Siamo nella Quaresima: la Quaresima ci richiama alla penitenza. È con la penitenza che si è iniziato il ministero di Gesù.
Ma che cos’è precisamente la penitenza? Soltanto il pentimento di quello che possiamo aver fatto di male sarebbe ben poco per caratterizzare invece quello che con questo termine intende la Chiesa e intende il Signore. Il termine “penitenza” è una traduzione molto imperfetta di un termine greco che viene usato dagli evangelisti proprio per dire il contenuto della prima predicazione di Gesù, quando inizia il suo ministero.
Il termine greco è metánoia e voi potete capire già che cosa può voler dire.Nous è la mente, è lo spirito, anzi la psiche, l’anima, e meta vuol dire proprio un capovolgimento, un rovesciamento del nostro essere interiore.
Di qui voi capite che quando noi pensiamo che penitenza voglia dire soltanto pentimento dei peccati è troppo poco. Quando pensiamo alla penitenza come al complesso di azioni afflittive, mortificanti per la nostra natura, ugualmente si dice qualcosa ma non si dice quasi nulla, perché, quando si pensa appunto ad azioni afflittive, in generale si pensa a quelle azioni afflittive che non toccano affatto il nous, lo spirito, ma toccano il corpo.
Ecco perché uno dei decreti ultimi sulla riforma della penitenza quaresimale sembrava quasi eliminare quello che finora sembrava il contenuto specifico proprio della Quaresima. Quello che poteva sembrare il vero contenuto della Quaresima era stato eliminato non dalla Chiesa, ma dal fatto che i cristiani non ci credevano più, non facevano più nulla in questo senso. Ma forse i cristiani, non sottomettendosi più a quelle prove, davano segno d’aver capito di più la penitenza veramente cristiana, se non altro davano l’impressione di aver capito che quelle penitenze valevano poco e non era il caso nemmeno di dar loro importanza.
Qual è allora la vera penitenza a cui ci richiamano il Signore e la Chiesa nel tempo quaresimale? Questa penitenza ci richiama intanto a una coscienza di una nostra opposizione radicale con Dio. Se si impone una conversione, segno è che noi non siamo rivolti al Signore, ma gli voltiamo le spalle.
Possiamo noi dire questo? Sì, possiamo dirlo! Nel fondo del nostro spirito noi rimaniamo in una certa opposizione a Dio fintanto che non siamo dei santi. Solo il santo vive, anche nell’atto suo primo, anche nell’atto suo più interiore, questa perfetta adesione a Dio, questa perfetta trasparenza dell’essere alla luce divina. Noi nel nostro più intimo siamo opachi alla luce, nel nostro più intimo, senza esserne forse nemmeno consapevoli minimamente, noi viviamo una certa opposizione a Lui. E questa opposizione da che cosa deriva?
Mi sembra così chiaro quello che dice sant’Agostino, mi sembra così evangelico e così biblico: «Due amori fecero le due città: l’amore di Dio fino al disprezzo di sé, l’amore di sé fino al disprezzo di Dio». La vera conversione è una conversione che implica precisamente l’amore. L’amore è il rivolgersi dell’essere, è l’ordinarsi dell’essere: l’essere ama in quanto si ordina. E dunque questo vuol dire che di per sé non si può dividere l’essere dall’amore; praticamente c’è un’identificazione fra essere e amore, però il contenuto di questo amore deriva dall’ordinarsi. Ci si ordina in un modo o ci si ordina in un altro. Se tu non ami Dio, non per questo non ami: ami te stesso. Se tu ami Dio, non per questo tu non sei, anzi realizzi te stesso precisamente come Dio ti ha voluto, come suo figlio e sua creatura.
Qual è la conversione dunque a cui ci chiama il Signore, la vera penitenza? È questo terremoto interiore, questo rivolgimento dell’essere onde tutto in noi si ordina a Lui, e per ordinarsi a Lui si strappa a un precedente amore, sfugge, si sottrae a un’attrazione che s’imponeva finora al nostro spirito e ci sottraeva, almeno in parte, a Dio stesso.
Se noi non avessimo bisogno di questa conversione, noi saremmo già santi. Possiamo dire di essere santi? No: vuol dire che abbiamo bisogno di convertirci. Se la santità è il nostro ordinarci totale a Dio, vuol dire che ancora non siamo totalmente ordinati, vuol dire che abbiamo bisogno di conversione. Ma da che cosa? Probabilmente, per noi tutti, dall’amore di noi stessi, come dice sant’Agostino: «Due amori fecero le due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio, l’amore di Dio fino al disprezzo di sé».
Si impone dunque una liberazione dai nostri egoismi, si impone dunque che noi sappiamo veramente rinunciare a noi stessi. L’abnegazione di sé: ecco quello che implica la conversione del cuore.
Ritiro del 4 marzo 1968 a Viareggio