, a dir la verità, tutta la storia della teologia e della filosofia cattoliche, ma, per Amerio, solo fino al Vaticano II escluso, anche se non fu mai formulata elicitamente almeno nei termini individuati dal filosofo (che però la vide presente in pensatori come Manzoni e Rosmini nella complementare dottrina dell’ ateoreticità dell’errore); in essa si trova il principio, come Amerio mostrerà nella sua Introduzione alle Osservazioni sulla morale cattolica del Manzoni, che preserva dall’errore ogni campo del pensiero.
Parliamo del logos, ossia del principio formale che sostanzia l’essere umano, e, prima ancora, il sommo Ente che principia tutto il creato: la ragione. Tanto che allorché Amerio parla di «perdita delle essenze», intende «perdita del loro interno logos», cui si dà una diversa, spesso equivoca accezione, e allorché sostiene che la questione posta in Iota è «in primo luogo filosofica» lo fa per via dell’accezione, che è in primo luogo filosofica, del logos (cfr. Iota unum, pp. 385 e 388).
Dunque il logos. Esso è l’assoluto governatore della realtà e il fondamento della potenza conoscitiva dell’uomo. Se si negano al logos il regno universale sulla realtà e il suo specifico ruolo sull’intelletto si nega (p. 314) «il principio medesimo di ogni certezza, cioè la base conoscitiva dell’uomo».
Queste due gravi negazioni, come rilevo nel mio lavoro sul Luganese ( Romano Amerio. Della verità e dell’amore, Marco, 2005), e ora anche nella Postfazione a Iota unum («Tutta la Chiesa in uno iota»), furono ravvisate da Amerio ancora nel ’37 nella metafisica di Cartesio; fu da lì che si sparsero fino a permeare (p. 314) «la mentalità del secolo e lo stesso pensiero cattolico».
La collisione tra Amerio e Vaticano II avviene dunque senza a priori e quasi per forza di cose: Amerio fa degli studi che lo portano del tutto casualmente ad affiggere in Cartesio la «disformazione della divina Monotriade» che detronizza il Logos dal posto che ha nel costitutivo metafisico di Dio per porvi l’amore, e se il Vaticano II non avesse offerto nei suoi documenti e nei suoi effetti le caratteristiche poi rilevate in Iota, che mostrano nei più vari ambiti il Logos spodestato dall’amore, il filosofo non avrebbe avuto alcun motivo di farne oggetto di criticità: la sua critica avrebbe continuato a rimanere circoscritta alla «mentalità del secolo» fuori la Chiesa, con santa pace di tutti.
I due saggi con cui accompagno i due volumi ameriani vogliono assolvere alla funzione di fornire anche al lettore che meno conosce il loro autore le dorsali metafisiche colte dalle loro pagine (e non sempre evidenti), le chiavi per dare la corretta tonalità allo spartito e che sono essenzialmente tre: l’individuazione del principio metafisico su cui si regge il pensiero di Amerio; l’individuazione della convinzione di Amerio della non avvenuta «variazione di essenze» di cui porta in quei libri le più documentate prove; l’individuazione infine del principio metafisico che riconosca quando scatterebbe, se fosse possibile, tale variazione.
La variazione di fondo consiste in un generale sentire, dal concilio in qua, che professa universalmente (fino al Trono più alto) che “sopra di tutto c’è l’amore”. Ma Amerio osservava: «No, non c’è l’amore, perché sopra l’amore c’è un pensiero che afferma: “Sopra di tutto c’è l’amore” e che esclude con la sua affermazione che sopra di tutto ci sia un sentimento impensato». Che non è un jeu de mots, ma l’agnizione da dare al pensiero affinché anche il moto più santo e deiforme, l’amore, non si muti in mera materialità incosciente: se non è pensato, neanche l’amore può esistere; dunque questo è un luogo profondissimo, un’impostazione totalizzante che tiene al largo dall’uomo anche tutto ciò che apparentemente magari gli somiglia (l’amore certo gli somiglia), ma che in verità, se non viene messo al posto giusto, invece lo asservisce, lo disforma dal suo costitutivo essenziale, cioè lo nega e uccide buttandolo, come lo buttano sofismi, paralogismi, sogni, miti e fantasie, fuori del reale.
Porto un esempio: allorché movimenti ecclesiastici vasti come Comunione e Liberazione professano, da don Giussani al cardinale Scola, che «Gesù Cristo è un evento», è «un avvenimento», incorrono nell’errore indicato: levano con un paralogismo il carattere primo del cristianesimo, essere esso una notitia (la Buona Novella, lat. Evangelium), un insegnamento, una verità, spostandolo e snervandolo in un fatto, in un «incontro», dicono, però così defezionando dall’oggetto pensato all’oggetto impensato, ossia senza norma, senza progetto, senza idea, anzi senza l’Idea, uno sciogliersi del cristianesimo «in pura sostanza, senza direzione e senza terminazione» (p. 315).
L’errore (che Amerio affigge a Cartesio) è anticipare il seguente, ma fu perché Gesù solo «aveva parole di vita eterna» che gli Apostoli cercarono il Maestro: «l’incontro con una Persona» c’è, e è vero, ma esso è la fine, e le parole che individuano quella persona e il pensiero che esse inculcano negli Apostoli il principio; sintetizza Amerio: «L’azione umana nasce dalla persuasione della verità» (p. 319).
La propagazione del «ribaltamento delle essenze» nel “progetto culturale” perseguito per l’Italia dai vertici cattolici che hanno nel card. Scola un attore di proscenio, porta il cristianesimo quasi in un pascolo di bestiæ sine ratione che si incontrano in «un avvenimento» senza sapere di incontrarsi: si è nella realtà se si è nell’ intelligenza della realtà. Invertire la verità con l’amore, si desume da Amerio, porta alla morte.
Esempio: se la conoscenza fosse una casa, con i suoi muri di solida ragione, il suo tetto che la protegge dai sofismi, le sue finestre aperte sulle bellezze da scoprire e la sua porta per accedervi lietamente, e venisse invece rovesciata come un guanto da chi dovrebbe abitarla, portando ciò che è fuori dentro e ciò che è dentro fuori, come si potrebbe ritrovarne la porta? come ritrovare l’ingresso della vita? L’uomo, accartocciando la casa, si mette davanti a una realtà irreale, a una realtà in cui è impossibile entrare: senza la casa, che lo educa e lo salva dalle intemperie, l’uomo è perduto per sempre.
Questo, dice Amerio, è ciò che è successo nel mondo a causa dell’insano desiderio che l’uomo ha sempre avuto di fare di se stesso quello che voleva lui e non ciò che gli indicava Dio, in specie quando a tale insano desiderio è riuscito finalmente a dare anche una base metafisica, a cominciare dalle teorie di Cartesio su Dio e sulle “ vérités éternels”, teorie che nei secoli si sono infiltrate prima nella cultura, nella filosofia e nella civiltà del mondo, poi nella teologia e nella liturgia della Chiesa, arrivando a lambire anche le sue Soglie più alte.
Come dico nella Postfazione a Stat Veritas, questo accartocciamento della conoscenza e rovesciamento del sano rapporto che dovrebbe avere la verità con l’amore è un po’ come i quadri di Bacon; essi illustrano perfettamente lo sconvolgimento della verità compiuto dalle passioni: il bel ritratto dell’uomo viene abbruttito e deturpato dal gesto violento di una pennellata scomposta e volutamente fuori natura.
Ristabilire il primato della ragione sull’amore è dunque vitale: la sua negazione porta direttamente a ciò che Amerio chiama «dislocazione della divina Monotriade»: «Alla base del presente smarrimento – e presente ora come vent’anni fa – vi è un attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo, e questo attacco rimanda ultimamente alla costituzione metafisica dell’ente e ultimissimamente alla costituzione metafisica dell’Ente primo, cioè alla divina Monotriade. […] Come nella divina Monotriade l’amore procede dal Verbo, così nell’anima umana il vissuto dal pensato. Se si nega la precessione del pensato dal vissuto, della verità dalla volontà, si tenta una dislocazione della Monotriade» ( Ibidem). E, per non essere frainteso, nella sua penultima conferenza, tenuta per registrazione da chi vi parla nel 1994, precisa: «Separare l’amore, la carità, dalla verità, non è cattolico» (p. 683). LE TRE “ERMENEUTICHE DELLA CONTINUITÀ”
PRESENTI OGGI NELLA CHIESA. 3. Se una casa editrice ha come ultimissima missione scoprire talenti culturali, la Lindau non poteva fare scelta più felice: già la riedizione di questa alta abbinata getta al centro della piazza intellettuale religiosa e non religiosa di oggi sia il nodo del problema da cui è afflitta la Chiesa – come si diceva: la discontinuità – sia la sua più limpida e felice soluzione – la Tradizione –: con Iota unum Amerio, metafisico Brenno, getta sulle bilance mille rigorose e irrefutabili prove del «cangiamento di essenze» tentato (ma, fa capire il Luganese più volte, non riuscito) col Vaticano II, sicché, a oggi, nessuna autorità ufficiale o ufficiosa della Chiesa ha avuto ancora la forza né alzato argomenti per controbattere Amerio, «consapevole – rilevava Sandro Magister al Convegno su Amerio tenuto ad Ancona due anni fa – di non poter sciogliere la logica veritativa di testi così solidi, lasciando che a ciò si esponesse la rumorosa corrente progressista, in verità tutt’ora dominante».
Ma con Iota unum l’Autore getta sulle bilance tremende, come dicevo, anche la soluzione, perché Amerio è uno che gioca con tutte le carte, e ben scoperte, ossia con le essenze giuste, sicché a p. 113 titola l’intero § 53 « Impossibilità di variazione radicale nella Chiesa».
Non solo: dopo un lungo lavoro di compulsione e di ricerca, chi vi parla ha potuto rilevare ciò che a p. 28, dunque proprio all’inizio, viene segnalata (e rimarcata) da Amerio come «la legge stessa della conservazione storica della Chiesa: […] La Chiesa – ecco la legge – non va perduta nel caso non pareggiasse la verità, ma nel caso perdesse la verità», solo nel caso cioè, che la Chiesa perdesse anche un solo iota di Tradizione.
La rottura sarà sempre, per grazia, impossibile a farsi, «in virtù delle due colonne di garanzia, dei due giuramenti: « Non prævalebunt» e « Ego vobiscum sum omnibus diebus». Essi assicurano da parte di Dio non solo che la verità (= la Chiesa) non può uscire dalla Chiesa, ma che neanche possono realizzarsi le condizioni immediate d’uscita, giacché l’inverarsi delle condizioni immediate d’uscita sarebbe già un’uscita; e le condizioni rilevabili da Amerio sono: « abrogare, espungere il dogma con solenni, universali e chiari pronunciamenti teoretici scientemente pensati e formulati come tali dal Trono più alto» (p. 702, § 3 b della Postfazione).
Voglio sottolineare che non è la prima volta che la Chiesa si trova in questi marosi: nel mio saggio ho agio di mostrare tutte le analogie tra le tribolazioni attuali e quelle, p. es., che la Chiesa passò nel Grande scisma d’Occidente: tribolazioni identiche, ma identiche anche le soluzioni da dare.
La mia Postfazione a Iota unum, sintetizzando la tesi del libro, mostra che per Amerio le ermeneutiche sul Vaticano II oggi presenti possono essere ridotte essenzialmente a tre:
– una prima: è l’ ermeneutica sofistica estrema riconducibile alla “scuola di Bologna” (Dossetti, Alberigo, Melloni) e in generale alla “ nouvelle théologie” di Congar, Daniélou, De Lubac, Ranher, Schillebeeckx, von Balthasar ecc.; è ateoretica, ossia viziata da ragionamenti distorti da finalità loro estranee come l’ecumenismo, cioè l’intenzione di avvicinarsi ai protestanti, dunque, come tutti i paralogismi, in errore; essa promuove e spera la rottura delle essenze tra Chiesa precedente e Chiesa seguente il Vaticano II sotto la copertura delle equivocità testuali;
– una seconda: è per Amerio l’ ermeneutica sofistica moderata dei Papi che hanno promosso, attuato e poi seguito il concilio; è anch’essa ateoretica, dunque non è protetta dal dogma: non è vincolante (nessun testo che la concerne è di natura dogmatica, ma, come rileva pure mons. Gherardini, pastorale); si distingue dalla prima, che peraltro la formò e produsse, perché vorrebbe in tutta sincerità dare continuità tra essenze pre e post conciliari cercando di piegare al senso della Tradizione le anfibologie e le equivocità testuali di cui si è detto, pur mantenendo la stessa spuria intenzione ecumenista; tale continuità è reiteratamente asserita, ma non mai dimostrata;
– una terza: è l’ ermeneutica veritativa di tutti i cattolici sospinti (ma solo dopo il Vaticano II) nel cosiddetto “tradizionalismo”; essa è l’unica teoretica e per ciò anche incontrovertibile e, nella misura in cui si appoggia alla Tradizione, dogmatica e vincolante; essa riscontra e denuncia nel Vaticano II il tentativo di rottura, di discontinuità con l’essenza; va aggiunto, peraltro, che – per fede – l’irrealizzabilità di tale tentativo è da tutti i resistenti al concilio (all’infuori dei cosiddetti “sedevacantisti”) assolutamente creduta, oltre che, come rilevo nella Postfazione (§ 3 b, pp. 698 sgg), da Amerio anche solidamente dimostrata, di modo che il Trono più alto e tutta la Chiesa ne possano tornare al più presto a beneficiare.
Riassumendo, la conclusione cui conducono le «prove» prodotte in Iota unum per mantenere l’essenza della Chiesa in se stessa è che una «ermeneutica della continuità», ossia che mostri continuità, tra il pastorale Vaticano II e la dogmatica Tradizione non si può dare sotto alcun rispetto. STAT VERITAS. MENDACIUM FUGIT. 4. In quanto a Stat Veritas, va rilevato che a suo tempo Amerio, dettatomi il testo perché giungesse all’augusto Autore della Tertio Millennium Adveniente sotto forma di lettera attraverso i canali che avevo allora individuato, e avendo visto inutile ogni tentativo in tal senso, accettò la mia proposta di trasformare le sue chiose in libro, come lo vediamo.
Amerio riteneva Stat Veritas più importante persino di Iota unum «per due motivi – mi diceva nei lunghi conversari che portarono anche alla stesura delle sue due conferenze, tenute per registrazione da chi scrive –: primo, perché parla sulle parole pronunciate dal Trono più alto; secondo, perché ne parla raffrontandole alle parole dell’eternità».
« Stat Veritas, mendacium fugit»: idealmente, questa seconda Postfazione fa corpo unico con quella a Iota unum, e la segue. D’altronde anche Stat Veritas segue Iota unum.
In primo luogo bisogna capire il nome: cosa vuol dire “ Stat”, cosa vuol dire “ Veritas”, cosa vuol dire infine “ Seguito a «Iota unum»”. Si scopre così che la Verità di cui parla Amerio non è astratta, come la congetturano oggi anche molti cristiani, ma di un Logos tanto reale che è una Persona, e questo, che come visto è l’intreccio più di tutti oggi bisognoso di chiarimenti, qui viene studiato e illustrato almeno nei suoi aspetti deducibili dalla Rivelazione.
In secondo, la metafisica della Verità di Amerio è trinitaria, dove le tre Persone divine spargono le loro peculiari qualità di essere, di vero, di bello, di bene, in una divina sorridenza; bisogna chiarirlo: tutto il discorso di Amerio sul Magistero (e sulla Lettera Apostolica Tertio Millennio Adveniente da lui qui chiosata) acquista allora un senso ben più articolato e vasto di quanto possa parere a un primo sguardo.
In terzo, l’originale critica con cui il Luganese trafisse lo scetticismo di Cartesio come origine dell’attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo e del presente «smarrimento» permette di stringere la cultura odierna nel ridotto del misoneismo espressivo, e così faccio.
Il suo richiamo infine a una immobilità veritativa trinitariamente vivente (da cui « Stat Veritas»), fissata alla intelligibilità del reale, garantisce il necessario ritorno ad analogare convenientemente la disposizione corretta della Trinità.
Da qui possono venir calibrate e ritarate le sue ultime e più inaspettate parole: « Amice, siste fugam, pone te in centro»: pochi se le attenderebbero da un metafisico puro, dunque da un autore che allora dovrà essere apprezzato, appunto, a causa del chiarimento che voglio mettere a conclusiva luce: il fine di tutta la tensione critica ameriana è l’unità, cioè l’amicizia, come dev’essere: unità con Dio, si intende, e poi, per suo tramite, tra noi, come Amerio stesso precisa in Iota unum, al § 332: «Fonte metafisica della crisi».
Tutto ciò che abbiamo detto permette di capire fondamentalmente una cosa: allorché noi si parla di «metodo della vita» partendo da cose astratte come sono astratte verità, bellezza, unità, ecc., si scopre di parlare di cose in realtà estremamente concrete, reali, essendo queste astrazioni addossate tutte alla Realtà somma, in particolare all’Unigenito di Dio: san Tommaso (in S. Th. I-I, qq. 34-5) e san Bonaventura (in In 1 Sent., d. 31, P. II, a. 1, q. 2) riconoscono in alcune di esse ( Logos, Imago, Splendor) il valore di veri e propri «nomi».
Di questo era profondamente consapevole Romano Amerio: la sua metafisica era, come quella dell’Aquinate, «intensivamente realistica», e tutte le sue preoccupazioni religiose, sciorinate poi in Iota unum e in Stat Veritas, hanno lo spessore di verità che hanno perché toccano di continuo lo spessore del Reale Primo trinitario.
La loro caduta porta in religione al fideismo; in filosofia al pirronismo; in arte al misoneismo; in etica al permissivismo.
Se vogliamo invertire la rotta, perché non ripristinarle? * * * * Docente di Filosofia dell’estetica e direttore del Dipartimento di Estetica
della Associazione Internazionale “Sensus Communis” (Roma), collabora alla cattedra di Filosofia della Conoscenza (sezione Conoscenza estetica) della Università Lateranense.
fonte: |