Tutta la pena di un’anima religiosa è il dover vivere una sua vita, è il sentirsi ancora indipendente, perché una sua indipendenza dice esattamente che Dio non l’ha presa, l’ha lasciata a se stessa. Questo essa vuole: non compiere più alcun atto che sia suo, non essere libera più di un suo pensiero, giudizio, affetto, perché si faccia presente in lei il Signore.
Ci si dovrebbe sentire morire quando compiamo un atto che non è di obbedienza, non perché è disobbedienza, ma perché quell’atto è ancora nostro. Nella misura in cui noi facciamo la “nostra” volontà noi viviamo la morte. San Barsanufio diceva che il nemico mortale della vita cristiana è la volontà propria. Uccidi la tua volontà e, nella misura in cui tu ti donerai questa morte, Dio entrerà nel tuo cuore. Non dovremmo consentire mai a una nostra volontà, dovremmo trovare gioia precisamente nel rinunciare a noi stessi, nel rinnegare noi stessi; è quanto ci insegna Gesù.
Il Vangelo può consigliare la povertà, la castità, ma insiste di più sull’abnegazione di sé: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34), dice Gesù. Egli stesso è il povero, ma è soprattutto il “Servo di Jahweh”. Nessuna virtù il Vangelo sottolinea di più nella vita del Cristo quanto l’obbedienza. Questa è la virtù che lo definisce come Salvatore del mondo; Egli di fatto ha salvato gli uomini in quanto è stato il Servo di Dio che aveva annunciato Isaia, Colui che si è abbandonato senza aprir bocca alla morte per compiere i voleri del Padre (cfr. Is 53,7). * * * Sì, bisogna che nessun atto si sottragga all’esigenza della volontà divina.
Dio che ti ama ti vuol possedere totalmente: questa è la sua volontà. Non le tue opere Egli ti chiede, ma te stesso. La Sua volontà è la tua pura obbedienza. Dobbiamo andare avanti per la via dell’obbedienza gioiosamente; è la via della morte perché è la via dell’amore. Solo attraverso l’obbedienza doniamo realmente noi stessi a Dio.
Attraverso la morte così si realizza la resurrezione gloriosa, la vita divina trabocca nella nostra anima, e Dio ci possiede. Sostituzione in qualche modo della volontà divina alla volontà dell’uomo, la vita di Dio in noi esige l’obbedienza, cresce con l’obbedienza come la vita di fede esige e cresce con l’umiltà. Così l’umiltà vera è figlia della fede, come l’obbedienza lo è dell’amore. Per questo Gesù nel Vangelo di san Giovanni ci dice: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv 14,15), e ancora: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama” (Gv 14,21).
La vita cristiana è obbedienza; non si vive la vita cristiana perché siamo casti, non si vive la vita cristiana perché siamo poveri, ma si vive la vita del Cristo perché siamo obbedienti. Non sono certo i comandamenti che ci fanno cristiani, che ci fanno vivere, ma la volontà di Dio che in essi si manifesta.
Accettando i comandamenti l’uomo fa posto in sé a Dio, nella sua volontà. Le parole più grandi per la vita religiosa nel Decalogo sono le parole che promulgano la Legge: “Io sono il Signore, tuo Dio” (Es 20,2). L’uomo accetta dunque e fa posto in sé a Dio e alla Sua volontà. Fin dall’inizio i precetti negativi suppongono l’obbedienza, ma quanto più suppongono l’obbedienza alla volontà divina i precetti positivi!
Dio di fatto vive in te nella misura in cui la tua volontà fa posto in te alla Sua volontà, ed Egli è Atto puro, carità infinita! Se all’inizio la vita cristiana può consistere in un non fare, il progresso della vita divina nel cuore dell’uomo si esprimerà in un’obbedienza sempre più perfetta a una volontà che impegnerà l’uomo sempre più, finché non consumi tutte le sue possibilità.