"La Chiesa fa l'Eucaristia e l'Eucaristia fa la Chiesa", recita un adagio dell'età patristica sottolineando l'esistenza di un rapporto intimo e reciproco fra il corpo eucaristico e il corpo ecclesiale del Signore. Tuttavia è importante comprendere correttamente qual è la priorità. Come rileva Benedetto XVI "la possibilità per la Chiesa di "fare" l'Eucaristia è tutta radicata nella donazione che Cristo le ha fatto di se stesso" perché "Egli è per l'eternità colui che ci ama per primo" (n. 14). Nell'Eucaristia l'amore di Cristo si incarna più pienamente: proprio il suo corpo e il suo sangue sono dati per noi. Dopo il Vaticano II la riforma, benvenuta e necessaria, della liturgia ha portato con sé molti ricchi frutti. Le Sacre Scritture hanno ritrovato un posto d'onore, per consentire al popolo di Dio di nutrirsi alla mensa della Parola e a quella eucaristica. Inoltre il maggior coinvolgimento dell'intera assemblea nella celebrazione ha portato a un partecipazione più attiva da parte di tutta la comunità, rispondendo all'esortazione del concilio alla participatio actuosa. Tuttavia, anche i più accesi sostenitori dei riti liturgici riformati ammettono l'esistenza di un potenziale "lato oscuro" della riforma. La celebrazione dell'Eucaristia versus populum e la tendenza a evidenziare l'Eucaristia come pasto della comunità può, senza volerlo, mettere in ombra la natura unica di questo posto, reso possibile dal sacrificio di Cristo. È il dono di sé di Cristo che è al centro di questo pasto: "Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo" (Giovanni, 6, 51). "L'Eucaristia è Cristo che si dona", scrive Benedetto XVI e in latino è ancora più efficace: Christus se nobis tradens ("Cristo si dona per noi"). La sottolineatura della dimensione collettiva della liturgia, di per sé indiscutibilmente valida, rischia di trasformarsi in un'autocelebrazione della comunità. Questo rischio diviene più elevato in una cultura terapeutica, nella quale cioè l'emozione superficiale spesso viene assunta come criterio di autenticità. Il risultato può essere un corpo "decapitato", una comunità privata del capo. Del resto la necessità di evidenziare il primato di Cristo quale capo del corpo e fonte della sua vita, non è emersa solo dopo il Vaticano II. Molto tempo prima, il teologo gesuita, più tardi cardinale, Henri de Lubac, scrisse nella Méditation sur l'Église: "Di certo non c'è confusione fra il capo e le membra. I cristiani non sono il corpo né fisico né eucaristico di Cristo, e la sposa non è lo sposo". C'è un'unione intima in un'irriducibile distinzione. Cristo, il capo, non è mai privo del suo corpo, che è la Chiesa, e la Chiesa non può prosperare se non nell'unione donatrice di vita con il suo capo. È quindi essenziale coltivare nella spiritualità un senso vivo della presenza reale di Cristo, che è resa pienamente dall'Eucaristia, ma va accompagnata da altre esperienze della presenza di Cristo. I cristiani orientali, ad esempio, hanno promosso la pratica della "preghiera di Gesù", spesso sincronizzata con il proprio respiro. La tradizione benedettina cerca invece di riconoscere la presenza di Cristo nell'ospite. In altri casi il recupero dell'adorazione del Santissimo Sacramento ha aiutato molte persone a riscoprire la presenza viva del Signore fra i membri del suo popolo. L'Eucaristia diviene quindi una scuola della presenza del Signore, che ci insegna a percepirne la presenza in ogni aspetto della vita. Il sacerdote che celebra l'Eucaristia dovrebbe cercare di essere anche il mistagogo della comunità, per condurre la comunità a una comprensione profonda della presenza salvifica di Cristo. Un aspetto cruciale di questa mistagogia è l'inserimento di momenti di profondo silenzio nella celebrazione eucaristica, utili per meglio assaporare la presenza di Cristo nella Parola e nel sacramento. In un mondo in cui sembra prevalere troppo spesso l'assenza di significato e di speranza, i cristiani, formati nell'Eucaristia, possono essere testimoni di una presenza reale, sia nel culto del Cristo risorto sia nel proprio servizio verso quanti soffrono per cause materiali e spirituali. La loro esperienza di Cristo nell'Eucaristia li spingerà a cantare con Bernardo di Chiarvalle: Jesu dulcis memoria, dans ver cordis gaudia/sed super mel et omnia, ejus dulcis praesentia!
Da l'Osservatore romano odierno