il Concilio e la crisi della vita devota (2)
Dobbiamo addossare al Vaticano II anche la colpa dell’attuale crisi della devozione, in tutte le sue forme, e in particolare in quella rappresentata dalla pietas privata dei fedeli? A prima vista la cosa non sembrerebbe possibile, dal momento che il Concilio ribadisce la necessità e l’importanza della preghiera personale e propugna il mantenimento delle tradizionali pratiche della devozione cattolica. Del resto, avrebbe forse potuto passarle sotto silenzio?
Ciò risulta, in particolare, dagli articoli 11, 12 e 13 della Sacrosanctum Concilium, la costituzione che ha stabilito i princìpi della riforma della liturgia.Tuttavia i testi conciliari mostrano omissioni e sfumature, non prive di ambiguità, che sembrano voler svalutare l’ importanza di queste forme tradizionali di pietà, inglobandole nella liturgia, contro l’ insegnamento tradizionale del Magistero.
La dottrina tradizionale richiamata da Pio XII nella Mediator Dei
Sappiamo che l’enciclica Mediator Dei di Pio XII, del 20 novembre 1947, dedicata alla sacra liturgia, analizzava a fondo il rapporto tra il culto esterno ed il culto interno, mostrando la necessità del loro intimo equilibrio alla luce del concetto che “l’elemento essenziale del culto deve essere quello interno”, al quale appartiene la pietà privata tipica della vita devota. Se così non fosse, la religione diventerebbe “un formalismo senza fondamento e senza contenuto”.
Il culto interno deve naturalmente attuarsi sempre “in intima congiunzione con il culto esterno”. La Mediator Dei condannava perciò l’errore dei panliturgisti, apparso già in alcune componenti del Movimento Liturgico alla fine degli anni venti del secolo XX, secondo il quale errore a contare era soprattutto la cosiddetta “pietà oggettiva”, quella cioè che si attuava nel culto esterno e pubblico, grazie all’efficacia ex opere operato dei Sacramenti e del Sacrificio dell’altare, a scapito del culto privato o pietà sprezzantemente detta “soggettiva”. Incentrando tutta la pietà cristiana “nel mistero del Corpo Mistico di Cristo, senza nessun riguardo personale e soggettivo”, costoro ritenevano, precisava l’enciclica, “che si debbano trascurare le altre pratiche religiose non strettamente liturgiche e compiute al di fuori del culto pubblico”.
Ai panliturgisti il Papa ricordava che i Sacramenti e il Sacrificio dell’altare, “per avere la debita efficacia esigono le buone disposizioni dell’anima nostra”, tant’è vero che “nessuno può ricevere validamente e tanto meno degnamente e con frutto un Sacramento se non è nelle condizioni necessarie” (Allocuzione ai sacerdoti e predicatori della Quaresima, tenuta il 17.2.1945 a Roma, in La Liturgie, Les Enseignements Pontificaux, Desclée, 1961, pp. 304-306). Non bisogna mai dimenticare, proseguiva, che “l’opera della redenzione, in sé indipendente dalla nostra volontà, richiede l’intimo sforzo dell’anima nostra (internum animi nostri nisum) perché possiamo conseguire l’eterna salvezza”. Questo “intimo sforzo”, al quale il nostro libero arbitrio non può sottrarsi e che la tradizione cattolica ha sempre concepito ed attuato nel giusto equilibrio di ragione, volontà e sentimento religioso, l’enciclica lo illustrava e chiarificava in una pagina esemplare per chiarezza e perspicuità di analisi: “Se la pietà privata e interna dei singoli trascurasse l’augusto Sacrificio dell’altare e i Sacramenti e si sottraesse all’influsso salvifico che emana dal Capo nelle membra, sarebbe senza dubbio riprovevole e sterile; ma quando tutte le previdenze e gli esercizi di pietà non strettamente liturgici (sed cum omnia pietatis consilia et opera, quae cum Sacra Liturgia arcte non coniunguntur) fissano lo sguardo dell’animo sugli atti umani unicamente per indirizzarli al Padre che è nei cieli, per stimolare salutarmene gli uomini alla penitenza e al timor di Dio e, strappatili all’attrattiva del mondo e dei vizi, per condurli felicemente per arduo cammino al vertice della santità, allora sono non soltanto sommamente lodevoli, ma necessari, perché scoprono i pericoli della vita spirituale, ci spronano all’acquisto delle virtù e aumentano il fervore col quale dobbiamo dedicarci tutti al servizio di Gesù Cristo.
La genuina pietà, che l’Angelico chiama “devozione” e che è l’atto principale della virtù della religione col quale gli uomini si ordinano rettamente, si orientano opportunamente verso Dio, e liberamente si dedicano al culto [ST, II-II, q. 82, a. 1], ha bisogno della meditazione delle realtà soprannaturali e delle pratiche spirituali perché si alimenti, stimoli e vigoreggi, e ci animi alla perfezione. Poiché la religione cristiana debitamente praticata richiede soprattutto che la volontà si consacri a Dio e influisca sulle altre facoltà dell’anima. Ma ogni atto di volontà presuppone l’esercizio dell’ intelligenza, e, prima di darsi a Dio per mezzo del sacrificio, è assolutamente necessaria la conoscenza degli argomenti e dei motivi che impongono la religione, come, per esempio, il fine ultimo dell’uomo e la grandezza della divina maestà, il dovere della soggezione al Creatore, i tesori inesauribili dell’amore col quale Egli ci vuole arricchire, la necessità della grazia per giungere alla meta assegnataci, e la via particolare che la divina Provvidenza ci ha preparata unendoci tutti come membra di un Corpo a Gesù Cristo” (Mediator Dei, cit., pp. 30-32).
Il Concilio fa sparire il concetto di “culto interno”
Il Concilio, cosa ha mantenuto di tutto questo? L’articolo 12 della Sacrosanctum Concilium (=SC), pur esprimendosi in termini molto più generici di quelli della Mediator Dei, sembra indubbiamente contenere un forte e tradizionale richiamo alla necessità della preghiera personale.
E tuttavia si cercherebbe invano, nei testi del Concilio, un concetto fondamentale come quello secondo il quale “l’elemento essenziale del culto deve essere quello interno”: at praecipuum divini cultus elementum internum esse debet. Dell’esistenza di un culto esterno ed interno non si parla nemmeno e la nozione di “culto interno” sembra del tutto scomparsa. Non solo. I “distinguo” introdotti nei testi conciliari tendono a svalutare la pietà privata nei confronti della liturgia e a far prevalere la pietà cosiddetta “oggettiva” su quella “soggettiva”, andando quindi proprio nella direzione condannata dalla Mediator Dei.
Cominciamo dall’art. 11 della SC. Esso afferma esser indispensabili “le disposizioni di un animo retto” al fine di ottenere la “piena efficacia” del culto pubblico. Nella nozione di queste “disposizioni” è forse racchiusa quella del culto interno? Lo si può ritenere, pur trattandosi in ogni caso di un riferimento che resta generico, visto che la SC di “culto interno” non parla mai. Tuttavia, si nota, a mio avviso, un’ambiguità di fondo. Secondo l’insegnamento tradizionale, ribadito da Pio XII, nessuno, come si è visto, può ricevere validamente, degnamente e con i dovuti frutti un Sacramento, se non si trova nelle “condizioni necessarie”, condizioni ovviamente costituite ad opera del culto interno, mediante la vita devota. Nel testo della SC si parla, invece, di “piena efficacia” : le “disposizioni di un animo retto”, che vuole “cooperare con la grazia”, non sarebbero condizioni di valida e degna recezione del Sacramento, ma lo sarebbero solo della sua “piena efficacia”.
Non mi sembra che in tal modo la dottrina tradizionale sia qui resa fedelmente. Infatti, un conto è affermare, senza sfumature di sorta, che la disposizione interiore del soggetto è condizione di valida e degna recezione del Sacramento, che solo in tal modo può quindi essere efficace per chi lo riceve; un altro è affermare che è condizione della sua “piena efficacia”. Con la seconda formulazione, si verrebbe di fatto ad ammettere questa interpretazione: che il Sacramento, per esempio l’Eucaristia, è comunque di per sé efficace anche se in modo non pieno e quindi (se ne deve concludere) anche se il credente lo riceve con animo non retto. Si è visto che, secondo la Mediator Dei, i Sacramenti, “per avere la debita efficacia (debitam efficaciam) esigono le buone disposizioni dell’anima nostra (rectae animae nostrae dispositiones)”. La SC, al posto della “debita efficacia”, ci propone la “piena efficacia”. Mi sembra che l’ambiguità nasca proprio dall’uso di questo aggettivo: piena. Il culto interno, anonimamente riproposto nell’art. 13 della SC, risulta pertanto alquanto sminuito rispetto alla concezione tradizionale perché la funzione che ora gli viene attribuita non è più quella di concorrere in modo decisivo all’ efficacia dei Sacramenti, non è più quella di essere “l’elemento precipuo” della Liturgia, senza il quale essa decade a vuoto “formalismo” (vedi sopra), ma è solo quella di contribuire alla “piena efficacia” del culto e quindi dei Sacramenti.
Il culto interno, o ciò che ne resta, sembra perciò ridotto a un semplice ausiliare, utile unicamente per raggiungere la “piena efficacia” dei Sacramenti, i quali manterrebbero comunque un’efficacia, anche se non “piena”, in quanto atti del culto pubblico esterno. Ma come si dovrebbe intendere il concetto di un’efficacia non piena dei Sacramenti? Ad ogni modo, il culto interno viene posto in posizione subordinata rispetto a quello esterno, pubblico; esso viene anzi oscurato in modo sostanziale nella SC, risultando del tutto assente dalla definizione della Liturgia. Per meglio dire: assente dalla sua descrizione, poiché la SC (artt. 6-10) non ha voluto dare una vera definizione della liturgia, semplicemente descritta, invece, tramite immagini nell’insieme tradizionali, nelle quali si sente, però, alitare uno spirito nuovo, quello degli ammodernanti. Nella Mediator Dei, invece, come si è visto, il culto interno era parte integrante della definizione stessa della Liturgia, e quindi del suo concetto, del quale veniva addirittura a costituire “l’elemento precipuo”.
(tratto da Sì Sì No No del 15 febbraio 2009)
fonte:una Fides