quarta-feira, 30 de dezembro de 2009

l’omelia del Card. Siri per la Messa Crismale del 1986.


Quell’anno Giovanni Paolo II nella Lettera ai Sacerdoti per il Giovedì Santo ricordò il secondo centenario della sua nascita: San Giovanni Maria Vianney, il Curato d'Ars.

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S. Messa Crismale – Giovedì Santo 1986

Siamo qui legati dalla carità fraterna che edifica tutto quello che va edificato e che distrugge tutto quello che va distrutto (e Dio voglia sia così!).

Le parole che io debbo rivolgervi hanno un tema obbligato. Il Sommo Pontefice per questo giorno, e per la celebrazione di questo giorno, ha diretto ai sacerdoti di tutto il mondo una lettera in dodici capitoli. È impossibile leggere questo documento durante una sola azione liturgica ed è impossibile anche darne un resoconto completo. Pertanto mi debbo rimettere alla lettura che ciascuno di voi, confratelli, ne farà. Ma io debbo dire quello che costituisce un certo commento rispettoso e possibilmente fedele, una introduzione ad una lettura che possa essere esatta e benefica.

Questa lettera è tutta condotta sul filo della vita di un santo, il Patrono dei Parroci: S Giovanni Maria Vianney, il Curato d'Ars. Ora questo essere condotta tutta sul filo della vita di un santo a noi rinverdisce un punto della dottrina cattolica: i Santi! Pare che il vento che soffia dal deserto abbia un po' investito anche i Santi e li abbia alquanto velati! Questa enciclica toglie il velo e richiama anzitutto alla comunione che noi dobbiamo avere con i Santi, l'esempio che dobbiamo permettere ci venga da essi. I Santi debbono fare maggiore comparsa nelle nostre chiese e non in maniera disordinata e persine goffa, no, ma inquadrati nella architettura in modo decente e rispettoso. Siamo richiamati al culto dei Santi da questa lettera, perché tutto quello che vien detto è più o meno tolto dall'esempio di S. Giovanni Maria Vianney. È questa la prima cosa che dobbiamo osservare.

Ma percorrendo la sostanza dell'apostolato di questo meraviglioso Parroco, umile Parroco, che non cessa di incantare il mondo con il suo esempio di povertà, di semplicità e di assoluta dedizione, costatiamo che tutto poggiava su due elementi: la Confessione e la Comunione. Si calcola che duecentomila persone passassero ogni anno ad Ars per avere un colloquio - che generalmente era una Confessione - con il Santo Curato d'Ars. Il richiamo a tutte le cose che sono state dette ed insegnate malamente negli ultimi decenni e che hanno trovato una certa rispondenza - davvero galeotta! - è quanto mai opportuno. D'altra parte confessare non è un divertimento: è una grande fatica. Ma noi dobbiamo amare la fatica nel nostro ministero; se non la amiamo, vuol dire che non siamo a posto, vuol dire che mancano cose gravi nella struttura della nostra vita, vuol dire che c'è da riformare qualcosa, forse anche grave. La crisi del Sacramento della Penitenza non è tanto una crisi intellettuale; è una crisi morale. La crisi che fa respingere quello che costa. E tutti noi sappiamo benissimo che esercitarci nel Sacramento della Penitenza costa; ma se non sappiamo fare questo, con che faccia andremo al tribunale di Dio? Dico, con che faccia, perché ci andremo! E dovremo rispondere di questa immensa capacità che Egli ha messo nelle nostre mani e che da taluni di noi è gettata nel solaio, come una vecchia suola. E’ questo che deve essere detto! È l'amore alla fatica che deve essere rivendicato!

Ma richiama anche il Sacramento della Eucaristia. Il Sacramento della Eucaristia va difeso dalla consuetudine. È una cosa che a parlarne bene si resta meravigliati e colpiti, ma l'avervi a che fare tutti i giorni, dover dir Messa tutti i giorni... quanto sonno, quanta indifferenza, quanta mancanza di fede, quanta presentazione anemica della fede del sacerdote! Il punto è questo: dobbiamo difendere l'Eucaristia dalla nostra abitudine, perché “ab assuetis, non fit passio”. Qui ci vuole una guerra aperta. È il Signore! Davanti al Signore noi cadiamo nella nostra situazione di creature e di figli. E non c'è adorazione sufficiente e non ci sono annessi e connessi nella celebrazione eucaristica che possono essere umiliati, come invece dovremmo essere umiliati noi, e non i nostri vestiti! Tutto quello che riguarda l'Eucaristia deve essere splendido, perché deve essere un fondo della nostra fede e deve essere un animatore della nostra fede. Attenti! La natura umana può farci addormentare anche in pieno giorno; e questo accade! Poco o tanto accade nella maggior parte di noi. Vi prego di non offendervi, cari confratelli! Ma io sono qui per dir la verità, e so benissimo che se non la dico, devo rispondere al tribunale di Dio. Ecco: la guerra contro l'abitudine, che può ridurre tutto il nostro ministero ad un sofferto, trascinato dovere fatto con il tono di chi non ne può più. Risvegliamo tutto quello che è in noi, tutto quello che abbiamo, tutto quello che possiamo trarre dal di dentro di noi stessi. Dove c'è il Signore - e ci sono anche tutti gli Angeli del Cielo! - noi non possiamo fare la brutta figura di chi agisce macchinalmente; è qui il punto! Perché quando la fede è profonda, si vedono le opere, si vede l'insieme, si vede la premura, la tenerezza che dobbiamo avere verso l'Eucaristia!

Ma, fatto questo, il Papa, prendendo lo spunto dall'insieme della figura del Santo Curato d'Ars, parla della identità del Sacerdote. E qui c'è da fare il discorso più grave; perché, cari confratelli, non crediamo che l'identità sacerdotale nasca solo dall'interno e possa stare nascosta all'interno. No! La identità sacerdotale è una cosa relativa e deve essere chiara per gli altri, per tutto il popolo; e su questo punto ci sono osservazioni ben gravi da fare. La identità sacerdotale - certo - è fatta di fede e, quando è languida l'identità, vuol dire che è languida la fede: è questo il punto! Ci sono delle ragioni umane? Ma che cosa valgono di fronte ad una ragione di fede? La identità sacerdotale - ricordiamolo! - comincia dal nostro vestito. Che cosa ne abbiamo fatto, ne stiamo facendo del nostro vestito? Per me il discorso non avrebbe nessun valore: c'è il vestito che comincia a dimostrare la fede. Il dovere verso il popolo, il quale, con tanti scandali che si incrociano per terra, per mare, per aria, in tutti i modi, ha bisogno di una testimonianza che sia franca, forte, coraggiosa, fine, del nostro sentimento, fatto soltanto con il nostro dovere, con la nostra realtà davanti a Dio. Non dimentichiamoci che noi condizioniamo - e direi quasi che qui manca la parola -, noi condizioniamo la presenza di Cristo nelle Specie eucaristiche, perché se manca la nostra intenzione non si celebra la Messa. Si può cantare, suonare, far funzioni e pontificali e tutto il resto che volete, ma se manca la intenzione non si consacra, no c'è il sacrificio; c'è niente! Siamo noi che teniamo l'Eucaristia in mano - suprema degnazione di Dio data al nostro Sacerdozio! - e ci lasciamo cogliere da ragioni umane per umiliarLo così? Ricordiamo bene che c'è l'impero del rispetto umano. Troppe cose si fanno oggi per rispetto umano: si toglie questo, si toglie quest'altro, perché? Si ha paura che qualcuno dica. Dove è questo qualcuno? C'è il popolo che ci vuol vedere nell'onore e nella dignità del nostro Sacerdozio; e lo calcolate niente il popolo? Aspettano da noi il coraggio di manifestare in tutti i modi, dal vestito, al gesto, al contegno, al ritegno, alla discrezione, alla umiltà: attendono tutti di vedere in noi il mistero di Dio e il ministero di quelle cose che Egli, con tanta generosità, ha messo nelle nostre mani. Dobbiamo andare tutti al tribunale di Dio, cari confratelli! E questo, secondo la nostra età, arriverà prima o poi; non lo sfuggiamo. Ma che cosa diremo al tribunale di Dio, se abbiamo avuto vergogna di essere quello che Dio ci ha fatti? La nostra vita deve essere come i ceri (che sono diventati troppo pochi, troppo pochi!). Il cero consuma la materia per alimentare la fiamma. Ma noi siamo dei ceri che consumano la materia e tutto quello che è umano, tutto quello che è comodo, tutto quello che è secolarizzato, per alimentare la fiamma? Di questo risponderemo in altra sede: cioè al tribunale di Dio. La identità sacerdotale comincia dall'esterno. Pare strano! Naturalmente se non c'è l'identità sentita all'interno, l'esterno non manifesta niente. Ma non stiamo a fare tanti discorsi! Siamo ministri di Dio; questo sia chiaro davanti al mondo, e nessuno di noi si nasconda.

Il discorso meriterebbe una lunghezza che non è sopportabile dal tempo che io posso ragionevolmente impiegare in questa sacra sinassi, ma voi capite: credo che le mie parole siano state abbastanza forti per avvertirvi di quello che può succedere se certe cose non si interrompono a tempo. Guardo lontano e capisco che potrebbero arrivare tempi peggiori di quelli che abbiamo passato. Attenti! Riprendere in mano la fierezza dei martiri: quelli sono gli esempi da seguire! Abbiamo oscurato troppo i Santi per lasciare il campo a delle figure vanesie, a dei fantasmi, come appare in tante opere dette moderne, delle quali nessuno capisce niente. E naturalmente ricava niente! L'identità sacerdotale pone un limite alla nostra linea, pone un limite al nostro sembiante, pone un limite al nostro stile e ci riveste invece di uno stile di umiltà, di serenità, di dignità quale è quello che deve fare il commento continuo alle grandi cose di Dio, al Sacramento del perdono, al Sacramento dell'amore, che è l'Eucaristia, e a tutto quello che Dio ha messo nelle nostre mani. Dalle parole sacre, alla capacità di benedire, alla capacità di agire sui demoni - con le debite forme - tutto deve dare l'immagine del sacerdote.

Cari confratelli, faremo ora una promessa, si leggerà un atto che riconferma tutto questo. Vi chiedo di farlo con serietà. Non si tratta di leggere una formula: quella non importa. Si tratta di avere nell'animo la volontà decisa a mantenere quello che qui davanti all'altare promettiamo al Signore. Così sia!

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