terça-feira, 12 de janeiro de 2010

Cardeal Siri:Introduzione a «Il Sacerdozio Cattolico - I - Lettere pastorali e studi sulle vocazioni, i seminari, i seminaristi e sul sacerdozio»



Con Giovanni Paolo II
Per questo vi offriamo anzitutto un ritratto di sacerdote scritto nel 1977 dal Card. Siri: il ritratto di colui che fu determinante per la sua crescita cristiana e la sua vocazione, cioè Mons. Marcello Grondona, parroco della Basilica dell’Immacolata. Inoltre, vi proponiamo l’introduzione che il Card. Paul Augustin Mayer o.s.b. scrisse al volume dell’Opera omnia del Cardinale che raccoglie Lettere pastorali e studi sulle vocazioni, i seminari, i seminaristi e sul sacerdozio.
Nella sezione “Gallery” del nostro sito troverete alcune nuove serie di fotografie del Card. Giuseppe Siri, che ce ne presentano il volto o lo ritraggono con cardinali e politici, fra i lavoratori e durante visite in Italia e all’estero.
Infine, possiamo annunciare l’uscita del volume che raccoglie gli atti del convegno svoltosi l’anno scorso per ricordare l’80° di sacerdozio del nostro Cardinale. Edito da Marietti 1820, a cura di Paolo Gheda, troverete l’immagine della copertina di “Siri, la Chiesa e l’Italia” nel nostro sito.
A tutti voi l’augurio più vivo per un Natale ricco di grazie e di gioia e di un nuovo Anne benedetto dal Signore!
Vi rinnoviamo l’invito ad iscrivere alla nostra Newsletter conoscenti interessati alla figura del Card. Siri (basta andare alla sezione “Newsletter” e inserire l’indirizzo email della persona, che potrà poi anche rifiutare l’invio della Newsletter se non lo gradisce).

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MONS. MARCELLO GRONDONA PREVOSTO DELL'IMMACOLATA

Nato a Pontedecimo nel 1863, prete nel 1885, insegnante al Chiappeto fino al 1888, in quell'anno Arciprete di Gavi, nel 1897 Priore a San Sisto, nel 1903 prevosto all'Immacolata. Chiuse la sua giornata terrena il 13 Agosto 1937. Sono passati quarant'anni. Fu una delle più rilevate figure del clero genovese, a più titoli.
Era difficile non trovarlo al suo posto ed il suo posto era o il confessionale o il banco di sacristia. Non vi si sedeva mai, vi stava appoggiato e di lì sorvegliava tutto. Era questa presenza che impressionava. L'alta figura proporzionata e bella, dalla zazzera di capelli in uso nel secolo scorso, dominava colla serietà bonaria. A quei tempi all'Immacolata c'erano dodici canonici, sei beneficiati minori, due cappellani, quattro chierici fissi e dimoranti in abito talare per il servizio del Capitolo, un alabardiere, due uomini di fatica. Era un piccolo mondo. Fu anche per tanti anni la mia seconda casa. Non ho mai assistito ad un alterco, mai uno che alzasse la voce, mai un discorso malevolo, tutto ordinato, preciso, cronometrico: era la presenza del Prevosto. Lui non lo udii mai alzare la voce. Non ce ne era bisogno - del resto - perché con quella imponente presenza nessuno si sarebbe provato a scantinare. Da lui emanava una autorità paterna e convincente. Alle 5,30 scendeva in Chiesa, alle sei celebrava. Per anni gli ho servito io la Messa: all'altare, in coro, era come in sacristia. Dopo la Messa se ne stava due ore inginocchiato in coro nella prima nicchia a destra sotto la cantoria: si alzava solo che chiamato in confessionale. Verso le nove saliva in casa, poi lavorava in archivio tutta la mattinata eccettuate le feste in cui ridiscendeva al suo posto in sacristia. In qualunque ora era assiduo al confessionale. Tutto si muoveva con un ordine singolare. Ho sentito molte volte ridere di capitoli e canonici: io ho passato tutto il mio tempo libero, prima del sacerdozio, nella sacrestia dell’Immacolata; non ho avuto un cattivo esempio, non ho ascoltata una sola parola sconveniente o cattiva nei confronti del prossimo, ho avuto solo edificazione, quella che mi ha sorretto sempre: c’era lui! Questo prestigio immediato e senza sforzo testimonia una grandezza. Moltissimi del Clero Genovese venivano a confessarsi da lui. Lo trovavano senza fallo. Negli anni anteriori alla prima guerra mondiale, terminata la funzione pomeridiana, faceva un breve passeggio fino a corso Solferino, accompagnato dal sacerdote sacrista, don Freggiaro. Dopo abolì anche questo. Usciva per ammalati e per andare, qualche volta, in Curia. Non lo vidi mai prendere ferie; lo sentii parlare di ferie godute in periodo antecedente, ma le ferie erano Sacre Missioni al popolo. Era Missionario rurale. Il suo parlare nella predicazione era sobrio, sostanzioso, sentito: sapeva quello che diceva. Per molti anni fu il Direttore Nazionale dell'Opera Pontificia della Santa Infanzia e ne curava il Bollettino. Quante volte, bambino, l'ho aiutato per mettere le fascette della spedizione ai fascicoli!
Tutto era splendido nel culto divino, non mancavano i parati stupendi, il servizio, la cantoria, gli organisti, la maestà del suo portamento quando celebrava o presiedeva il prevosto erano tali da incantare. Direi che io non sono mai riuscito ad uscire da quella atmosfera e da quella luce.
Per conoscerlo bene bisognava incontrarlo nel confessionale o nella conversazione. Aveva un talento unico nel risolvere anche con una battuta le più ardue questioni. Ne ricordo qualcuna, ma potrei scriverne un libro. Un giorno si presentò in sacrestia un giovane signore per domandargli se riteneva che potesse impalmare una signorina tal dei tali. La risposta fu questa: “Se non pigli questa, tu piglierai moglie per testamento”. Quello capì, uscì, sposò la signorina tal dei tali, ebbe undici figli, ora è con Dio. Uscito il giovane, io, che avevo ascoltato il colloquio, chiesi: “Prevosto, come si fa a prendere moglie per testamento?”. Mi spiegò: “Vedi, quello doveva già prenderne altre, tutte buone. Non piacevano a questa o a quella zia e lui lasciava andare. A quel modo sarebbe morto senza prender moglie il che significa prenderla per testamento”. Gli chiesi un giorno: “Prevosto, ma come faceva lei a cavarsela quando, mandato arciprete a Gavi aveva ben 14 preti e lei contava solo 25 anni?”. Mi rispose: “Vedi, quando le cose potevano essere bianche e nere, non importava, chiedevo consiglio a tutti e facevo quello che loro volevano; quando una cosa era bianca e doveva restare tale, chiedevo niente a nessuno ed agivo. Quelli per via delle bianche e nere, lasciavano correre”. Concludeva: “Vedi, ricorda che le cose grosse si aggiustano colle più piccole”. Con motti del genere risolveva le questioni più gravi in Morale, confessando.
Mentre era in missione nell’Alessandrino, vennero da un paese vicino a chiedere come comportarsi con un pastore protestante che tutte le domeniche arringava il popolo dopo la Messa festiva. Chiese: “Qualcuno tra voi può fare un discorsetto?”. Si guardarono in faccia protestando che erano ignoranti. Lui: “Il discorsetto ve lo faccio io; sapreste ripeterlo?”. Dissero: “Vediamo”. Ecco il discorsetto: “Lei signor pastore ci propone una nuova religione e per di più dei denari. Vede, quando andiamo al mercato a vendere o barattare una nostra vacca, se uno la vuole e ci dice vi do la mia e in più del danaro significa che la mia vale di più della sua. Se lei ci aggiunge alla nuova religione del danaro vuol dire che la nostra val più della sua”. In quel paese mai più comparve il pastore protestante.
Il suo modo di educare era unico. Aveva una memoria ferrea. A me che passavo con lui il tempo che potevo raccontò sempre. Prediche mai; racconti sempre. Ed aveva un'arte incantevole nel narrare. Imparai così tutto su Mons. Salvatore Magnasco, il grande Arcivescovo di Genova, su Mons. Reggio, su tutti i preti notevoli della Diocesi tra la fine dell'800 e la prima parte del 900. Egli aveva goduto della stima e della familiarità coi due citati Arcivescovi (di Mons. Reggio fu l'uomo di fiducia e l'esecutore testamentario); Mons. Pulciano l'ebbe carissimo. Nel raccontare: mai note negative, mai cattivi esempi, solo fatti e detti edificanti, al più faceti. Ci sarei stato delle ore a sentirlo, però quella fu la mia più grande educazione ecclesiastica ed ancor oggi io vivo di quei ricordi. Erano anche episodi di vite di Santi, particolari della sua esperienza missionaria. Mai mi parlò di cose profane. Spesso io ero l'unico uditore, ma talvolta c'erano altri, che rimanevano, al pari di me, affascinati. La finezza dei giudizi sempre volti ad edificare, non la avvertivamo, ma la recepivamo; era la sua arte e il suo ingegno. Attraverso le narrazioni imparai a conoscere i Papi del suo tempo ed imparai la venerazione per il Vescovo. Questa fu al punto che nel 1915, venuto Mons Gavotti ad impartire la Trina Benedizione per la Domenica in Albis, essendo io destinato al turibolo quando si volse per amministrare l'incenso, io rimasi così colpito ed incantato che non fui capace di muovermi. Un buon canonico, che assisteva, bonariamente fece la mia parte e tutto fu liscio. Questa educazione sullo sfondo del prestigioso culto in Basilica, che fu ed è tuttavia la mia seconda casa, mi portarono alle soglie del Seminario. Imparai così a vedere tutta la Chiesa.
Egli fu il primo a introdurre le apparature elettriche moderne. Ho già detto della sua attività missionaria. Dette parte del suo patrimonio personale per la fondazione della casa Apostolica del PIME a Capolungo. Nessuno che io sappia è riuscito a mettere insieme tante borse di studio quanto lui; moltissimi sacerdoti debbono a lui, generalmente anonimo, la possibilità di avere un posto in Seminario. Di questo non parlava, bisogna indovinare e carpire notizie. Fu il primo, od almeno dei primi ad avere in Parrocchia il Circolo giovani di Azione Cattolica; lui ne sosteneva tutte le spese, naturalmente senza dire niente e seppe scegliere ed accogliere nella sua parrocchia Mons. Enrico Ravano che era l'animatore di tutto il movimento e dei primi Scouts.
Nel 1904 ottenne da Pio X che inviasse il Card. Ferrari come suo rappresentante per le feste del cinquantesimo dalla Definizione del Dogma dell'Immacolata; fu in quella occasione che decorò la Chiesa del titolo di Basilica, poiché era stata la prima nel mondo in ricordo di quella definizione. Da allora parlò sempre del Card. Ferrari ed io imparai a conoscerlo come se fossi stato con lui.
Non dette mai segno di cedimento. Il 27 luglio 1937 tornando dai funerali del compianto Mons. De Amicis, Ausiliare, avvertì una indisposizione, il giorno prima era stato a celebrare alla sua Gavi la festa patronale. Si mise a letto. Parve riprendersi, ricadde e chiuse i suoi giorni il 13 agosto successivo.
Mi si perdonerà se ho scritto dei mio grande parroco, lo meritava; del resto le norme che seguo oggi sono in gran parte derivate dalla sua luminosa saggezza.

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Introduzione a «Il Sacerdozio Cattolico - I - Lettere pastorali e studi sulle vocazioni, i seminari, i seminaristi e sul sacerdozio»

Quarant’anni di governo episcopale di un Vescovo in una diocesi, e in una diocesi come Genova, documentano da sé l’importanza (oltre che la rarità) di un Magistero che si irradia dal diuturno contatto del Vescovo con i suoi sacerdoti. Questo quinto volume dell’Opera Omnia dell’Em.mo Card. Giuseppe Siri si può giustamente definire una summa e una sintesi di Magistero pastorale, dottrinale e spirituale maturato da lui sul sacerdozio sin da giovane professore e da vescovo ausiliare, ma giunto alla sua perfezione da Arcivescovo della diocesi di Genova che egli «regge con saggezza e zelo dal 1946»(1).
Molto opportunamente il redattore del presente volume ha raccolto assieme non solo le lettere pastorali e gli studi concernenti direttamente il sacerdozio, ma anche quanto vi è intimamente ed essenzialmente collegato: il problema delle vocazioni al sacerdozio, la loro cura, la fede del seminarista nell’attuale contesto della Chiesa e del mondo, i seminari dopo il Concilio Vaticano Il. La realtà e la ricchezza del sacerdozio cattolico, infatti, non possono considerarsi avulse dalle condizioni, dalla preparazione e dall’ impegno per ricevere non indegnamente tale prezioso dono. Un vescovo, che abbia a cuore un rapporto sincero e aperto con i suoi sacerdoti e desideri in essi la disciplina, la rettitudine ... la santità(2), sa di non potersi illudere nel presupporre tutto questo al momento dell’ordinazione, ma che viceversa deve impegnarsi nell’inculcare questi valori durante la formazione seminaristica e assicurarne la continuità nell’intera vita sacerdotale.
Di prim’ordine è, in quest’ottica, il valore delle tre sintetiche e sapienti lettere pastorali indirizzate ai seminaristi Guardate al «dopo» per allenarvi bene «ora», I traguardi, La gioia(3). Sono testimonianze, oltre che magistrali lezioni, in cui chi ha la pienezza del sacerdozio e della responsabilità verso i futuri leviti esorta questi ultimi a non differire al domani quanto deve impegnare la formazione dell’oggi poiché — egli afferma — «in quasi trent’anni di episcopato raramente ho visto superare i difetti che già si vedevano in seminario»(4).
La sua preoccupazione formativa per i seminaristi non solo è volta a liberare il terreno umano «da gravi difetti», ma richiama l’attenzione, e il conseguente impegno, per il «dominio e riduzione in termini ragionevoli del proprio temperamento. Questione difficile, che fuori del seminario raramente viene risolta, che voi avete tutto l’agio e tutti gli aiuti per risolvere. Significa avere in larga misura la pazienza, l’educazione, la generosità. Ritengo difficile che voi possiate risolvere tali questioni dopo»(5). Interessantissimo questo accenno all’insostituibile valore educativo del seminario (ampiamente sviluppato nelle due lettere pastorali: I seminari dopo il Vaticano II e La necessità del seminario minore)(6) e il richiamo all’importanza del «temperamento» nella formazione, poiché «qui c’è la questione più grave dell’educazione. Della quale si vede che, quando ha eliminato i peccati gravi e magari leggeri, non ha esaurito che una parte del suo compito»(7). Tale compito viene accuratamente delineato ed analizzato nel brillante studio: Il buon pastore(8).
La formazione puramente umana dei seminaristi è integrata, nel dettato dell’Arcivescovo di Genova, dall’invito ad essere sempre pronti per l’incontro con gli altri impegnandosi a «rompere in tempo certi diaframmi»(9), rappresentati dalla invidia, dalla pigrizia, dalla diffidenza, dalla creduloneria. I diaframmi aboliti vanno sostituiti positivamente con quelle doti che vengono comunemente dette virtù umane o di relazione: «la sincerità, la lealtà, la costanza, la fedeltà, la coerenza, il coraggio, la generosità». La persuasione della loro importanza non potrebbe essere più categorica, come non potrebbe essere più convincente l’incoraggiamento ad acquisirle, poiché «costa l’acquisirle, ma la remunerazione che danno nel sacro ministero è talmente grande, da essere difficilmente valutabili. Esse non fanno da sole un uomo, ma davanti a tutti dimostrano ad evidenza che è uno veramente «uomo» nel senso morale. Le porte si aprono, i pregiudizi cadono, la solidarietà si stabilizza, il giusto prestigio si concreta, la faccia è presentabile a chiunque quando ci sono le virtù di relazione. La fiducia diventa facile nei fedeli, la confidenza è spontanea nei penitenti, la correttezza è legge anche tra persone di diverso sentire, quando ci sono le virtù di relazione». E questo «allo scopo di esser uomini prima di esser preti»(10). Una sottolineatura particolare è dedicata all’affinamento umano risultante da quelle sfumature proprie a «un uomo di garbo»(11). Infatti «esiste la educazione, che è dote dell’anima più del contegno esterno o formale. Tuttavia anche la educazione formale è necessaria [...] Ci si bada poco. Ma la educazione apre molte porte, salva da tante complicazioni, dona un certo prestigio e qualche volta riesce persino a supplire ai vuoti che si trovano in noi. Penso che anche questa entri nell’allenamento per il vostro domani»(12).
Dalla formazione puramente umana il Cardinale passa ad occuparsi dell’educazione intellettuale dei seminaristi riguardante le convinzioni fondamentali necessarie per un futuro sacerdote, il loro contenuto, le modalità della loro trasmissione. Va subito precisata la natura di queste convinzioni: «Non si tratta soltanto di dare convinzioni di carattere generale, sempre tenendo conto che le convinzioni sono verità abbracciate con assoluta ed operante certezza, le quali entrano a spronare e a dirigere la vita. Qui parlo delle convinzioni specifiche relative alla Fede, all’ideale del sacerdozio, alla sua operosità costruttiva»(13). I contenuti della dottrina cattolica — egli afferma —, garantiti dal Magistero ecclesiastico, per essere trasmessi in modo efficace e divenire granitiche certezze hanno bisogno di opportuni «manuali di teologia»(14) e devono essere difesi da alcune malattie della cultura moderna. L’antico e consumato professore di teologia le ravvisa nel culto del dubbio e della pura problematica(15), nel metodo positivistico e nella ipercritica protestantica, nel concetto e nella metodologia idealistica(16). Se pensiamo che tali pericoli furono avvistati dal card. Siri in un articolo del 1960, dobbiamo sinceramente riconoscere che oggi l’infiltrazione di questi mali della cultura moderna nella teologia ha purtroppo oscurato la chiarezza e certezza della verità cattolica con le nebbie di ingiustificati dubbi e indebite contaminazioni.
La doverosa raccomandazione ai seminaristi che, come «fiori destinati all’Altare di Dio»(17), devono accettare la coltivazione entro l’ideale ambiente del seminario richiama l’attenzione sulla importanza educativa della disciplina(18) (specificata nei suoi diversi aspetti, compreso quello riguardante l’abito ecclesiastico)(19) e dell’acquisire per tempo le buone abitudini necessarie per la vita sacerdotale(20). Primo tra ogni altro valore il card. Siri insiste sul valore dell’obbedienza nella formazione sacerdotale, da esercitarsi non solo verso i superiori, ma anche riguardo ai bisogni materiali e spirituali di tutti. Dove si verifica un’autentica formazione in seminario è in «questa obbedienza alle necessità degli altri: occorre fare quello che non piace, che non si desidera, che scomoda, che ripugna, farlo quando e come noi non vorremmo. Occorrerà piegarsi, dimenticarsi, non fare questioni di dignità, di personalità, di onore. E questo ad ogni passo [...] Sarà necessario diventare flessibili, pazienti, umili, perché per servire ci si inginocchia»(21). Per queste ed altre ragioni ancora può affermare, come sintesi di una pluridecennale esperienza episcopale, che: «dopo i doni di Dio, il più grande tesoro della Chiesa sta nell’obbedienza dei suoi preti»(22).
La formazione spirituale dei seminaristi viene raccomandata dal card. Siri attraverso un instancabile attaccamento alla orazione. Se è vero per tutti che la preghiera è il respiro dell’anima, lo è in modo del tutto speciale per il consacrato e per chi si prepara ad esserlo. Ci si deve allenare per tempo alle varie modalità della preghiera, da quella mentale o meditazione a quella comunitaria. La orazione del sacerdote prende forza dal suo carattere impresso dall’Ordine sacro. Per questo egli è deputato alle cose sacre. Questo accade soprattutto nella recita delle «Ore». In esse non è lui che prega, ma in lui prega la Chiesa intera, perché si tratta di un atto ufficiale. Per questo, parlando della preghiera del sacerdote, il Cardinale afferma non senza intima suggestione: «se la sua Fede lo soccorrerà, potrà sentire la sua preghiera delle Ore, le alternanze dei suoi versetti, la sua eco, come il coro della Gerusalemme celeste e della Comunione dei Santi [...] Nella storia dei Santi si sa che qualcuno di loro, recitando o cantando il divino uffizio, si trovò in compagnia della Vergine e degli Angeli. Vide e fu fortunato; ma tutti possono, se sanno elevare la propria anima fino a quel livello, credere di entrare ad accompagnare in qualche modo il cantico della eternità»(23). La conclusione che ne discende deve rappresentare un obbiettivo di vita per ogni sacerdote, perché «chi vive così la sua orazione rende a poco a poco inoperanti tutte le pericolose attrazioni mondane. Inquadra la propria vita ad un livello nel quale il sole splende»(24), riesce ad accettare ciò che non piace, anzi ne trae motivo per essere grato a Dio(25). Con tale soprannaturale risorsa si può guardare sereni l’avvenire perché, assicura il Cardinale rivolto ai suoi seminaristi, «vi possono essere momenti in cui dovrete camminare da soli, per difendere la verità, la giustizia, la sacra disciplina. Non abbiate paura: in quei momenti, se manterrete il livello della vostra Fede, Dio stesso camminerà avanti a voi, accanto a voi»(26).
L’epilogo dell’insegnamento rivolto dal card. Siri ai seminaristi non potrebbe essere più lieto, poiché tratta proprio della gioia. Già S. Tommaso riconosceva nella mancanza di gioia un grave difetto spirituale(27); Chesterton scopre nella gioia il segreto di ogni autentico cristiano e il barometro della vita spirituale. Per il Porporato ligure la gioia è una caratteristica precipua dell’uomo di Dio, anzi solo chi è in perfetta pace con il Signore e quindi con la sua coscienza conosce la vera gioia — nettamente diversa dall’allegria e dal divertimento — che resiste a tutte le stagioni e a tutte le inevitabili prove. «La gioia è uno stato dell’anima in pace con Dio, con se stessa, con gli altri. Non è solo “pace”, essa ha un altro elemento fondamentale: fruisce di una luce della quale gode e che spande su tutto l’ambiente, al quale (anche se repellente in se stesso) dà un’imperturbabile festosità. E’ dunque certamente un fatto interno, sottratto di sua natura — quando è vera — ai conturbanti movimenti esterni»(28). Dopo aver specificato di quale luce si tratti, osserva che «tale gioia coesiste benissimo con la serietà dell’aspetto, con la espressione del dolore e della preoccupazione, ma arriva sempre più facilmente al sorriso»(29). Colpisce come questo insegnamento ai futuri sacerdoti ‘si concluda con un caldo augurio vibrante dal cuore di un maestro che è padre e vuole la felicità dei suoi figli, questa gioia — egli ripete — ad onta di ogni ostacolo « ve la auguro e vi incito ad averla» perché «potete averla»(30). Veramente l’autentica autorità cristiana è genuina paternità da cui promana un fascino che i giovani avvertono e recepiscono per dare senso più alto e risposta più degna al dono della loro vita.
La preoccupazione pedagogica del card. Siri, espressa nella prima parte del volume, viene completata dal profondo senso di responsa¬bilità pastorale, dottrinale e spirituale verso i suoi sacerdoti. Il valore della testimonianza resa dall’Arcivescovo di Genova sulla vita sacerdotale si estende anche agli scritti indirizzati direttamente ai sacerdoti e raccolti nella seconda parte del presente volume. Egli stesso spiega il suo magistero sul sacerdozio alla luce della migliore tradizione ed esperienza pastorale. Conclude così una lettera pastorale scritta in occasione di un suo giubileo sacerdotale: «abbiamo detto quello che abbiamo imparato, durante la lunga preparazione, dai migliori nostri sacerdoti, venerandi testimoni della nostra migliore tradizione ed i cui nomi sono chiari nel ricordo di molti di voi. Abbiamo detto quello che riassume la esperienza di questi venticinque anni e che vorremmo illuminasse il rimanente cammino della nostra vita»(31). Importante per la vita della Chiesa, oltre che affascinante, questo richiamo al senso della Paradosis, sempre avvertito profondamente dai Padri della Chiesa, e non solo dei primi secoli. L’affermazione del card. Siri riecheggia un celebre testo agostiniano: «Illustres antistites Dei [...] quod invenerunt in Ecclesia, tenuerunt; quod didicerunt, docuerunt; quod a patribus acceperunt, hoc filiis tradiderunt»(32) e un altro ancora più sintetico: «Ecclesiam docuerunt, quod in Ecclesia didicerunt»(33). Nel solco di questa tradizione il Cardinale sottolinea la grandezza e necessità del sacerdozio, la sua paternità ed umanità, la purezza sacerdotale, le virtù proprie del sacerdote, il carattere fiduciale commesso dal Signore ai sacerdoti, il vero posto dei sacerdoti e gli strumenti a loro disposizione, il valore della croce nella loro vita, il sovraeminente do¬vere della santificazione propria ed altrui. Non potendo trattare analiticamente tutti questi argomenti, mi limito ad osservare che in essi la grande elevatezza dei principi è proporzionata alla concretezza delle soluzioni proposte per i problemi pratici, sino ad entrare nei particolari . Viene esposto, a seconda delle varie tematiche affrontate, il criterio per giudicare quello che va bene, misurare quello che va male, prevedere quello che andrà peggio e forse molto peggio.
Il dovere del pastore è quello di avvertire il gregge dei pericoli presenti e di quelli che si profilano per il futuro. Per questo il card. Siri soddisfa il suo grave dovere di pastore con lucide disamine della situazione presente e prospettando sicuri rimedi e felici soluzioni. In proposito mi piace ricordare in particolare le lettere pastorali ivi pubblicate: I complessi di inferiorità, Non mimetizzarsi, Il domani dei giovani sacerdoti, La paura. Il suo tono a volte, quando l’argomento lo richiede, si fa grave e, andando contro mode correnti, forse ha rischiato di essere impopolare(35). La preoccupazione di giovare al prossimo, infatti, può condurre facilmente a cercare il suo consenso, ma ciò corrisponde a quella brama di piacere agli uomini che rende estranei a Dio. S. Gregorio, il Grande, osserva in proposito nella sua Regola Pastorale: «E’ nemico del Redentore colui che attraverso le opere giuste che compie brama di essere amato dalla Chiesa in luogo di Lui; e così è reo di pensiero adultero come il servo per mezzo del quale lo sposo manda doni alla sposa ed egli brama di piacere agli occhi di lei». Al contrario, «le buone guide d’anime desiderano di piacere agli uomini ma solo per attirare il prossimo all’amore della verità»(36).
L’accostamento a questo classico della cultura cristiana che ha formato intere generazioni di sacerdoti e di vescovi «sull’arte di governare le anime» mi sembra quanto mai opportuno perché inserisce questo volume del card. Siri nell’aureo solco tracciato dalle grandi opere sul ministero sacerdotale. Concludendo, esprimo l’augurio che numerosissimi sacerdoti e aspiranti al sacerdozio possano, nella lettura di queste pagine, rinnovare l’entusiasmo della vocazione, accrescere la generosità della dedizione, illuminare la dottrina e il valore del sacerdozio, sentirne l’intima ed impareggiabile grandezza persuasi che «il mondo sta guardandosi attorno per cercare uomini che abbiano una certezza ed un fine più alto di loro»(37).


Card. P. Augustin Mayer, o.s.b.
Prefetto della Congregazione per i Sacramenti
e della Congregazione per il Culto Divino


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(1) Cfr. il discorso pronunciato da S. S. Giovanni Paolo II nel corso della beatificazione di Virginia Centurione Bracelli avvenuta a Genova il 26 settembre 1985, in «L’Osservatore Romano», 23-24 settembre 1985, p. 9.
(2) «Con un mondo in decomposizione non abbiamo bisogno degli eroi di Cervantes, ma di Santi! Che Dio ce li conceda tra voi! Ne Lo supplichiamo tutti giorni», Il sacerdozio cattolico, I, p. 83.
(3) Cfr. o.c., pp. 72-105.
(4) o.c., p. 81.
(5) Ibidem.
(6) o.c., pp. 23-45.
(7) o.c., p. 134.
(8) o.c., pp. 109-152. In particolare il card. Siri analizza il delicato problema della «manchevolezza di temperamento il quale dà, in forma spontanea e spesso incosciente, il modo di reagire a tutti gli stimoli esterni ed interni. Per lo più questi “toni” colorano la presentazione morale esterna di un uomo. Essi col tempo si sviluppano, mettono fuori una ossatura nodosa, forse ingombrante, indigesta per il prossimo. Ma poiché “linee” di temperamento, magari profonde dovute a certi coni d’ombra interiori, non avvistati a tempo (di timidezza, di emotività, di simpatia, ecc.), vengono in genere trascurate, non affiorano come affiora il peccato. I guai della convivenza umana in tutti i settori, anche familiari, sono dovuti a difetti di temperamento. Il bello è che i più non se li riconoscono o li ritengono affatto naturali e magari virtù: gli educatori familiari e non familiari in genere non li vedono a tempo, non li comprendono a dovere, non li umanizzano al punto giusto, con le conseguenze che tutti abbondantemente esperimentano, almeno, intorno a sé», p. 133.
(9) o.c., p. 84.
(10) o.c., p. 87.
(11) A. MANZONI, I promessi sposi, cap. XXX.
(12) Il sacerdozio cattolico, I, p. 92.
(13) o.c., p. 17.
(14) Cfr. I manuali di teologia, «Renovatio», 1979, fasc. II, pp. 149-152.
(15) Tale atteggiamento intellettuale rappresenta «l’ultima evoluzione dell’esistenzialismo moderno, ben più che dell’agnosticismo kantiano [...] Il dubbio è anche talvolta necessario, ma rimane sempre vero che è lo stato più umiliante della nostra intelligenza, perché in esso la stessa mente nostra non ha la forza di risolversi “in neutram contradictionis partem”. E’ uno stato di snervamento e non un decoro. Lo stesso deve dirsi della pura problematica, perché essa è una complicazione psicologica del dubbio», nel pres. vol., p. 19.
(16) o.c., pp. 18-20.
(17) o.c., p. 88.
(18) o.c., pp. 30-33.
(19) «Non abbiate bisogno di nascondervi, mai. L’abito ecclesiastico sarà la prima testimonianza, ma ora allenatevi a sentirne il valore e ad assimilano come una seconda natura [...] Sentirete la gioia di testimoniare così meglio il vostro Signore, vi sentirete alfieri suoi, netti e coraggiosi, con la onesta baldanza che la giovane età può sempre dare a tutto ciò che è più nobile», p. 103.
(20) Cfr. o.c., pp. 28-29, 78-81.
(21) o.c., p. 73.
(22) o.c., p. 34.
(23) o.c., pp. 99-100.
(24) o.c., p. 100.
(25) Cfr. o.c., p. 99.
(26) o.c., p. 102.
(27) Summa Theologica, II/II, 28, 1-4.
(28) Il sacerdozio cattolico, I, p. 96.
(29) Ibidem.
(30) o.c., p. 104.
(31) o.c., p. 162.
(32) Contra Julianum, 2, 10, 34.
(33) Contra Julianum opus imperfectum, 1, 117.
(34) Per queste ed altre particolari tematiche rimando il lettore al dettagliato e veramente prezioso indice analitico che correda il presente volume.
(35) «Non è mai stato nobile in tutti i tempi badare dove va la folla ed unirsi ad essa indiscriminatamente, accettare quello che al momento appare vincere e dominare, dar ragione a chi grida più forte», nel pres. vol., p. 193.
(36) La Regola Pastorale, 2, 8.
(37) Il sacerdozio cattolico, I, p. 252
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