sexta-feira, 14 de outubro de 2011

La barzelletta della "ermeneutica della continuità", mai dimostrata...


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Don Piero Cantoni...


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Di Marco Bongi...

Il mio precedente intervento, da qualcuno definito "graffiante", intendeva, in un certo senso, commentare la recensione del prof. Introvigne al recente volume pubblicato da don Piero Cantoni a proposito del cosiddetto "anticonciliarismo" di mons. Brunero Gherardini.
Ma non è cosa saggia recensire una recensione senza curarsi di leggere preventivamente il testo di cui si tratta. Così mi sono affrettato ad acquistarlo ed ora, nei limiti delle competenze di un semplice fedele, mi accingo a formulare alcune brevi considerazioni.
Devo ammettere che l'autore si è molto impegnato ed alcune sue considerazioni, seppur non nuove, denotano comunque un autentico e sincero desiderio di servire la Chiesa.
Si tratta, senza dubbio, di convinzioni maturate nei decenni e frutto di un travaglio spirituale che merita rispetto, così come, d'altro canto,  forse ancor di più, per l'autorevolezza e la veneranda età del professore, ne meriterebbero le posizioni espresse dal Gherardini.  .
In verità, leggendo l'introduzione al volume, ero quasi tentato di non proseguire allorchè mi imbattei in espressioni come la seguente:

"Essa (la tradizione) deve continuamente scoprire e riscoprire, che il messaggio, se muta nelle forme, non tradisce ma trasmette sempre la Verità viva e profonda che è Cristo. Questo è il vero discorso da fare" (pag. 8). 

Non c'è che dire; un bell'esempio di "declamazione", gherardinamente parlando, non seguita da alcuna dimostrazione.

Ma il volume di don Cantoni, grazie a Dio, non si ferma quì. I tentativi di dimostrazione vengono più avanti e vanno, come dicevo, apprezzati per lo sforzo compiuto e per il metodo, tendenzialmente analitico, con cui sono presentate le posizioni contestate e le relative risposte.
Ma, prima di entrare nel merito, il primo capitolo è dedicato ad elencare i documenti magisteriali che, secondo Cantoni, avrebbero anticipato il famoso discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana del 22 dicembre 2005. Egli sostiene in proposito, portando in verità non moltissimi testi a favore di questa tesi, che la cosiddetta "ermeneutica della continuità" sarebbe stata sempre abbracciata dal Magistero Pontificio, a partire dai primi anni dopo la chiusura del Concilio Vaticano II.
Da semplice fedele però mi chiedo, sinceramente e senza ironia di sorta: ammesso e non concesso che così sia stato... perchè l'Autorità ha lasciato poi impunemente sviluppare tutte le interpretazioni diverse, su questioni tra l'altro così centrali in materia di Fede, senza mai intervenire, per quarant'anni, sul piano disciplinare e canonico?
Come è possibile, in altre parole, che le cosiddette "ermeneutiche della rottura" abbiano potuto divenire maggioritarie e quasi unanimi fra teologi, Vescovi e clero, senza che non sia mai giunta un'azione concreta di condanna, una scomunica, una "sospensione a divinis", un ritiro del mandato di insegnare nelle Università Pontifice, se non, assurdamente, per quei tradizionalisti che esprimevano pubblicamente proprio tale timore?  
Come si fa a non ammettere che proprio questa crisi tremenda dell'Autorità nella Chiesa, si sviluppa dopo il Concilio e proprio rifacendosi al "Discorso di Apertura" di Giovanni XXIII dove si ripudiano apertamente le condanne sostituendole con la "medicina della misericordia?".  
Che significato può avere allora un Magistero, disperso per altro tra migliaia di documenti interpretabili, più o meno rettamente, in senso opposto, quando tale Magistero risulta completamente scisso dal "munus regendi", dal governo concreto della Chiesa, un mero "flatus vocis" che non ascolta nessuno?

Subito dopo il testo passa a presentare la figura di mons. Brunero Gherardini, elencandone alcune opere e le linee generali della biografia. Ne emergono, ben presto, gli interrogativi espressi, specialmente in questi ultimi anni, circa il rapporto fra i documenti emanati dal Concilio Vaticano II e la perenne Tradizione della Chiesa.
Cantoni ovviamente non evita la spinosa questione della "ragionevolezza" della Fede e, di conseguenza, delle interpretazioni dei testi che la concernono:

"Non voglio dire che non abbia senso indagare in che modo un asserto del Magistero non contraddica la Tradizione o la Scrittura. Questo anzi è uno dei compiti principali del teologo e dell'apologeta. Non bisogna però confondere l'argomento  chiarificatore dell'apologeta con il motivo soprannaturale dell'atto di Fede. Non credo perchè ho dimostrato che è credibile ma perchè ho accolto la Grazia della Fede che viene, ultimamente, non dal ragionamento teologico e apologetico, ma dall'ascolto della predicazione della Chiesa che mi propone la parola della Scrittura, mi dice qual'è e che cos'è e la interpreta..." (pag. 24). 

L'affermazione, di per sè fondata, lascia però francamente perplessi quando viene inserita in un contesto come quello in cui si enunciano le perplessità di un esimio studioso a proposito della continuità o meno di alcuni documenti rispetto alla Tradizione.
L'autore sembra quasi ammettere implicitamente l'indimostrabilità razionale di tale continuità per rifugiarsi in un presunto irrazionalismo della Grazia santificante. risultato? E' inutile cercar di dimostrare l'indimostrabile. Bisogna solo ascoltare, obbedire e... turarsi il naso!  
http://nullapossiamocontrolaverita.blogspot.com/2011/10/la-barzelletta-della-ermeneutica-della.html