La coraggiosa decisione del Santo Padre di liberalizzare, alle giuste condizioni, l’uso del messale del 1962, ha riportato all’attenzione della Chiesa il valore delle forme liturgiche tradizionali. Questi valori sono sostanzialmente tre.
1. Anzitutto la millenaria bellezza e solennità di questa liturgia.
La struttura essenziale della messa romana si è andata formando nei tempi dei papi Damaso (366-384) e Gelasio (492-494) e ha ricevuto il suo assetto definitivo con l’opera di Gregorio Magno (590-604): con il VII secolo può, dunque, considerarsi costituita, anche se, quale organismo vivente, continuerà a crescere ininterrottamente nei secoli seguenti.
La struttura fondamentale di questa liturgia è così composta:
- la processione dei ministri dalla sacristia al presbiterio durante il canto dell’Introito;
- di seguito, quando il celebrante ha raggiunto la sua sede, il canto del Kyrie e del Gloria, e poi il saluto liturgico e la Colletta, cioè l’orazione che chiude i riti di ingresso e apre la liturgia della Parola;
- quindi la lettura apostolica, i canti interlezionari e il brano evangelico con l’omelia;
- la processione offertoriale accompagnata dal canto e concluso dalla sua orazione;
- il Prefazio concluso dal canto del Sanctus e seguito dalla solenne preghiera eucaristica, il Canone romano;
- poi il Padre nostro e i riti di Comunione con i loro canti;
- infine il saluto liturgico, l’orazione finale, il congedo proclamato dal diacono e la processione di uscita, durante la quale il celebrante benedice i circostanti.
La grandiosità allo stesso tempo solenne e sobria della messa romana, in cui splende inequivocabilmente la fede della Chiesa antica, nasce da una concezione cosmica del culto divino: “Nell’ora del Sacrificio, alla voce del sacerdote, si aprono i Cieli … e anche i cori degli angeli partecipano a questo mistero … poiché l’Alto e il basso si congiungono, il Cielo e la terra si uniscono, il visibile e l’Invisibile diventano una cosa sola”.
A partire dalla struttura essenziale di canti, letture e preghiere dell’antica messa romana che abbiamo descritto, si è sviluppata la celebrazione medievale, nell’incontro con gli usi liturgici dei Franchi e dei Germani. Tale incontro, però, non ha cambiato la struttura della messa, ma l’ha solo integrata, in un modo assolutamente rispettoso della sua fisionomia: infatti, conservando il medesimo impianto, alle parti in canto dell’Introito, dell’Offertorio e della Comunione si sono sovrapposti, per i soli ministri, nuovi gesti e preghiere (recitate sottovoce). In questo modo il rito si è conservato integro nella sua struttura e nello stesso tempo si è arricchito nel suo svolgimento.
Questo processo ha ricevuto la sua codificazione all’inizio dell’età moderna, con la pubblicazione del messale post-tridentino ad opera di san Pio V, nel quale risplendono tutti i valori ereditati dalla tradizione precedente e contemporaneamente espressivi dello spirito della controriforma: l’esaltazione della dimensione sacrificale della messa, quindi del dogma della transustanziazione e della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, e di conseguenza della sacralità del sacerdote quale ministro di Dio e mediatore del culto. Così la celebrazione diviene il trionfo della vera fede nella vera Chiesa, in opposizione ai protestanti: i ministri, rivestiti di splendidi paramenti e inseriti in una cornice architettonica sfarzosa (il barocco), vengono trasfigurati in un’aura di sacralità, e realizzano in una lingua misteriosa un rito splendido e complesso, reso ancor più grandioso dalla musica polifonica. I fedeli non vengono incoraggiati a vivere in unione ai ministri le azioni della liturgia, ma piuttosto a lasciarsi ‘impressionare’ da questo dramma sacro e solenne, così da sentirsi confermati e nutriti nella fede e sollecitati alla devozione, soprattutto la devozione ai misteri della salvezza, che essi meditano con la recita del rosario mariano.
Questa liturgia, frutto di quindici secoli di evoluzione nella continuità, resta in vigore, con qualche adattamento ma senza sostanziali modifiche, sino al 1969, e, grazie a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI, può essere celebrata anche oggi.
2. L’orientazione comune del celebrante e dei fedeli.
Anche se non è prerogativa esclusiva dell’antica liturgia, possiamo dire che vi è abitualmente associata: il celebrante e i ministri si collocano sul lato anteriore dell’altare, così da rivolgersi nella stessa direzione dei fedeli e non verso di essi.
È la forma in cui hanno celebrato la liturgia tutti i cristiani d’oriente e d’occidente sin dai primi secoli; è la forma in cui la celebrano a tutt’oggi la gran parte dei nostri fratelli orientali.
Non si tratta, come spesso si sente dire, del fatto che il sacerdote ‘volta le spalle’ ai fedeli, ma del fatto che entrambi sono ‘rivolti al Signore’. Questa posizione conferisce verticalità e senso della trascendenza a tutta la celebrazione e le impedisce di scadere in un pericoloso orizzontalismo.
Questo significa guardare al sole che nasce, simbolo della creazione e della risurrezione; significa attesa del ritorno glorioso di Cristo, di cui la liturgia è annuncio e pregustazione; significa camminare, come singoli e come Chiesa, incontro al Signore; significa presentare a Lui i propri doni e la propria vita; significa uscire dal cerchio sociologico di una comunità chiusa per volgersi tutti insieme a Colui che ci chiama e ci attira; significa guardare verso Colui che adoriamo, lodiamo, ringraziamo, supplichiamo, e al quale offriamo come culto spirituale l’immolazione di Cristo e noi stessi insieme con Lui.
È un elemento “essenziale, il comune orientamento verso est durante la preghiera eucaristica. Qui non si tratta di qualcosa di casuale, ma dell’essenziale. Non è importante lo sguardo rivolto al sacerdote, ma la comune adorazione, l’andare incontro a Colui che viene … Si tratta della riscoperta dell’essenziale, in cui la liturgia cristiana esprime il suo orientamento permanente … O forse oggi siamo davvero chiusi senza speranza nel nostro cerchio? O non è forse proprio oggi importante pregare insieme con tutta la creazione? Non è forse proprio oggi importante dare spazio alla dimensione del futuro, della speranza nel Signore che tornerà?”.
3. Il valore della lingua latina.
Anche in questo caso non si tratta di un’esclusiva, poiché anche la messa rinnovata si può celebrare in latino, come abbiamo visto tante volte in san Pietro; ma certo la sia associa in modo particolare alla liturgia tradizionale, tanto che questa viene sbrigativamente chiamata proprio ‘la messa in latino’. E in realtà l’abbandono della messa tradizionale ha comportato la pressoché totale scomparsa nella liturgia anche di questa lingua; ma questo è uno di quei “casi di quella sfasatura – purtroppo frequente in questi anni – tra il dettato del concilio, la struttura autentica della Chiesa e del suo culto, le vere esigenze pastorali della nostra epoca, e le risposte concrete di certi settori clericali. Eppure la lingua liturgica non è affatto un aspetto secondario”. Infatti il latino ha incarnato la preghiera della Chiesa occidentale per oltre mille e seicento anni, veicolo e garante di una triplice unità:
- unità nella fede, perché fissa e dà stabilità immutabile alle formule dottrinali di cui è intrisa la liturgia; al contrario le lingue parlate sono in continua trasformazione, quindi richiedono anche per la liturgia periodici aggiornamenti, favorendo una certa instabilità;
- unità nel tempo, perché ci lega a tutti i fratelli nella fede che ci hanno preceduto in quasi duemila anni: per chi comprende l’inestimabile valore della tradizione, non può essere un fatto trascurabile il sapere di poter pregare con le stesse formule e con gli stessi canti con cui hanno pregato i cristiani dei primi secoli, i Padri della Chiesa, i popoli della cristianità medievale, i fedeli dell’epoca moderna, e segnatamente i Martiri e i Santi di tutti i tempi, sino ai nostri nonni, cioè ai credenti dell’ultima generazione che ci ha preceduto;
- unità nello spazio, perché permette a tutti i cattolici di ogni paese e continente di unirsi in una sola voce, raccolti presso l’altare, a qualunque latitudine esso si trovi; in questo modo è la Chiesa universale che prega per bocca dei suoi figli senza distinzione di razza e cultura; la medesima preghiera che si innalza da tutti i popoli, celebrando il medesimo Sacrificio nella stessa lingua, rinnovando il prodigio della prima Pentecoste. Questo risulterebbe particolarmente importante proprio nel nostro tempo, epoca di grandi migrazioni e quindi di pluralità culturale e linguistica all’interno di una stessa società: come sarebbe bello se i cattolici provenienti dall’Africa, o dall’Asia, o dall’America, potessero partecipare alla messa in una qualunque delle nostre chiese, insieme ai loro fratelli italiani, ritrovando in essa la medesima liturgia, con gli stessi canti e le stesse preghiere della loro patria. Questo è ciò che è avvenuto tra il XIX e il XX secolo ai nostri emigranti, partiti per il nord Europa o per l’America: si sentivano stranieri in tutto eccetto che in chiesa, perché là trovavano la stessa messa, con gli stessi riti e le stesse millenarie parole, uguale a quella del paese appena lasciato.
fonte:http://fraternitadm.altervista.org/valore-liturgia-tradizionale.html