domingo, 6 de outubro de 2019

Don Divo Barsotti "Siamo figli dei padri"


mercoledì 25 marzo 2015

Don Divo Barsotti "Siamo figli dei padri" (Una Voce Dicentes, Firenze 2003)

Riprendo da MiL questi contenuti significativi, far da ripetitori ai quali può giovare a molti. Si tratta inoltre di persone con le quali la condivisione delle realtà della nostra fede è sempre stata fruttuosa e ricca di grazie e di due scritti: il primo di don Divo Barsotti - conosciuto attraverso padre Serafino Tognetti incontrato non solo sui testi - e, a seguire, un sapiente excursus di Dante Pastorelli che ne trae spunto.

Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente”. Abbiamo pubblicato quest’affermazione di Gramsci che don Giussani fece propria.
Proponiamo, ora, il pensiero proveniente da un altro ed opposto versante: un breve ma denso articolo del mistico, teologo e pastore don Divo Barsotti tratto dal n. I – 2003 di Una Voce dicentes, periodico fondato e diretto per 11 anni da Dante Pastorelli, che si avvaleva di illustri collaboratori tra i quali mons. Brunero Gherardini, il più assiduo, don Ivo Cisar, mons. Ignacio Carambula, p. Serafino Tognetti, Neri Capponi. L’intervento di don Divo permette a Dante Pastorelli di svolgere alcune riflessioni sulla crisi nella Chiesa, con  particolare attenzione alla Chiesa fiorentina. (Roberto)
Il saluto, l’incoraggiamento ed il severo monito di un patriarca
Siamo Figli dei Padri
don Divo Barsotti, da Una Voce Dicentes, I - 2003

Diversi anni fa potei entrare nella Cina di Mao. Mi fece molta impressione di vedere tanta gente che riempiva le scuole pubbliche; vi era in questi cinesi del popolo un desiderio vivo di conoscere le radici della cultura cinese. La rivoluzione culturale aveva fatto piazza pulita di tutto il passato: il popolo sentiva che mancava un alimento necessario alla sua vita. Si sentivano figli di genitori che erano scomparsi e affollavano le scuole e gli altri istituti perché sentivano così di continuare un passato che credevano scomparso.
Come mai noi che ci sentiamo una popolazione civile, che ci gloriamo della nostra cultura, abbiamo tollerato che sparisse da noi quello che era, in fondo, il fondamento della nostra vita spirituale? Abbiamo bandito tutto quello che ci richiamava ad un passato al quale tuttavia ci sentiamo legati. È stato bandito il latino dalle nostre scuole, bandito più ancora dalle nostre chiese. Rompendo un legame con i Padri, ci sentiamo ora come orfani, ci sembra di avere perduto la nostra identità… Di chi siamo figli? O non siamo figli di alcuno?
Più grave ancora mi sembra avere bandito il latino dalla liturgia. Il latino è stato, dal tempo dei Padri fino ad oggi, quello che maggiormente manifestava l’unità della Chiesa nell’uso di una lingua che ci faceva sentire tutti, prima ancora che figli di una cultura, fratelli di una medesima fede.
È il rimpianto forse di avere perduto la nostra identità, o è la naturale rivolta dei figli nei confronti dei propri genitori? Si vuole una novità, che non sembra avere radici… Mentre si distrugge il patrimonio che ci aveva lasciato il passato, non si costruisce nulla che possa ridarci una vita.
Come era più bello sentire di avere tutti le stesse radici, riconoscere una unità sul piano anche religioso, ci faceva sentire di avere ricevuto una eredità di inestimabile valore, e di averla ora perduta…
Che fare? Il peso di un popolo che non voleva morire al suo passato fece comprendere ai governanti di allora, in Cina, la necessità di cessare con una rivoluzione culturale che sradicava il popolo dalle sue radici. Il popolo italiano – e più gravemente ancora coloro che appartengono alla Chiesa – possono non sentire la necessità di un ritorno a quella cultura che ci ha educato e formato? E i fedeli possono fare a meno di sentirsi tutti una sola famiglia, come figli di un unico Padre?
Il latino ci faceva sentire di essere figli dei Padri, di coloro che hanno dato alla Chiesa con una sola lingua un solo sentimento della loro fedeltà a Dio e alla Chiesa.
Con tutta l’anima anche io sento vivo il rimpianto di quello che abbiamo perduto, e prego perché i governanti, nella Chiesa e nello Stato, possano avvertire quanto ora  manca a questo sentimento di unità che era così vivo quando tutti avevamo una medesima lingua.
Settignano, 10.04.2003

GRAZIE, DON DIVO!

Avrei voluto presentarLa come “profeta”, don Divo: ma questo termine è ormai banalizzato, abusato, privato del suo autentico significato, attribuito com’è a persone che non lo meritano assolutamente, e su cui dovrebbe scender definitivamente l’ombra dell’oblìo, per il male che han fatto alla nostra Santa Chiesa, per la distruzione sistematica della dottrina cattolica, per la lotta aspra ed ingiusta contro l’Autorità cui avrebbero dovuto rispetto e obbedienza.
Giornali cattolici (?) e laici, meglio, laicisti, innaturalmente uniti, non perdon occasione di presentarci Firenze come terra di profeti, facendo tutt’un fascio di tristi personaggi, eretici e scismatici, come don Mazzi e don Rosadoni, di pseudopedagoghi presuntuosi da prender con le molle come don Milani, che almeno, sia pure a modo suo, nella Chiesa volle restare, di altri tumori perforanti il Corpo Mistico, come l’intellettuale scolopio Ernesto Balducci e l’eterno aspirante poeta, che tale restò nonostante l’appoggio consistente delle mafie critico-editoriali, il servita David Maria Turoldo, e figure di ben altro livello morale, e di sicura fede, come La Pira, di cui non vogliamo qui sottolinear la miopia politica, non degna di un “profeta”, di cui ancor Firenze sconta le conseguenze (parcheggi, metropolitana la cui costruzione osteggiò o di cui non volle occuparsi perché Firenze non aveva bisogno dell’impresa privata e perché la città doveva esser goduta all’aria aperta!), bensì l’attaccamento alla cattedra di Pietro, a quella del suo Vescovo e i suoi immensi sogni di pace, come il venerato don Facibeni, la cui opera a favore dei ragazzi disagiati (La Madonnina del Grappa) fu portentosa, come il grande cardinale Elia Dalla Costa, del quale si ricordan sempre gli indubbiamente importanti atteggiamenti antinazisti, e mai il rigore nel difender la disciplina ecclesiastica e l’ortodossìa.
Se L’avessi definita “profeta” avrei dovuto inserirLa in questo mazzo, in mezzo al grano e al loglio. Così qualcuno avrebbe potuto pensar che Lei abbia approvato comportamenti e scritti del Balducci, il quale, nell’Uomo planetario (1990) aveva l’ardire di scrivere: “Chi ancora si professa ateo, o marxista, o laico, e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi. Io non sono che un uomo”. E più avanti, nel suo commento all’incontro “ecumenico” di Assisi (1986): “Siamo così alla resa dei conti. E in questa resa dei conti le religioni sono costrette a rivelarsi per quel che sono: produzioni simboliche di gruppi umani, sistemi ideologici in veste sacra. Timor fecit deos.” Per questo poteva affermare anche: “Nella generale eclissi delle identità il nostro primo dovere è di restare fedeli a quella che abbiamo costruito, con una variante però, che essa va ritenuta non come il tutto ma come un frammento del tutto, di un tutto ancora nascosto nel futuro. Come il vero Dio, così anche il vero uomo è absconditus”. Ed ancora: “È finita l’età dei popoli eletti. È finita anche l’età dei salvatori. Come mi appare vera, oggi, la frase che Nietzsche rivolgeva ai cristiani del suo tempo: “Chi vi salverà dal vostro Salvatore?
Qualcun altro avrebbe potuto pensar che Lei sia della stessa pasta del Turoldo, divorzista notorio, che, nel 1971, nel santuario di Tirano, lui, “servo di Maria” spezzò una corona del Rosario gettandola tra i fedeli urlando: “Basta con queste superstizioni da Medio Evo!”. E, inserendosi nella controversia sui Crocefissi nelle aule scolastiche e nei luoghi pubblici, profeticamente sentenziò: “Ci sia o non ci sia appeso ai muri non cambia niente. Il Crocifisso non vale più niente per il mondo d’oggi; non dice più nulla a questa società. Oggi il Crocifisso per me è Oscar Romero ucciso, è il povero Luther King ucciso, sono i neri del Sud Africa, è Mandela in galera: quelli sono i veri crocifissi!”. Sì, proprio così: un vescovo cattolico, per quanto discusso per certe sue posizioni, assassinato dai nemici della Chiesa, posto sullo stesso piano di un leader politico protestante fin nel nome e di un politico nero, perseguitato sì, ma dalla moralità non cristallina. E tutti innalzati al di sopra di Cristo, in luogo del Quale dovrebbero esser venerati.
Ecco perché, non ho voluto usar per Lei, don Divo, il titolo di “profeta”. Lei è un sacerdote, e non un semplice uomo, ma un uomo modificato nella sua natura dal Sacro Ordine, ed ascolta cristiani, atei, laici a cui offre la parola di Dio. Lei ha una sola Verità, quella assoluta, che è, appunto, la Parola del Signore. Lei non si è costruita una religione, o una religione-ideologia, ma l’ha ricevuta per Rivelazione Divina e dalla Sacra Tradizione. Per Lei la Religione Cattolica è l’unica vera, non un frammento di verità; Dio  - Padre, Figlio e Spirito Santo -  è il tutto, non una scheggia di una divinità nascosta e inconoscibile. Per Lei Dio, tramite l’Unigenito Cristo, si è incarnato, ha rivoluzionato la storia umana ed è una presenza costante fra noi attraverso l’Eucarestia: evidente, reale, innegabile. Lei non lo cercherà nel futuro, questo “tutto absconditus”, Lei lo possiede già, lo impersona nella Sua funzione sacerdotale di “alter Christus”, lo vive nella Sua anima, lo sente accanto ogni momento della Sua vita. Lei sa che è la Chiesa il nuovo popolo eletto, che il Salvatore si immola ogni giorno sacramentalmente per noi nella S. Messa, nel Sacrificio propiziatorio per eccellenza, e lo cerca nel Vangelo, non nel nichilista filosofo (?) amato dal Balducci che ne fa una fonte di verità: da Satana noi dobbiamo salvarci, al Salvatore incatenarci.
Lei è felice d’esser schiavo delle “superstizioni del Medioevo”, se il servaggio è il dolce Rosario di Maria, che Lei non strappa e scaraventa diabolicamente, ma se lo tiene stretto al cuore come àncora di salvezza per sé e per il mondo intero e tanto coraggio, tanta serenità quella benedetta coroncina sa infonderLe che, tracimando, si riversan sugli altri, trasformandoli. Per Lei il Crocifisso ha ancora tanto da dire agli uomini, parole d’amore e di vera libertà e di vera pace, quella libertà e quella pace che nessun Luther King o Mandela può dare, ed infatti non han dato: “Pace che il mondo irride, ma che rapir non può”, come sentenziava il Manzoni, che poeta lo era davvero.
Ed a quel Crocifisso, ed alla Sua Madre dolente, Lei si rivolge anche per i poveri crocifissi del Sud Africa e di tutte le regioni dove l’uomo calpesta il fratello perché calpesta Cristo Crocifisso. Ed a tutti costoro il Suo cuore si apre in un abbraccio senza confini, senza distinzioni, da sacerdote cattolico.
Preferisco, dunque, chiamarLa “patriarca”, per la sua veneranda età che sprigiona reverenza, saggezza, quell’alta sapienza che, sola, viene da Cristo, Verità assoluta; per la Sua esistenza tutta spesa in difesa della vera Fede e nell’opera missionaria e formatrice svolta con la parola, con l’esempio di una vita consacrata cui mai è venuta meno l’assistenza dello Spirito Santo, con i Suoi innumerevoli scritti sui quali han trovato parole di vita eterna migliaia di persone e che traspirano, come l’articolo che ha voluto inviarmi nella Sua infinita disponibilità, una fede che trascende il tempo, che è passato e presente insieme, sostrato razionale ed afflato mistico, concretezza storico-sociale ed ascesi: parola che penetra e lascia il segno, fors’anche una cicatrice negli animi più aridi, una cicatrice che s’allarga e allunga per diventar sentiero su cui incamminarsi per rinvenir l’unguento miracoloso. Fede, Speranza e Carità nella Sua predicazione e nella sua azione si compongono in una sintesi che richiama ed affascina.
Ed anche per questo, don Divo, Lei è “Patriarca”, come Padre vigile e affettuoso, che, ritiratosi a vita claustrale da tempo immemorabile, ha saputo radunar attorno a sé molti giovani, alcuni dei quali a me ben noti e cari, intelligenti, laboriosi, studiosi, moralmente impeccabili, semplici nei modi e dalla grande apertura alla spirituale solidarietà, i quali, postisi sulla Sua sequela, hann’intrapreso la sequela di Cristo e si lascian da Lei guidare come docile gregge, gregge sicuro che il pascolo è ubertoso e il fiume limpido. E da qui sgorgherà fecondità di opere.
Quanti giovani nel Suo Ordine, I Figli di Dio! Nove già sacerdoti, altri lo diventeranno; altri hanno scelto la vita claustrale senza aspirar al sacerdozio; altri ancora, migliaia, uomini e donne, intere famiglie, si sono consacrati nel mondo, nel loro stato, in Italia, in Sry Lanka, in Africa, dove lavorano una terra dura, spinosa e spesso avvelenata, seminando fruttuosamente, le Sue brave suore: e tutti con lo sguardo rivolto a Settignano!
Grazie, “patriarca” Divo, per tutto ciò che ha donato alla Chiesa e all’umanità, ed anche a me, non solo attraverso i Suoi libri, ma anche nel corso del colloquio avuto qualche tempo fa, incentrato sulla crisi della Chiesa, delle vocazioni, della Fede fin nella gerarchia ecclesiastica.
E grazie, infine, perché ci ha donato padre Serafino, il primo, ma spero non l’ultimo, dei Suoi “figli”, che ha voluto imparare, con la mia assistenza, a celebrar la S. Messa di S. Pio V, col Suo consenso, e che già a S. Francesco Poverino ha incontrato un gruppo di fedeli della Chiesa di sempre, sino ad oggi emarginati perché saldamente arroccati alla Tradizione quale si esprime nella S. Messa secondo il Rito Romano Antico, nella quale senton rappresentata tutta la Fede Cattolica, come nel Latino senton il più forte vincolo fra le Chiese locali sparse nel mondo: S. Messa in cui è radicata la nostra Fede che nessuna tempesta può scuotere, nessuna eclissi può oscurare.
Padre Serafino, che oggi mi onora della sua fraterna amicizia, come già padre Bernardo, ha saputo trasmetterci il Suo messaggio, Patriarca, la Sua vicinanza, il Suo incoraggiamento, quale lo ritroviamo nella pagina che ha voluto dedicarci. Ne avevamo bisogno. Da oggi siamo meno soli.
A nome di UNA VOCE, pertanto, a nome dei confratelli di S. Francesco Poverino, La ringrazio ancora, don Divo, nella fiducia che in qualcuna delle Sue preghiere ci sia posto per il nostro piccolo gregge che nel bimillenario ovile ha vissuto, vive e vuol morire. Invocando la Sua paterna benedizione mi dichiaro Suo dev.mo figlio in Xto et Maria.
Dante Pastorelli