sábado, 2 de julho de 2011

Segni dei tempi: i preti giovani scelgono la tradizione

Dopo l’intervista di padre Vincenzo Nuara, torniamo sul convegno dello scorso ottobre sul motu proprio Summorum Pontificum con l’articolo di Fabrizio Cannone, sempre tratto da Radici Cristiane.
Dal 16 al 18 ottobre 2009, sotto il titolo di Un grande dono per tutta la Chiesa, si è celebrato a Roma, a pochi passi dal Vaticano, il “II Convegno sul Motu proprio Summorum Pontificum di S.S. Benedetto XVI”. La riuscita di questo importante evento è innegabile. Siamo sicuri che, nelle riflessioni sull’attualità dell’immortale liturgia latina, esso lascerà un segno indelebile.
di Fabrizio Cannone
Organizzato dall’Amicizia Sacerdotale Summorum Pontificum e dal gruppo laicale Giovani e Tradizione, il convegno è stato presie­duto dall’animatore nonché fondatore dei due men­zionati organismi: il domenicano Padre Vincenzo Nuara.
Il primo giorno, detto di pre-convegno, è stato in realtà una sorta di breve ritiro spirituale per il clero e i seminaristi (con la recita del Rosario in comune, l’Adorazione Eucaristica, i Vespri e la Benedizione), e ha visto la partecipazione di quasi cento chierici.
Dopo il canto del Veni Creator nella cappella del­la Casa Bonus Pastor, sede dei lavori, e dopo l’intro­duzione di padre Nuara, il momento forte si è avuto con la conferenza di SE. mons. Athanasius Schneider, vescovo ausiliare in Kazakhstan. Il tema era ri­preso dal titolo di un ben noto testo di dom Columba Marmion, Cristo, ideale del sacerdote.
II cambiamento dei “segni dei tempi”
II giorno seguente, sabato 17 ottobre, si è aperto il Convegno vero e proprio. La grande presenza di gio­vani sacerdoti e seminaristi, religiosi e religiose, mol­ti dei quali neppure trentenni, è stata una prova elo­quente di quanto gli attuali “segni dei tempi” vada­no sempre più nel senso di un ritorno alle radici del­la fede, della dottrina e della spiritualità cristiana.
Dopo la Santa Messa nella forma straordinaria, co­munemente detta Messa di san Pio V, celebrata da S E. mons. Schneider, il presidente del Convegno ha fat­to una relazione introduttiva. In essa, il domenicano ha detto che dalla promulgazione del Motu proprio che si stava per commemorare, la vita di molti dei pre­senti è cambiata. Ed è cambiata radicalmente e per sempre.
Secondo Padre Nuara, chi disse due anni fa che il documento pontificio sarebbe presto finito del dimenticatoio sbagliò gravemente, e il successo del con­vegno ne sarebbe una prova lampante. Se, come si espresse Benedetto XVI introducendo un testo di mons. Klaus Gamber, la “crisi di fede” è dovuta al “crollo della liturgia”, il Motu proprio è una risposta effica­ce sia all’una che all’altra: esso è il vero segno dei tem­pi nella Chiesa d’oggi.
Lamentando una situazione difficile in ordine al­l’applicazione del testo pontificio, il padre ha però ri­chiamato il valore ascetico della sofferenza per una giusta causa: proprio dalle pene patite nel silenzio e nell’abbandono dai sacerdoti e dai fedeli legati tota corde al rito tradizionale, verrà l’inizio della (vera) riforma della Chiesa.
Tempi di crisi liturgica
La seconda conferenza è stata curata da mons. Schneider, più una meditazione profonda e articola­ta che una lezione di taglio professorale-scientifico. «Nessuno può negare il fatto che la Chiesa di oggi stia soffrendo una grave crisi liturgica», ha detto il ve­scovo, entrando subito in medias res.
D tema affrontato era quello della “sacralità e bel­lezza della Liturgia nei Santi Padri”. Secondo il pre­lato, il culto di Dio deve essere consapevole della san­tità divina e questa nozione fondante e imprescindi­bile è presente fin dai testi liturgici più antichi che ci vengono dalla Tradizione. Tra i tanti riferimenti pos­sibili, sono stati citati brani dell’Antico Testamento, dell’Apocalisse, di Papa san Clemente I, della Passio­ne delle martiri Perpetua e Felicita, di Tertulliano e di san Giovanni Crisostomo, detto Dottore Eucaristico. In tutti la liturgia si configura come un’opera ange­lica, teocentrica, assolutamente sacrale e anagogica, tutta impregnata di orientamento sovrannaturale.
In pratica, l’esatto opposto di ciò che la moda li­turgica prevalente, intrisa di valori umanistici e intramondani, ci vorrebbe imporre già da vari decenni. Il simbolismo e la gestualità sono fondamentali per una retta comprensione del mistero celebrato: secondo il prelato dunque nulla, assolutamente nulla, dovrebbe essere lasciato al caso, all’improvvisazione e all’arbitrio umano.
Con toccanti parole poi, sua Ec­cellenza ha detto che la cosa più preziosa dell’intero universo è il corpo e il sangue di Cristo, presen­ti sull’altare del sacrificio e nel Ta­bernacolo: il rispetto ad essi do­vuto è dunque conseguenza di tale consapevolezza di fede.
Notava infine mons. Schnei­der che sia il Concilio di Tren­to sia il Vaticano n parlano di una liturgia in conformità coi “santi Padri”, dunque tale con­formità desiderata dalla Chie­sa deve al più presto tornare a esprimersi con atteggiamenti conso­ni alla ri-presentazione del Sacrificio della Croce. In conclusione, ha citato un bel testo eucaristico di san Pietro Giuliano Eymard.
La romanità, quintessenza della cattolicità
La relazione seguente è stata affidata al prof. Ro­berto de Mattei, e aveva l’impegnativo titolo di “Cat­tolicità e Romanità della Chiesa nell’ora presente”. Lo storico romano ha presentato una sintesi estremamen­te convincente, e in più passaggi toccante, del signi­ficato di Roma e della romanità all’interno della vi­sione cattolica del mondo. Arduo appare sintetizzar­la in poche battute.
In ogni caso, la caratteristica della romanitas, non è una nota aggiuntiva e di secondario valore per de­finire la vera Chiesa di Dio. A ben vedere, anzi, essa appare la quintessenza della cattolicità, ed esprime in modo netto e distinto, quasi plastico, sia la fede nel­la Provvidenza divina (che attraverso il beato Pietro scelse Roma quale sede del suo Regno in terra), sia l’ancoraggio storico culturale e liturgico della nostra fede su quella dei nostri predecessori, anzitutto i Som­mi Pontefici Romani.
Non è un caso infatti che i nemici della Chiesa sia­no anche, necessariamente, nemici della (vera) roma nità. Troppo forte è il legame tra diritto canonico e diritto romano, tra lingua latina e culto cristiano, tra primato (storico-politico) della Roma antica e Primato (giuridico e dottrinale) della Sede Petrina perché questa inimicizia sia elusa.     La modernità, inaugurata dall’anti-romanesimo luterano, registra due fenomeni speculari e convergenti: da un lato vuole “purificare” il cristianesimo dalla romanità, come vorranno tutte le sette protestanti, il giansenismo, e poi il modernismo e il neo-modernismo; dall’altro si esalta Roma, per farne una sorta di idolo in funzione anti-cattolica: si pensi qui a Féderico, a Machiavelli, al ghibellinismo, ai giacobini e al nazionalismo laico otto-novecentesco. Se vogliamo dunque essere cattolici integrali dobbiamo essere i primi assertori di quel principio meta-storico «onde Cristo è Romano» (Dante), e in tal sen­so la liturgia latina tradizionale appare il miglior modo per preservare, nella temperie odierna del relativismo e del pluralismo, la latinità e la romanità, l’universa­lità e la stabilità, lafides e lo ius, lapietos e la veri-tas della santa Chiesa di Roma.
Altri interventi
Nella medesima mattinata vi sono state anche due brevi ma importanti comunicazioni dovute una al Vice Presidente della Pontificia Commissione dei Beni Cul­turali della Chiesa e di Archeologia Sacra, dom Michael John Zielinski e l’altra a mons. Valentino Mi-serachs Grau, Presidente del Pontificio Istituto di Musica Sacra.
Entrambi gli interventi hanno inteso significare l’importanza per l’Arte sacra e per la musica di Chie­sa del legame colla tradizione liturgica latina e gre­goriana: i due presuli hanno quindi criticato molte del­le recenti evoluzioni artistiche o musicali, che occul­tano quella sacralità così necessaria al culto cristiano e alla spiritualità dei fedeli.
Dopo il pranzo, v’è stato l’inatteso intervento di mons. Guido Pozzo, nuovo Segretario della Commis­sione Ecclesia Dei. Il presule ha ribadito l’importan­za della liturgia tradizionale per la continuità dottri­nale cattolica e ha notato che, nonostante le difficol­tà esistenti, l’applicazione del Motuproprio che si sta­va commemorando deve continuare a estendersi.
Molto attesa era la relazione seguente, tenuta da padre Stefano M. Manelli, figlio spirituale di Padre Pio e fondatore dei Francescani dell’Immacolata, una delle più giovani e promettenti famiglie della “rifor­ma francescana”.
Il sacerdote ha parlato del rapporto inscuidibile tra la vita religiosa, che lui vive in prima persona da ol­tre mezzo secolo, e la liturgia. La decadenza liturgi­ca attuale, più volte segnalata da Benedetto XVI, ha influito certamente sul calo delle vocazioni sacerdo­tali e religiose, e anche sulla più grave desacralizza­zione di monasteri, conventi e istituti un tempo fio­renti.
La decisione dei Francescani dell’Immacolata di tornare alla Messa e all’ufficio liturgico tradizionale sta dando frutti preziosi, sia in quantità di vocazioni, sia in un innalzamento della vita spirituale nelle loro comunità maschili e femminili.
Secondo padre Manelli, a norma del Motu proprio, sono in particolare i religiosi che debbono riprende­re gli antichi usi liturgici e ascetici: così essi forme­ranno quelle sante oasi di cui tutti i fedeli avvertono sempre più il bisogno.
L’ultimo a parlare è stato il noto teologo mons. Brunero Gherardini, recente autore di un importante mes­sa a punto sul valore (e i limiti) dei documenti con­ciliari. Dopo aver detto che il Motuproprio si confi­gura come una “sanatio”, ha illustrato da par suo il vero senso della Tradizione, all’insegna della conti­nuità dogmatica e magisteriale.
Con acume e profondità teologica, ha saputo mo­strare l’opposizione tra la Tradizione vivente, intesa in senso cattolico, e cioè la virtualità infinita del ma­gistero di fissare “nuovi” dogmi, già facenti parte del­la Divina Rivelazione, e la “tradizione vivente” del modernismo, che usa questa espressione per confor­mare il dogma e la dottrina alle variazioni pressoché infinite del fragile pensiero umano.
La Messa in S. Pietro e il saluto del Papa
D seguente 18 ottobre i convegnisti hanno avuto la grazia di partecipare alla Santa Messa pontificale nel cuore della Chiesa, cioè nella Basilica di San Pie­tro, n celebrante è stato S.E. mons. Raymond Burke, Prefetto della Segnatura Apostolica.
Giova ricordare che alla Messa conclusiva, come del resto già al convegno, erano presenti membri di tutti gli Istituti che usano del messale antico: dalla Fra­ternità san Pietro all’Istituto di Cristo Re, dai France­scani dell’Immacolata all’Istituto del Buon Pastore, oltre a figure ben note come mons. Camille Perl.
L’unità della “famiglia cattolica tradizionale”, pur tra tante difficoltà, non è il minor successo dell’ini­ziativa – destinata a ripetersi e ad ampliarsi – di pa­dre Vincenzo Nuara. All’Angelus dello stesso gior­no il Santo Padre ha salutato i partecipanti al Conve­gno, dando così per il fatto stesso un appoggio signi­ficativo a iniziative di tal genere.
da Radici Cristiane n. 50, dicembre 2009

http://www.introiboadaltaredei.info/2010/03/30/segni-dei-tempi-i-preti-giovani-scelgono-la-tradizione/

OTRA CONTRIBUCIÓN PRECIOSA A LA HISTORIA DE LA REFORMA LITÚRGICA



Pablo VI y los observadores protestantes del Consilium: Rev. Jasper, Dr. Shepherd, Prof. George, pastor Kenneth, Rev. Brand y el Hno. Max Thurian de Taizé

La Escritura y la reforma litúrgica
Utilizar las traducciones para introducir errores teológicos fue una táctica usada con premeditación por los promotores de la transformación revolucionaria de la Liturgia. Así se afirma con toda claridad en una entrevista concedida por el canónigo Andrea Rose (A.R.) a Stefano Wailliez, (S.W.) con vistas a la elaboración de un estudio histórico sobre la reforma litúrgica. Rose fue teólogo y liturgista, participando como consultor del Consilium ad exequendam constitutionem de sacra liturgia, la comisión cuyo secretario fue mons. Bugnini y a la cual se le encargó el cometido de poner por obra la constitución sobre la liturgia del concilio Vaticano II.
 
S. W.: Mons. Bugnini explica en sus memorias que, cuando no llegaba a obtener esta o aquella formulación en el texto oficial, decía: “Se acomodará esto en las traducciones”. ¿Oyó usted decir eso a su alrededor?
A. R.: Pues claro que sí; eso lo decían en Roma. Dom Dumas trabajó mucho en tal sentido. Era muy progresista. También él decía: “Esto se acomodará en las traducciones”. Abogó mucho por la libertad de las versiones. Llegó a las últimas consecuencias en todo esto”.

También se cuestiona en la misma entrevista otro de los grandes mitos de la reforma litúrgica: el presunto enriquecimiento de la liturgia por obra de la incorporación más abundante de la Palabra de Dios (la “mesa” de la Palabra). Una incorporación que, como hemos visto con solo un ejemplo, se ha efectuado con criterios sesgados y prejuicios ideológicos.

S. W.: Mons. Gamber dice, a propósito de los ciclos de las lecturas de la misa, que “se veía a las claras que la nueva organización era obra de exegetas, no de liturgistas”. Dado que figu­raba usted en ese grupo de trabajo, ¿qué opina al respecto?
A. R.: Los exegetas se las echaban de amos, igual que los judaizantes. Los primeros cristia­nos, en cambio, usaron las versiones griegas de los textos. No se preocuparon de la “veritas hebraica”. ¿Acaso había que esperar al siglo XX para descubrir por fin cómo proceder? ¡Y me ha­bla usted de la gran tradición! ¿Qué sentido tiene la pastoral cuando los exegetas imperan so­bre los liturgistas? De hecho, Bugnini y los exegetas querían transformar la primera parte de la misa en un curso de exegesis”.



¡Cuántas ánimas dejan de ir a la gloria y van al infierno por la negligencia de ellos!
“¿Y qué aprovecha al hombre ganar todo el mundo, si pierde su alma?”. Estas palabras sugeridas repetida y oportunamente por San Ignacio de Loyola al joven San Francisco Javier provocaron su conversión y cambio de vida. Probablemente de haberlas escuchado en nuestra aggiornata versión hubiera preferido continuar con sus estudios y su brillante carrera en París. Claro, que también me pregunto que hubiera hecho en nuestra Iglesia ecuménica y posconciliar alguien que, como el santo de Navarra, clamaba en sus cartas en términos como éstos:

Muchas veces me vienen pensamientos de ir a los estudios de esas partes, dando voces como hombre que ha perdido el juicio, y principalmente a la universidad de París, diciendo en Sorbona a los que tiene más letras que voluntad para disponerse a fructificar con ellas: ¡cuántas ánimas dejan de ir a la gloria y van al infierno por la negligencia de ellos! […] Estuve cuasi tentado de escribir a la universidad de París, cuántos mil millares de gentiles se harían cristianos, si hubiese operarios, para que fuesen solícitos de buscar y favorecer las personas que no buscan sus propios intereses, sino los de Jesucristo… Muchas veces me acaesce tener cansados los brazos de bautizar, y no poder hablar de tantas veces decir el Credo y los mandamientos en su lengua de ellos” (A sus compañeros de Roma, 20 de enero 1548).

DE:http://www.religionenlibertad.com/articulo_imprimir.asp?idarticulo=10132


Se trata de la entrevista concedida por el canónigo Andrea Rose (fallecido poco ha, por desgracia) a Stefano Wailliez, con vistas a la elaboración de un estudio histórico sobre la reforma litúrgica.
Canónigo titular de la catedral de Namur (Bélgica), Andrea Rose fue teólogo y liturgista. Se cuentan entre sus obras, allende multitud de artículos sobre el oficio divino y las lectu­ras bíblicas, los libros “Salmos y plegaria cristiana” (Brujas, 1965) y “Los salmos, voz de Cristo y voz de la Iglesia” (París, 1981). La idea principal de estos escritos suyos es que el Antiguo Testamento (salmos inclusive) debe interpretarse a la luz del Nuevo y de los escrito de los Padres. Esto es lo que hace la Iglesia en su liturgia. El canónigo Rose fue asimismo consultor del Consilium ad exequendam constitutionem de sacra liturgia, la comisión cuyo secretario fue mons. Bugnini y a la cual se le encargó el cometido de poner por obra la cons­titución sobre la liturgia del concilio Vaticano II. Cuando al Consilium le sucedió la Sagra­da Congregación para el Culto Divino, al canónigo Rose lo nombraron consultor del nuevo orga­nismo. Su papel en la revisión de la liturgia lo desempeñó principalmente en el ámbito del Oficio Divino, pero alcanzó también el de las lecturas bíblicas, las oraciones y los prefa­cios de la santa misa. Ofrece aquí su testimonio a título de coautor de la reforma litúrgica del rito latino.
La entrevista, que se publica ahora por vez primera (al menos en Italia), constituye un testimonio preciosos por varios conceptos:
1) El canónigo Rose es un testigo directo, uno de los últimos testigos directos, de los trabajos del Consilium al que encargó Pablo VI llevara a efecto la constitución conciliar sobre la sagrada liturgia.
2) Es un testigo prudente, que se niega a pronunciarse, como se verá, sobre cuanto no le consta con seguridad (p. ej., la filiación masónica de Bugnini, la contribución efectiva de los “observadores” protestantes).
3) No es lo que se dice un “lefebvriano” o un “tradicionalista”, antes al contrario, no echa de ver todas las razones que asisten a dicha resistencia católica, y tiene asimismo ideas ine­xactas sobre ella, como lo evidencia la última parte del diálogo (esto debería bastar para po­ner su testimonio a reparo de cualquier prejuicio); pero posee el “sentido de la tradición” en la medida suficiente como para comprender que la denominada reforma litúrgica fue en realidad una “catástrofe”, de la cual es menester salir.
4) Su testimonio, en lo que mira a la orientación del Consilium, concuerda perfectamente con el que dejó el card. Ferdinando Antonelli en sus memorias personales (cf. Sì Sì No No, 30 de noviembre de 1999, pp. 3 ss.; edic. italiana), y, tocante a la persona de Bugnini en particu­lar, coincide a la perfección con el juicio que dio de éste, a su tiempo, el abate dom Alfonso Pietro Salvini, O. S. B. (Divagazioni di una lunga vita [Errabundeos de una larga vida] Livorno: ed. Stella del Mare; cf. el número correspondiente a la edición italiana de sí si no no del 31 de octubre de 1991, p. 3: La danza de los hotentotes), así como con otros testimo­nios (cf. Sì Sì No No, 15 de sept. de 1992, p. 6: Meminisse iuvat; ed. italiana).
N. B. Se puede consultar La riforma liturgica (La Reforma Litúrgica) de Aníbal Bugnini para más informaciones sobre el canónigo A. Rose. La traducción y los subtítulos de la entrevista son de nuestra redacción.
¡Bugnini!
S. Wailliez: En tanto que consultor del Consilium, figuró usted en los Coetus (grupos de tra­bajo) nn. 3, 4, 6, 9, 11, 18 bis, 21 bis. Cuando se leen las memorias de mons. Bugnini se tie­ne la impresión de que se trataba de una máquina complejísima: había casi treinta grupos de trabajo.
A. Rose: Sí, era una máquina muy compleja.
S. W.: Pero entonces, ¿cuál era la fuerza motriz que la impulsaba?
A. R.: ¡Bugnini!
S. W.: Se ha hablado mucho de mons. Bugnini, pero debía de haber otras corrientes, otras tendencias en el Consilium. ¿O es que realmente Bugnini campaba por él como amo y señor?
A. R.: Lo que yo sé, en todo caso, es que mons. Martimort no estaba muy de acuerdo con él. Me lo criticaba continuamente en cuanto volvía la espalda. Me decía, p. ej.: “¡Este Bugnini hace todo lo que le da la gana!”. Él (Martimort) era mucho más competente que aquél. Un día me dijo: “¡Lo que sabe Bugnini! Se ve que sus profesores de secundaria no perdieron el tiempo con él...”. He aquí lo que pensaba Martimort sobre Bugnini. Al principio yo creía que exageraba, pero luego me di cuenta de que tenía razón. Bugnini carecía de profundidad de pensamiento. Fue grave nom­brar a un veleta como él en el puesto que desempeñaba. ¡Que la gestión de la liturgia estu­viera en manos de un hombre semejante, de un superficial...!
S. W.: Le he formulado esta pregunta sobre mons. Bugnini porque, por otro lado, se sabe también el papel que desempeñó Pablo VI, quien seguía en persona el desarrollo de los trabajos.
A. R. Es verdad. Pero Bugnini siempre estaba con él dándole explicaciones. Un día estaba yo con el padre Dumas en la plaza de San Pedro (era al principio, cuando los problemas aun no se habían agravado mucho). Nos encontramos con Bugnini, quien nos señaló las ventanas de los apo­sentos de Pablo VI diciendo: “¡Rueguen, rueguen para que conservemos este Papa!”. Lo decía porque manipulaba a Pablo VI: iba a informarle, pero le contaba las cosas a su sabor. Luego volvía diciendo: “El Santo Padre desea esto, el Santo Padre desea aquello”; pero era él quien, por debajo de cuerda...
S. W.: Se dice de mons. Bugnini que era masón. ¿Qué piensa usted?
A. R.: Sería menester probarlo, evidentemente.
S. W.: ¿Le parece que tenía estilo masónico?
A. R.: No, no. Ya se lo he dicho: carecía de profundidad.
S. W.: ¿No tenía ninguna?
A. R.: Escribió después libros enteros para justificar su reforma, pero... cuando llegaba yo a Roma e iba a saludar a Martimort, éste me contaba todos los manejos de Bugnini para lograr que se aprobara todo lo que quería. El padre Martimort era otro hombre. Tenía otra cultura. Y cri­ticaba la manera de obrar de Bugnini.

La liturgia de las horas: un ritual a la carta

S. W.: Cuando se examina la nueva liturgia de las horas -visto que usted trabajó en su elabo­ración-, se queda uno sorprendido de las múltiples posibilidades de elección: se pueden tomar salmos distintos de los indicados, otros himnos, omitir las antífonas, añadir silencios, lectu­ras, etc.; todo “por justas razones pastorales”, lo que significa que cada uno puede hacer lo que le plazca. ¿Cómo reaccionó usted cuando se propuso este ritual a la carta?
A. R.: Nosotros pusimos sólo lo que era oficial. Pero luego se agregó “vel alios cantus, vel alios psalmos”, etc. De habernos opuesto, se nos habría tachado de integristas.
S. W.: ¿No plantea problemas eclesiológicos tan gran flexibilidad?
A. R.: Sí, por cierto. Si todo el mundo puede confeccionarse su propio ritual, ¿se puede se­guir hablando de oración oficial de la Iglesia? Salta a los ojos que la eclesialidad es lo que se pone en peligro con el nuevo ritual flexible.
S. W.: ¿Se originaban luchas en los distintos coetus a que usted pertenecía a propósito de dichas posibilidades múltiples de elección?
A. R.: Sí, y Martimort era más bien contrario. Pero Bugnini, que lo manipulaba todo, se mostraba favorable. [...]

Las lecturas de la Misa y el “retorno a la gran Tradición”

S. W. Por lo que toca a las lecturas de las misas, estaba usted en el coetus 4. Se tenía en mente enriquecer los ciclos de las lecturas. ¿Qué piensa usted de la reforma que se verifi­có en tal punto?
A. R.: [...] lo que se hizo se habría podido realizar de manera más inteligente. Por ejemplo, es de deplorar la supresión de las cuatro témporas. Precisamente en esos tiempos se verificaban de tres a cinco lecturas antes del evangelio. ¡Pero se tuvo que abolir justamente las cuatro témporas! Tales días son, por añadidura, algo antiquísimo, que había conservado el carácter semanal primitivo de la liturgia: miércoles, viernes y la gran víspera (del domingo). ¡Todo tirado por la borda!
S. W.: ¿Dónde está en todo eso el retorno a la gran tradición?
A. R.: Constituye una incoherencia, como es obvio. Algunos abogaban en el Consilium por el retorno a la gran tradición cuando les convenía. Francamente, estoy de acuerdo con que se hagan algunas pequeñas reformas, pero lo que se llevó a cabo fue abiertamente radical.
S. W.: Mons. Gamber dice, a propósito de los ciclos de las lecturas de la misa, que “se veía a las claras que la nueva organización era obra de exegetas, no de liturgistas”. Dado que figu­raba usted en ese grupo de trabajo, ¿qué opina al respecto?
A. R.: Los exegetas se las echaban de amos, igual que los judaizantes. Los primeros cristia­nos, en cambio, usaron las versiones griegas de los textos. No se preocuparon de la “veritas hebraica”. ¿Acaso había que esperar al siglo XX para descubrir por fin cómo proceder? ¡Y me ha­bla usted de la gran tradición! ¿Qué sentido tiene la pastoral cuando los exegetas imperan so­bre los liturgistas? De hecho, Bugnini y los exegetas querían transformar la primera parte de la misa en un curso de exegesis.

El Ordinario de la Misa: el Ofertorio “cepillado”

S. W.: Tocante al ordinario de la misa: no estaba usted en el grupo de trabajo interesado, pero ¿diría usted que también aquí se pecó de radicalidad?
A. R.: ¡Ah, sí! Los que se ocupaban de la misa fueron mucho más radicales con ella que noso­tros con el oficio. Mire, se pasó el cepillo sobre el ofertorio. Dom Capelle no quería ni oír hablar de él. Decía que en él “se habla como si el sacrificio ya se hubiera consumado. Se corre el riesgo de creer que todo ha terminado ya”. No se daba cuenta de que todas las liturgias pre­sentan tal anticipación. En el ofertorio se coloca uno ya en la perspectiva de la consumación.
S. W.: ¿No se daba ahí una falta de perspectiva finalista?
A. R.: Sí. Y así se llegó a suprimir todo, todo lo que era plegaria de ofertorio, porque, se­gún se decía, el sacrificio venía después. Pero eran ésas opiniones espirituales harto raciona­listas, en fin de cuentas. ¡Es elemental!
S. W.: ¿Ha conocido usted alguna vez, a lo largo de su experiencia pastoral, a fieles que crean que las sagradas oblatas se consagran en el ofertorio? Es decir: ¿ha constatado usted concretamente los daños que recalcaba Dom Capelle?
A. R.: Pues claro que no, de ninguna manera: ¡jamás! Y además, mire lo que se hace en los ritos orientales: es lo mismo. Sería interesante cotejar todo eso.

La multiplicación del Canon

S. W.: Otro punto importante del ordinario de la misa es la desaparición del canon romano. Subsiste más o menos en la plegaria nº 1, pero ésta no es ya la única plegaria eucarística, por lo que, hablando con propiedad, el canon ha desaparecido.
A. R.: Sí además de la supresión del ofertorio se multiplican las preces eucarísticas, como dice usted. Mire la oración nº 2: no puede estar más adulterada. ¡Y aún les parecía poco! Fue por eso por lo que dije “no”, lo que me valió que me pusieran de patitas en la calle. Pero ésa es otra historia.

La excusa de las traducciones

S. W.: También está el asunto de las traducciones para los países francófonos, sobre el cual se ha pronunciado usted varias veces.
A. R.: Sí, es un problema enorme. El padre Gy no quiere que se le aborde: les deparó la oca­sión de introducir todo lo que querían.
S. W.: Mons. Bugnini explica en sus memorias que, cuando no llegaba a obtener esta o aquella formulación en el texto oficial, decía: “Se acomodará esto en las traducciones”. ¿Oyó usted de­cir eso a su alrededor?
A. R.: Pues claro que sí; eso lo decían en Roma. Dom Dumas trabajó mucho en tal sentido. Era
muy progresista. También él decía: “Esto se acomodará en las traducciones”. Abogó mucho por la libertad de las versiones. Llegó a las últimas consecuencias en todo esto.
S. W.: En la versión francesa oficial del Credo figura la locución “de la misma naturaleza que el Padre”, en vez de la voz “consubstantialis” (consubstancial). ¿No está eso en el límite del arrianismo?
A. R.: Ah, sí; es evidente...
S. W.: En Francia se libraron batallas épicas en las iglesias, durante la misa, por la cues­tión de la expresión “de la misma naturaleza”.
A. R.: Sí, sí, estoy al tanto. Pero los obispos aprueban tal versión. La aprueban. No quieren que se la cambie. No fueron ellos los que hicieron eso, sino la comisión; pero no quieren que se desapruebe a ésta.

Los observadores protestantes

S. W.: Se ha hablado mucho de los observadores protestantes. Se han escrito muchas cosas so­bre ellos. Lo que me interesa son los hechos. ¿Vio usted a dichos observadores durante algunas sesiones?
A. R.: Sí, ciertamente. Estaban allí, a un lado, sentados a una mesa. No decían nada. Que hablaban con la gente a la entrada es evidente: no podían dejar de hacerlo. Pero, dado que nunca tomaban la palabra públicamente, ¿ejercieron una influencia real en ciertas cosas? Sería menester un hecho concreto para afirmarlo.
S. W.: En un primer tiempo sólo le he preguntado por su presencia. Dicho esto, en un artículo de Notitiae, nº 23, y en un testimonio de Jasper, observador anglicano, se habla del hecho de que los observadores no participaban en las sesiones de trabajo, pero mantenían reuniones sis­temáticamente con los relatores, los presidentes de los grupos.
A. R.: No se sabía nada de ello. Iban juntos a alguna parte, eso era inevitable, pero no se anunciaba oficialmente. A nosotros no nos ponían al corriente al respecto. Es cuando menos ex­traño, pero fíjese en que no había ningún “ortodoxo” entre los observadores... Los “ortodoxos” desconfiaban ya de antes, conociendo el carácter revolucionario de muchos católicos. No les gustaba. En el fondo, se percataban bien de la verdad de las cosas.

La creatividad

S. W.: Ha dicho de mons. Bugnini que era un combinador [en italiano en el texto; nota de la
Redacción]. ¿Podría ser más preciso?
A. R.: Me miraba mal porque no hacía todo lo que él quería ni aceptaba toda su creatividad.
S. W.: A usted lo expulsaron porque se negó a aprobar se permitiera a las conferencias epis­copales componer preces eucarísticas propias. Aludió usted a ello hace un momento. ¿Conque la ruptura se verificó por una cuestión de creatividad?
A. R.: Sí. Redacté un informe contrario y, como consecuencia, las conferencias episcopales se quedaron sin ese permiso. Entonces mons. Bugnini se dijo: “Ese hombre es peligroso”.
S. W.: [...] A propósito de la creatividad: siempre se la ha visto practicar, sobre todo en el campo del arte. Los estilos del arte sagrado han evolucionado mucho con el tiempo.
A. R.: No soy contrario a la creatividad por principio. Pero debe arraigarse en una tradición. Cuando no lo hace en ninguna se inventa cualquier cosa.

 La desaparición del diablo

S. W.: Se desempeñó usted como miembro del grupo 18 bis, que se ocupó de las oraciones del misal. Dom Hala, de Solesmes, explica en el Habeamus Gratiam que, en las colectas, “se cambió el vocabulario por razones pastorales”, y aduce como ejemplo: “las palabras ‘diabolus’ y ‘dia­bolicus’ han desaparecido por completo del nuevo misal”.
A. R.: No creían ya en el diablo; por lo menos algunos. Pero las cabezas dirigentes se pusie­ron de acuerdo para que no se notasen mucho tales cambios. Dichas supresiones no se mencionaron en los criterios de revisión. Pero está claro que algunos del Consilium no creían ya en el diablo.

La maldita incompetencia de los obispos

S. W.: Cuando se habla del Consilium, se piensa siempre en los consultores, en los expertos: el padre Gy, mons. Martimort, dom Botte, dom Vagaggini, Jungman... Casi se olvidan los miembros en sentido estricto, los obispos, los únicos que tenían derecho de voto. ¿Cómo se lo explica?
A. R.: Los obispos que tenían sus sesiones en el Consilium no eran nada del otro mundo. Sólo dos me dejaron cierto recuerdo: mons. Isnard, de Nuevo Friburgo (Brasil), y mons. Jenny, de Cambrai. Los expertos, en cambio, eran competentísimos. Su orientación es harina de otro cos­tal... pero eran competentes. Eran ellos quienes hacían el trabajo...
S. W.: Entre los obispos miembros del Consilium figuraba el célebre mons. Boudon, presidente de la Comisión Litúrgica de la Conferencia Episcopal Francesa. ¿Era un incompetente?
A. R.: Recuerdo que estaba allí, pero no me dejó un recuerdo indeleble. El padre Gy lo lle­vaba por donde quería. El intelecto agente de mons. Boudon era el padre Gy.

Los cambios de opinión de Pablo VI

S. W.: A partir de 1971-1972, pareció bastante claro que Pablo VI comenzaba a darse cuenta de que algunas cosas no marchaban bien.
A. R.: Tendría uno que haber sido ciego para no verlo... Fue por eso por lo que se acabó quitando de en medio a Bugnini también, y por cierto que muy brutalmente. Pero no se tocó nada de lo que había hecho mal. No se osó revisar lo que se había promulgado.
S. W.: Parece que se delinea en la actualidad un movimiento precisamente en tal sentido. Se habla cada vez más de “liberalización del misal tridentino”, y ahora es el cardenal Sodano, Secretario de Estado, quien ha hecho suya la idea de una reforma de la reforma.
A. R.: ¡Bravo! Hay que salir de esta situación lo antes posible. Se impone revisarlo todo. Pero ¿dónde se hallarán los “competentes”? Sería menester que no remitiesen personas como las causantes de la catástrofe que hemos sufrido.
S. W.: ¿Hay que sentar a todas las partes en torno a la mesa?
A. R.: A todas las personas serias, deseosas de trabajar por la Iglesia.
S. W.: Cuando se habla de liturgia tradicional, no cabe duda de que se piensa en mons. Lefebvre y en la Hermandad San Pío X que él fundó. ¿Hay que invitar a ésta también?
A. R.: ¡Claro que sí! Hay que hablar con esas personas. A veces tienen opiniones fijistas y no siempre comprenden que se necesitaban algunos arreglos, sobre todo en las lecturas de la misa o en el breviario. Pero hay que hablar con ellas. ¡No se puede escuchar a todos, sobre todo a los protestantes, y no invitar a las discusiones a la gente de mons. Lefebvre! A cambio, también ellos deberían tomar la iniciativa de ir a ver a quienes tienen el sentido de la tradición aunque no siempre compartan sus opiniones. Deben esforzarse por salir de su concha. Hay que poner los problemas en el tapete honestamente.
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¡VUELTOS HACIA EL SEÑOR! MONSEÑOR KLAUS GAMBER Fundador del Instituto Litúrgico de Ratisbona

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   Nota relativa a las llamadas: Un número, a la derecha de un vocablo y entre corchetes [], indica una referencia bibliográfica, que se podrá encontrar al final de la obra.
   Un número a manera de exponente a la derecha de un vocablo, corresponde a notas a pie de página de la edición original.
   Uno o mas asteriscos, corresponden a notas del traductor.
   A la edición francesa
   Después de habernos entregado una edición francesa de "Die Reform der Rómischen Liturgie", los monjes de Barroux publican ahora en francés una segunda obra del gran liturgista alemán Maus Gamber, "Zum Herrn hin", sobre la orientación de la Iglesia y del Altar. Los argumentos históricos aportados por el autor, se fundamentan en un profundo estudio de las fuentes, que él mismo efectuó; concuerdan con los resultados de grandes sabios, como F. J. Dólger, J. Braun, J. A. Jungmann, Erik Peterson, Cyrille Vogel, el Rev. Padre Bouyer, por citar tan sólo algunos nombres eminentes. 
   Pero lo que da importancia a este libro es sobre todo el substrato teológico, puesto al día por estos sabios investigadores. La orientación de la oración común a sacerdotes y fieles (cuya forma simbólica era generalmente en dirección al este, es decir, al sol que se eleva), era concebida como una mirada hacia el Señor, hacia el verdadero sol. Hay en la liturgia una anticipación de su regreso; sacerdotes y fieles van a su encuentro. Esta orientación de la oración expresa el carácter teocéntrico de la liturgia; obedece a la monición: "Volvámonos hacia el Señor". 
   Esta llamada se dirige a todos nosotros, y muestra, por encima de su aspecto litúrgico, cómo hace falta que toda la Iglesia viva y actúe para corresponder al mensaje del Señor.
Roma 18 de noviembre de 1992
Joseph Cardenal Ratzinger  

PRÓLOGO

La edificación de las iglesias y la oración hacia el Oriente

"Tenemos un altar, del que no pueden comer los que sirven en el tabernáculo" 
Heb. 13,10). 
   El altar se refiere siempre a un sacrificio ofrecido por un sacerdote. Altar, sacerdote y sacrificio van al unísono, como lo decía San Juan Crisóstomo: "Nadie puede ser sacerdote sin sacrificio" [1]. Como los protestantes rechazan expresamente el sacrificio de la misa y el sacerdocio del preste, no tienen tampoco necesidad propiamente hablando de altar. 
   En todas las religiones antiguas, el sacerdote, como sacrificador, escogido entre los hombres (Cf. Hebr. 5,1), se sitúa delante del altar y delante del santuario (que es la representación de Dios). De igual forma, los que asisten a la celebración del sacrificio, se acercan al altar, a fin de estar en comunión con éste, por mano del sacerdote sacrificador, como escribió San Pablo: "¿Los que comen de las víctimas no están en comunión con el altar?" (1 Cor. 10,8). 
   En el transcurso de estos últimos veinte años, se ha operado un cambio en nuestra concepción del sacrificio. Personalmente, creo que la introducción de altares cara al pueblo y la celebración orientada hacia éste, es mucho más grave y engendradora de problemas para la evolución futura, que el nuevo misal. Porque en la base de esta nueva colocación del sacerdote con respecto al altar (y sin duda alguna, se trata aquí de una innovación, no de un retorno a una costumbre de la Iglesia primitiva) hay una nueva concepción de la misa, que hace de ella una "comunidad del banquete eucarístico". 
   Todo lo que primaba hasta ahora, la veneración cultual y la adoración a Dios, así como el carácter sacrificial de la celebración, considerada como representación mística y actualización de la muerte y resurrección del Señor, pasa a segundo plano. Lo mismo la relación entre el sacrificio de Cristo y nuestro sacrificio de pan y vino apenas aparece. En nuestro opúsculo "Das opfer der Kirche " (El sacrificio de la Iglesia) trató en detalle esta cuestión. 
   No soy de los que piensan que las formas del altar, tal como se habían constituido en el curso de los últimos siglos, y se habían conservado hasta el Concilio Vaticano II, no se puedan modificar. Al contrario, me gustaría que se volviese a formas simples, tal como las que habitualmente estaban en uso en el primer milenio, tanto en la Iglesia de Oriente, como en la de Occidente (y aún hoy día en Oriente), formas que ponían muy en relieve el carácter del altar cristiano, lugar del sacrificio del Nuevo Testamento. 
   La necesidad de exponer en detalle, pero de forma comprensible para todos, el problema que plantean los modernos altares cara al pueblo, así como el celebrante vuelto a la asamblea, me surgió leyendo las numerosas cartas de los lectores publicadas el pasado año, durante muchos meses, en el Deutsche Tagespost. Estas cartas prueban que en lo que concierne a la evolución histórica del altar, muchas cosas quedan confusas; y que muchos errores, sobre todo referentes a los primeros tiempos de la Iglesia, parecen que se han anclado en el espíritu de las gentes. Por todo esto he decidido con toda intención tener en cuenta las preguntas propuestas por los lectores en sus cartas.
Klaus Gamber - Pentecostés 1987