Nell’oceano di fuoco di Divo Barsotti
Don Divo Barsotti, fondatore della Comunità dei Figli di Dio, monaco e scrittore, mistico e maestro spirituale, figura grandissima. Un cristiano autentico, animato da fede profonda, un credente capace, anche grazie al suo carattere di toscanaccio verace.
di Aldo Maria Valli (11-03-2018)
«Non c’è peggior retorica della retorica della pietà. Cosa intendi quando parli di amore?».
Sapete di chi sono queste parole? Sono di don Divo Barsotti (1914–2006), il fondatore della Comunità dei Figli di Dio, monaco e scrittore, mistico e maestro spirituale, figura grandissima eppure ancora poco nota. Un cristiano autentico, animato da fede profonda, un credente capace, anche grazie al suo carattere di toscanaccio verace, di dire pane al pane e vino al vino, senza mai nascondersi e senza mai indulgere all’ecclesialmente corretto.
Benvenuto è quindi il libro Oceano di fuoco. Commentari su Divo Barsotti (Chorabooks), con il quale Aurelio Porfiri continua nella sua meritoria opera di diffusione del pensiero di questo maestro della e nella fede, morto novantaduenne nel suo eremo di San Sergio a Settignano dopo una vita da cattolico spesso solo e incompreso, perché sempre in controtendenza rispetto alle mode del momento. Basti dire che nel 1971, quando Paolo VI lo chiamò in Vaticano per predicare gli esercizi spirituali di inizio Quaresima, mentre nella Chiesa cattolica dilagavano la contestazione e l’anarchia, non ebbe timore di dire che «la Chiesa ha un potere coercitivo perché Dio glielo ha affidato, e allora deve usarlo». Parole che anche oggi fanno certamente balzare dalla sedia tanti vuoti profeti della sinodalità e della collegialità.
Barsotti profeta lo fu sul serio, perché mise sempre Gesù Cristo al centro e non smise mai, in profonda sintonia con san Giovanni Paolo II e poi con Benedetto XVI, di proporre la questione della verità in relazione alla libertà dei figli di Dio e della chiamata alla santità.
Con quest’ultimo libro Aurelio Porfiri presenta una serie di pensieri sparsi che Barsotti, scrittore prolifico ma non sistematico, affidò a diverse opere, e così compone un mosaico nel quale rifulge la figura di Gesù, perché, come scrive Antonio Livi nella prefazione, l’impostazione di Barsotti fu sempre cristocentrica, nella consapevolezza che la vita del cristiano deve essere tutta incentrata sul mistero di Cristo, mediante il primato assoluto della preghiera articolata in adorazione, contemplazione e partecipazione alla liturgia.
In Divo Barsotti la parola è sempre precisa, spesso tagliente o addirittura acuminata. Nel suo pensiero non c’è mai traccia di sentimentalismo. Niente di più lontano da lui di certo cristianesimo dolciastro e consolatorio, tutto teso a cercare il compromesso tra il Vangelo e la mentalità dominante nel mondo. Ed ecco allora, a proposito della parola amore, l’invito a usarla con parsimonia e riserbo, perché «il vero amore non può parlare di sé», come sa bene l’innamorato sincero, e dunque «se uno parla d’amore segno è che non lo possiede e il suo linguaggio fastidisce e pesa come tutto quello che è falso».
Tutti i pensieri di Barsotti raccolti nel libro di Porfiri andrebbero citati, tale è la loro ricchezza e la capacità di aprirci orizzonti nuovi. Come succede quando ci si accosta a un mistico, si ha l’impressione di essere innalzati verso una dimensione tutta diversa da quella quotidiana, nella quale viviamo come irretiti e bloccati. Ci si sente attratti verso il Cielo, partecipi dell’azione creatrice.
«Quando parlo di bellezza intendo un valore che non ha bisogno di giustificazione: è la perfezione, la volontà di Dio».
«Sento che il problema di Dio è connesso al problema della libertà umana».
«L’uomo in generale non vive un vita cosciente: sono rarissimi coloro che veramente vivono. In quale profondità abissale vivrebbero colui che crede e colui che non crede se vivessero nella verità la loro fede! Perché anche l’ateismo è una fede. La santità divina dell’amore infinito o la santità demoniaca della solitudine assoluta: non si danno per l’uomo vero altre alternative di vita. Qualcosa che dà le vertigini».
Si diceva prima del rapporto con Giovanni Paolo II e della stima di Barsotti per il papa polacco. Non si creda però che la stima fece velo alla lucidità di pensiero. Quando ne sentì il bisogno, il monaco espresse le sue critiche, sempre in modo diretto e chiaro, anche a Karol Wojtyła, come nel caso del grande raduno inter-religioso di Assisi, che secondo Barsotti si prestava all’equivoco, e come nella lettera con la quale arrivò a rimproverare il papa per le troppe citazioni del Concilio Vaticano II, dato che, in fondo, quel Concilio ha «messo solo delle virgole al discorso continuo della tradizione».
Insomma, con Barsotti si torna alle radici, ai fondamenti della fede, a ciò che conta davvero. Leggendolo viene in mente la teologia di Cornelio Fabro, «e ciò spiega – scrive Antonio Livi – come egli si opponesse strenuamente a quella illegittima e nefasta interpretazione del magistero conciliare che io denomino “umanesimo ateo” e che si immiserisce la figura di Cristo, ridotto ormai a icona del moralismo sentimentale».
«Ho sentito la Comunione come il gettarsi dell’anima in un Oceano di fuoco», scrive Barsotti in La fuga immobile. È il pensiero dal quale Aurelio Porfiri ha preso spunto per dare il titolo al suo libro e qui si coglie tutto lo sforzo del mistico che cerca di esprimere l’inesprimibile, di descrivere ciò che può soltanto essere vissuto nel profondo dell’anima. Giustamente, in proposito, Porfiri cita la Lettera agli artisti di san Giovanni Paolo II (1999), quando il papa sottolineò l’analogia tra l’artista e il credente, entrambi partecipi del divario incolmabile tra la limitatezza umana e lo splendore della bellezza assoluta, eppure entrambi tesi a colmare quella distanza lasciandosi attrarre dall’abisso di luce o, appunto, dall’oceano di fuoco.
In una cultura come l’attuale, nella quale, anche fra cattolici, si è dominati dalla prospettiva orizzontale, fino a immaginare che esista un dovere di Dio alla misericordia e un diritto della creatura a riceverla, Barsotti va controcorrente e ripropone la prospettiva verticale: «La grandezza ma anche la tragicità della vita è che noi possiamo pregare, ma solo nella fede la nostra parola raggiunge Dio e ha una risposta. Sei tu che entri misteriosamente nel mondo di Dio, non è Dio che entra nel tuo».
«Non è Lui che entra in te; sei tu ed è tutta la creazione che entra in Lui. Egli è più vasto della creazione, è più profondo dell’abisso».
E quando l’impresa si fa talmente difficile da sembrare impossibile, il mistico non può che arrendersi all’evidenza e abbandonarsi totalmente: «Tutto, tutto è vuoto, è falso. L’unica Realtà è Dio».
«La fede diviene sempre più inconcepibile, per questo diviene sempre più vera. Come potrebbe essere fede in Dio se non superasse infinitamente ogni pensiero dell’uomo?».
«Il cammino della santità passa necessariamente attraverso gli abissi. Tutti i santi sono uomini che hanno rischiato la pazzia, la dissoluzione interiore, che hanno dovuto conoscere e superare l’angoscia senza fondo».
Come si vede, ritorna l’idea dell’abisso e c’è questa consapevolezza della tragicità insita nell’esperienza di fede quando è vera, non superficiale o di maniera. Il che porta Barsotti a dire: «La fede è sempre miracolo. Pretendere che siano molti i credenti è assurdo. È già inconcepibile che v ne sia qualcuno, ma bastano pochi a dare a tutti gli uomini una speranza, una ragione di vivere, a essere sostegno dell’universo».
Chiara è anche la consapevolezza che, oggi più che mai, credere in Cristo determina una separazione dal mondo e condanna alla solitudine: «Il problema è sempre lo stesso, ma oggi è divenuto estremamente grave: possiamo credere nel Cristo? Tutta la cultura moderna lo nega. Chi crede deve dunque negare la cultura moderna. Chi crede deve accettare di essere solo».
Numerosissime, ripeto, sono le citazioni che meriterebbero di essere riportate e che Aurelio Porfiri commenta di volta in volta collegandole alla sua esperienza, ad altre letture, alla realtà del nostro tempo.
Trovo bellissima la citazione relativa al silenzio («Il silenzio di Dio è il silenzio che segue la morte in croce; in quel silenzio precipita e affonda tutta la creazione accolta nella pace di Dio. È in quel silenzio che l’umanità di Gesù entra nella gloria. Il silenzio stesso è la risposta del Padre al grido di Gesù») e, specularmente, mi sembra alquanto pertinente questa riflessione, che è anche un monito, su certa sterile verbosità diffusa in una Chiesa che non sa più indicare e riproporre l’essenziale: «Credo che siamo rimasti in pochissimi, ma forse, probabilmente, più nessuno legge i documenti emanati dalla s. congregazioni, dalla Conferenza episcopale italiana, i discorsi del santo padre. La parola tanto più perde di efficacia quanto più si moltiplica».
(fonte: aldomariavalli.it)
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